Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 1039 del 17/01/2019

Cassazione civile sez. III, 17/01/2019, (ud. 14/02/2018, dep. 17/01/2019), n.1039

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CHIARINI Maria Margherita – Presidente –

Dott. OLIVIERI Stefano – Consigliere –

Dott. CIGNA Mario – Consigliere –

Dott. MOSCARINI Anna – Consigliere –

Dott. GUIZZI Stefano Giaime – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 26373-2016 proposto da

CASA MAMMA ROSA DI V.D. E C. S.A.S. in persona del legale

rappresentante p.t. V.D., elettivamente domiciliata in

ROMA, P.ZA COLA DI RIENZO 92, presso lo studio dell’avvocato

ELISABETTA NARDONE, rappresentata e difesa dagli avvocati GIUSEPPE

LA SPINA, MARIA ANNA SCIABOLA giusta procura speciale a margine del

ricorso;

– ricorrente –

contro

COMUNITA’ MONTANA DEI MONTI MARTANI SERANO E SUBASIO IN LIQUIDAZIONE

in persona dei Commissario Liquidatore p.t. R.D.,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA E. GIANTURCO, 1, presso lo

studio dell’avvocato ANTONIO PAZZAGLIA, rappresentata e difesa

dall’avvocato MASSIMO MARCUCCI giusta procura speciale in calce al

controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 292/2016 della CORTE D’APPELLO di PERUGIA,

depositata il 15/06/2016;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

14/02/2018 dal Consigliere Dott. STEFANO GIAIME GUIZZI.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. La società Casa Mamma Rosa di V.D. & C. S.a.s. (d’ora in poi, “Casa Mamma Rosa”) ricorre, sulla base di quattro motivi, per la cassazione della sentenza n. 292/16 del 15 giugno 2016 dalla Corte di Appello di Perugia, che – rigettando il gravame esperito dall’odierna ricorrente contro la sentenza n. 319/14 del 20 giugno 2014, resa dal Tribunale di Spoleto – ha confermato la condanna della stessa a risarcire alla Comunità Montana dei Monti Martani, Serano e Subasio (d’ora in poi, “Comunità montana”) il danno da mancata tempestiva riconsegna del compendio immobiliare da quest’ultima datole in comodato, danno stimato in Euro 48.750,00, oltre interessi legali dalla prima sentenza al saldo, condannandola anche al pagamento delle spese del grado.

2. Riferisce, in punto di fatto, l’odierna ricorrente di aver stipulato il 22 dicembre 1997 un contratto – denominato “comodato d’uso”, ma a suo dire costituente una vera e propria locazione immobiliare – con cui la predetta Comunità montana le concedeva, per la durata di nove anni, un compendio di terreni e fabbricati siti nel Comune di Trevi, affinchè fosse esercitata attività turistico-recettiva di case per vacanze, previa una serie di opere eseguire senza alcun onere per la concedente.

Deduce, altresì, che le opere previste a suo carico dal contratto richiedevano una spesa pari a Lire 150.000.000, essendo stato anche stabilito che la loro mancata esecuzione comportasse, per la Comunità montana, la facoltà di recedere dal contratto, con diritto di pretendere, oltre alla restituzione del compendio, anche il risarcimento dei danni.

Ciò premesso, riferisce che, alla scadenza del novennio, il 22 dicembre 2012, la Comunità Montana – previa disdetta – richiedeva la restituzione del complesso immobiliare come ristrutturato, incontrando l’opposizione di essa Casa Mamma Rosa, la quale lamentava che l’attività ricettivo-turistica aveva avuto inizio, a causa di ritardi nel rilascio degli atti abilitativi di natura amministrativa, solo a distanza di tre anni dalla stipula del contratto, ciò che comportava, a suo dire, il posticipo di un triennio della scadenza del contratto.

A fronte di tale suo comportamento, la Comunità Montana – in forza di atto giuntale n. 91 del 13 dicembre 2007 (che l’avrebbe autorizzata, però, ad agire, secondo l’odierna ricorrente, per il solo rilascio del compendio immobiliare) – adiva il Tribunale spoletino per conseguire, oltre al rilascio coattivo, anche la condanna di essa Casa Mamma Rosa, sia al pagamento della penale, prevista dall’art. 2 del contratto per il ritardo nella restituzione, il cui importo era indicato in Euro 338.828,72, sia al risarcimento dei danni.

Resisteva in giudizio Casa Mamma Rosa, proponendo anche domanda riconvenzionale con cui chiedeva accertarsi la natura locatizia del contratto concluso, con conseguente applicazione della disciplina di cui alla L. 27 luglio 1978, n. 392, quanto alla disdetta, alla durata del rapporto e all’indennità di avviamento; in via subordinata, eccepiva che il contratto sarebbe venuto a scadenza non prima del 14 febbraio 2009, chiedendo ulteriormente – ove esso fosse stato effettivamente qualificato come comodato – che la Comunità Montana fosse condannata (previo occorrendo il licenziamento di CTU) al pagamento della somma di Euro 77.462,53, ex art. 1808 cod. civ., somma corrispondente alle spese sostenute per opere di ristrutturazione del caseggiato per adibirlo ad attività turistico-ricettiva di casa per vacanza, nonchè al risarcimento del danno.

L’adito Tribunale provvedeva come sopra ricordato, respinta ogni ulteriore domanda.

Proposto appello da Casa Mamma Rosa, lo stesso – come indicato in premessa – veniva rigettato.

3. Avverso tale decisione ha proposto ricorso per cassazione Casa Mamma Rosa, sulla base di quattro motivi.

3.1. Con il primo motivo – formulato ai sensi, congiuntamente, dell’art. 360 cod. proc. civ., comma 1, nn. 3) e 5) – si denuncia “difetto di capacità processuale della Comunità in ordine alla domanda di condanna al pagamento della penale e ai danni”, in particolare “sub specie” di “violazione degli artt. 84 e 182 cod. proc. civ. e dell’art. 1711 cod. civ.”, oltre al vizio di omesso esame di fatto decisivo per il giudizio.

Si ribadisce che la Delib. giuntale 13 dicembre 2007, n. 91 conferiva l’incarico di agire esclusivamente per il rilascio del bene, di talchè la proposizione della domanda anche per il pagamento della penale e per il risarcimento del danno sarebbe oltre il mandato, considerato come “la volontà negoziale della pubblica amministrazione non possa mai desumersi da comportamenti concludenti, dovendo, ogni volta, essere espressa in forma scritta a pena di nullità”. L’evenienza descritta, dunque, si risolverebbe in un difetto di autorizzazione, destinato a tradursi in un difetto di capacità processuale (è citata, a sostegno, Cass. Sez. 1, sent. 1 settembre 1997, n. 8297, Rv. 507392-01).

D’altra parte, l’omesso esame della delibera suddetta integrerebbe pure il vizio di cui all’art. 360 cod. proc. civ., comma 1, n. 5).

3.2. Il secondo motivo – proposto anch’esso ai sensi, congiuntamente, dell’art. 360 cod. proc. civ., comma 1, nn. 3) e 5) – ripropone la questione relativa alla qualificazione giuridica del contratto come “comodato modale ovvero contratto di locazione di immobile ad uso ricettivo-turistico”, ipotizzando violazione e falsa applicazione dell’art. 1803 cod. civ. e degli artt. 1571,1362,1363,1366 e 1371 cod. civ. e della L. n. 392 del 1978, artt. 28,29 e 34.

Si contesta la qualificazione del contratto intercorso tra le parti come “comodato modale”, in quanto basata sul rilievo della “esistenza di un corrispettivo irrisorio a fronte del quale vi è un evidente sproporzione delle prestazioni”, corrispettivo “consistente nell’esecuzione di una pluralità di opere da parte del comodatario (…) per un ammontare di Lire 150.000.000”, sicchè esso “non poteva che rappresentare una vera e propria controprestazione anche in rapporto alle gravose obbligazioni assunte da entrambe le parti per rendere il bene idoneo all’uso prestabilito”.

Si rileva, al riguardo, che nel comodato modale il cd. “modus” non costituisce “il contrappeso del godimento della cosa concessa in uso, ma si mantiene nei limiti strutturali e funzionali della fattispecie contrattuale”, sicchè, ove esso integri “una vera e propria controprestazione, si dovrà ritenere che esso infici l’originaria gratuità del comodato”, evenienza da escludere – in applicazione di un principio “quantitativo” – solo quando quella posta a carico del comodatario sia “una prestazione economica di lieve entità”.

Orbene, nel qualificare quello in esame alla stregua di comodato modale, la Corte perugina – prosegue la ricorrente – ha attribuito rilievo all’intestazione del contratto, all’esplicito richiamo nel contenuto dello stesso alle norme del codice civile ad esso dedicate, e al supposto carattere “irrisorio” del corrispettivo gravante sulla comodataria.

Essa, per contro, piuttosto che dare rilievo al “nomen iuris” – e, così, al dato letterale – avrebbe dovuto porsi alla ricerca “della comune intenzione delle parti” (artt. 1362 e 1363 cod. civ.), valorizzando il fatto che esso prevedeva “obblighi consistenti ed onerosi unicamente a carico del comodatario, che avrebbe dovuto eseguire opere per almeno vecchie Lire 150.000.000 che sarebbero rimaste poì acquisite in favore della Comunità senza alcun obbligo a suo carico”. Orbene, nel disattendere tale metodo, sarebbe stato violato innanzitutto l’art. 1366, non essendo stata la qualificazione del contratto improntata a buona fede, nonchè l’art. 1371 cod. civ., secondo cui “il contratto deve essere inteso in senso meno gravoso per l’obbligato se a titolo gratuito”, ovvero, se oneroso, “nel senso che realizzi l’equo contemperamento degli interessi delle parti”. Inoltre, la previsione secondo cui, in caso di inadempimento della parta comodataria ai propri obblighi, costituiva “facoltà della Comunità Montana di recedere dal contratto pretendendo l’immediata restituzione dell’immobile oltre al risarcimento del danno” confermerebbe “come il comodato non fosse stato concesso solo per le esigenze di Casa Mamma Rosa, ma anche a vantaggio della Comunità”.

Il corretto esito dell’interpretazione delle clausole contrattuali sarebbe dovuto consistere nella qualificazione del contratto come locazione di immobile ad uso turistico-ricettivo, con conseguente applicazione della disciplina di cui alla L. n. 392 del 1978, di talchè la disdetta non sarebbe stata intimabile sei mesi prima della scadenza (come avvenuto), bensì diciotto mesi prima (art. 28), dovendo inoltre contenere – trattandosi di prima scadenza – un diniego motivato, nel caso di specie assente, circa la mancata prosecuzione del contratto (art. 29). Inoltre, la durata del contratto, trattandosi di locazione ad uso ricettivo-turistico, sarebbe stata di anni nove più nove, dovendosi, infine, condizionare l’ordine di rilascio (art. 34) al pagamento dell’indennità di avviamento.

3.3. Con il terzo motivo – che ipotizza, simultaneamente, violazione dell’art. 360 cod. proc. civ., nn. 3), 4) e 5) – si deduce “violazione dell’art. 1808 cod. civ.” e, “in subordine”, degli “artt. 1592 e 1593 cod. civ.”, oltre che “violazione dell’art. 132 cod. proc. civ.”.

Come già il Tribunale spoletino, anche la Corte umbra – peraltro, motivando “per relationem” rispetto alla pronuncia del primo giudice, ciò che di per sè ne comporterebbe la nullità ai sensi dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4), – ha escluso per l’odierna ricorrente la possibilità di ottenere “la restituzione di quanto versato per la realizzazione delle opere da essa eseguite, con ciò violando l’art. 1808 cod. civ., che esclude il diritto del comodatario al rimborso delle spese, anche straordinarie, sostenute per la conservazione della cosa se non siano “necessarie e urgenti”. Nella specie, però, la necessità e l’urgenza sarebbero attestate dal fatto che in difetto degli interventi previsti “l’immobile non avrebbe potuto essere goduto per il fine per il quale veniva concesso, ossia adibirlo ad attività turistico-ricettiva, ovvero per casa vacanza”.

D’altra parte, in subordine, anche ad escludere la necessità ed urgenza delle opere, il diritto al loro rimborso deriverebbe da un’applicazione analogica degli artt. 1592 e 1593 cod. civ., “in quanto costituenti addizioni e miglioramenti che si risolvevano a favore della Comunità, in quanto non separabili” dall’immobile.

3.4. Infine, con il quarto motivo – che deduce anch’esso, simultaneamente, violazione dell’art. 360 cod. proc. civ., nn. 3), 4) e 5) – è ipotizzata “violazione dell’art. 1384 cod. civ. e dell’art. 1226 cod. civ.”, oltre che dell'”art. 132 c.p.c., n. 4) e art. 342 cod. proc. civ.”.

Si deduce, in primo luogo, che – a prescindere dalla qualificazione del contratto come comodato, ovvero come locazione – “nessuna penale sarebbe spettata alla Comunità”.

Ci si duole, poi, del fatto che nessuna statuizione è stata adottata dalla Corte umbra in relazione al motivo di gravame sulla debenza (e, in subordine, riduzione) della penale stessa, avendo anche in questo caso il giudice di appello motivato “per relationem”, donde l’ipotizzata nullità per difetto di motivazione.

Si sottolinea, inoltre, come la penale sia sempre riducibile (fino, s’ipotizza, alla non debenza) qualora la parte che vi sarebbe tenuta non risulti inadempiente, evenienza ricorrente nel caso di specie, avendo Casa Mamma Rosa provveduto alla ristrutturazione del caseggiato con opere – acquisite dalla Comunità Montana – dal costo complessivo di Euro 150.000.000.

L’assenza di inadempimento renderebbe, dunque, illegittimo il riconoscimento della penale e la sua determinazione anche nel “quantum”, sicchè risulterebbe violato pure l’art. 1226 cod. civ..

4. Ha resistito con controricorso la Comunità Montana chiedendo il rigetto dell’avversaria impugnazione, in quanto infondata in ogni suo motivo.

In particolare, quanto al primo motivo, si assume che la domanda di risarcimento del danno risulta strettamente connessa a quella principale, avente ad oggetto il rilascio dei beni dati in comodato, donde l’infondatezza della censura circa il difetto di valida procura “ad litem”.

In relazione, invece, al secondo motivo, si evidenzia come il tenore letterale della convenzione riveli, nella specie, molto chiaramente il contenuto della volontà negoziale delle parti, soprattutto considerando che il pagamento del canone di locazione costituisce la principale e fondamentale obbligazione del conduttore.

In ordine, poi, al terzo motivo, si esclude la violazione dell’art. 1808 cod. civ., in considerazione del fatto che la norma “de qua” prevede il rimborso delle sole spese straordinarie, in quanto necessarie ed urgenti, e non pure di quelle compiute dal comodatario al fine di servirsi della cosa.

Infine, non fondata sarebbe anche la quarta censura, dal momento che, in presenza di un colpevole ritardo di Casa Mamma Rosa nel rilascio degli immobili oggetto del contratto, del tutto legittima sarebbe stata la richiesta avanzata da essa controricorrente di condanna della comodataria all’adempimento della clausola penale di cui all’art. 2 del contratto.

5. Ha insistito nelle proprie tesi la ricorrente, con memoria.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

6. Il ricorso va accolto, nei limiti di seguito precisati.

6.1. Il primo motivo di ricorso non è fondato.

6.1.1. Sul punto deve, innanzitutto, osservarsi che il precedente citato dalla ricorrente a sostegno della censura (Cass. Sez. 1, sent. 1 settembre 1997, n. 8297, Rv. 507392-01) non si attaglia al caso di specie, trovando la sua peculiare ragion d’essere nel fatto che la chiamata di terzo – non specificamente autorizzata, nel caso deciso dal summenzionato arresto di questa Corte – implica l’esercizio di un’azione ulteriore, con allargamento del contraddittorio nei confronti di un soggetto estraneo alla lite “ab origine” instaurata, rispetto a quella in cui sia stata autorizzata la mera resistenza in giudizio.

Per contro, nel caso qui in esame, l’autorizzazione ad agire per il rilascio del bene, a cui sia seguita la proposizione pure della domanda consequenziale di risarcimento danni (quelli previsti dalla penale pattuita, più altri da essa non coperti), implica semplice estensione e non un mutamento – del “thema decidendum”, lasciando fermi gli originari contraddittori. D’altra parte, che la delibera autorizzativa possa presentare una certa “elasticità” è quanto ha ritenuto questa Corte, la quale – con riferimento alla procura ex art. 365 cod. proc. civ. – ha affermato che “nel codice di rito la “specificità” è in particolare contemplata solo per la procura a ricorrere per cassazione, non per eventuali prodromiche delibere autorizzative al rilascio di essa”, motivando tale conclusione sul rilievo che, “perfino in materia del conferimento del potere della rappresentanza sostanziale in relazione ai rapporti per i quali si conferisce il potere di rappresentanza processuale, nonostante il rigore ermeneutico in proposito, da anni ormai questa Corte di legittimità afferma che non è necessaria la specificazione aprioristica dei singoli rapporti in relazione ai quali è attribuita la rappresentanza sostanziale (e per i quali è perciò possibile l’attribuzione di rappresentanza processuale), potendosi pervenire alla individuazione dei poteri sostanziali delegati anche per via indiretta e/o in relazione alla natura controversa dei rapporti “de quibus”” (così, in motivazione, Cass. Sez. 5, sent. 3 dicembre 2008, n. 28662).

Orbene, se tali principi sono stati affermati quanto (addirittura) all’individuazione dei rapporti in relazione al quale sia conferito lo “ius postulandi”, essi, a maggior ragione, valgono con riferimento al contenuto delle iniziative che possono essere assunte dal difensore nell’ambito del singolo rapporto nel quale esso esplichi il proprio mandato.

In ogni caso, il motivo si palesa vieppiù privo di fondatezza, alla stregua del principio enunciato da questa Corte relativamente ad un caso in cui si contestava la ritualità della costituzione in giudizio proprio di una Comunità Montana, giacchè avvenuta sulla base di delibera consiliare priva di motivazione. Questa Corte, difatti, ha ritenuto che nel “nuovo ordinamento delle autonomie locali recato dal D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267, in mancanza di una disposizione statutaria che la richieda espressamente, l’autorizzazione alla lite da parte degli organi collegiali (consiglio o giunta) non costituisce atto necessario ai fini del promuovimento di azioni o della resistenza in giudizio da parte del presidente della comunità montana, che è organo responsabile dell’Amministrazione locale, munito di rappresentanza legale della stessa (secondo il combinato disposto del predetto D.Lgs. n. 267, artt. 2 e 50); ne consegue che l’eventuale illegittimità della delibera autorizzativa della giunta non può incidere sulla validità della costituzione in giudizio della comunità per mezzo del suo presidente” (Cass. Sez. Lav., 13 marzo 2009, n. 6227, Rv. 607680-01).

Risulta, dunque, sancito il principio della irrilevanza – “in subiecta materia” – delle delibere degli organi collegiali di una Comunità montana, inidonea ad incidere sulla valida costituzione della stessa tramite il suo Presidente.

6.1.2. Neppure coglie nel segno l’altra censura articolata con il primo motivo, ovvero quella di “omesso esame di fatto decisivo per il giudizio”.

Al riguardo è sufficiente osservare che “l’omesso esame di fatti rilevanti ai fini dell’applicazione delle norme regolatrici del processo” (nella specie, appunto, il supposto difetto di “ius postulandi” in relazione alla domanda risarcitoria) “non è riconducibile al vizio ex art. 360 c.p.c., n. 5), quanto, piuttosto, a quello ex art. 360 c.p.c., n. 4), ovvero a quelli di cui ai precedenti numeri 1) e 2), ove si tratti – in quest’ultimo caso – di fatti concernenti l’applicazione delle disposizioni in tema di giurisdizione o competenza” (Cass. Sez. 3, sent. 8 marzo 2017, n. 5785, Rv. 6433398-01).

6.2. Il secondo motivo è, invece, fondato, sebbene nei termini di seguito meglio illustrati, ovvero come falsa applicazione dell’art. 1803 cod. civ..

6.2.1. In proposito, occorre muovere dalla constatazione che è risalente – nonchè costante – nel tempo il principio enunciato da questa Corte e secondo cui il “carattere di essenziale gratuita del comodato non viene meno se vi inerisce un “modus” posto a carico del comodatario”, fermo restando che “questo, però, non può essere tale da snaturare il contenuto del rapporto, privandolo del requisito essenziale della gratuità” (cfr. Cass. Sez. 3, sent. 13 febbraio 1968, n. 488, Rv. 331535-01; in senso conforme Cass. Sez. 3, sent. 15 ottobre 1973, n. 2591, Rv. 366061-01), requisito destinato a venire meno, tuttavia, quando il vantaggio conseguito dal comodatario “si pone come corrispettivo del godimento della cosa con natura di controprestazione” (Cass. Sez. 2, sent. 25 settembre 1990, n. 9718, Rv. 469347-01; in senso conforme Cass. Sez. 3, sent. 4 giugno 1997, n. 4976, Rv. 504930- 01, nonchè, più di recente, Cass. Sez. 3, sent. 15 gennaio 2003, n. 548, Rv. 559734- 01; Cass. Sez. 3, sent. 28 giugno 2005, n. 13920, Rv. 582709-01; Cass. 3 Sez., sent. 11 febbraio 2010, n. 3087, Rv. 611464-01). In questa stessa prospettiva, pertanto, si è anche affermato che la “figura atipica del precario immobiliare oneroso è caratterizzata dalla concessione in godimento di un bene immobile che, pur remunerata (normalmente in maniera parziale), sia provvisoria, revocabile e finalizzata alla custodia del bene”, sicchè essa “si distingue sia dal comodato, ancorchè precario, per la presenza di un corrispettivo, sia dalla locazione per la possibilità riconosciuta al concedente di far cessare in qualsiasi momento il godimento” (Cass. Sez. 3, sent. 18 ottobre 1986, n. 6146, Rv. 448433-01).

Più di recente, inoltre, si è posto l’accento – in particolare – sulla necessità di valutare “l’entità dell’onere economico” posto a carico del comodatario, precisandosi che la gratuità del comodato è “compatibile soltanto con la previsione di un “modus” di entità così modesta da non assumere natura di controprestazione” (così, in motivazione, Cass. Sez. 3, sent. 13920 del 2005, cit; insiste, del pari, sul dato della “consistenza” del vantaggio anche Cass. Sez. 3, sent. n. 3087 del 2010, cit.).

6.2.2. Non si è conformata a questi a questi principi la sentenza impugnata.

Se è vero, infatti, che “il vantaggio” acquisito dal comodante non necessariamente consistente, in quanto tale, nel pagamento di una somma di danaro – deve presentarsi di “entità così modesta da non assumere natura di controprestazione” (snaturando, altrimenti, la gratuità dell’operazione negoziale), risulta errata la decisione della Corte perugina laddove ha affermato il carattere irrisorio della esecuzione di opere sulla “res” oggetto del contratto (destinate a permanere dopo la sua cessazione), per un ammontare che lo stesso giudice di appello stima in Lire 150.000.000.

Senza, poi, tacere del fatto che la natura di vera e propria controprestazione, rivestita dalla esecuzione delle opere suddette, è confermata dalla previsione di apposita clausola che, in mancanza della loro realizzazione, attribuiva alla Comunità Montana la facoltà di recedere dal contratto, pretendendo, oltre all’immediata restituzione dell’immobile, pure il risarcimento del danno.

Orbene, quantunque sia possibile – nei contratti recanti un “modus” – azionare la risoluzione per inadempimento, se contrattualmente prevista (art. 793 c.c., comma 3), questa Corte ha, nondimeno, precisato che “la risoluzione per inadempimento dell’onere non può avvenire “ipso iure”, senza valutazione di gravità dell’inadempimento, in forza di clausola risolutiva espressa, istituto che, essendo proprio dei contratti sinallagmatici, non può estendersi al negozio a titolo gratuito, cui pure acceda un “modus”” (Cass. Sez. 2, sent. 20 giugno 2014, n. 14120, Rv. 631172-01). Simmetricamente, quindi, anche la facoltà prevista nel caso di specie – di recedere “ipso iure” dal contratto (e di agire per il risarcimento del danno), riconosciuta alla parte concedente la disponibilità della “res” qualora l’altra non avesse provveduto all’esecuzione delle opere contrattualmente individuate, vale a connotare in termini di vera e propria “sinallagmaticità” i reciproci impegni negoziali, confermando che quella assunta da Casa Mamma Rosa era un’autentica controprestazione.

Su queste basi, dunque, si impone l’annullamento della sentenza, con rinvio al giudice di Appello, perchè, esclusa – in applicazione dei principi sopra enunciati – la natura di comodato del contratto intercorso tra Casa Mamma Rosa e la Comunità Montana, valuti quale sia la disciplina ad esso applicabile, traendone le dovute conseguenze.

6.3. I motivi terzo e quarto restano assorbiti dall’accoglimento del secondo.

7. Le spese di lite, anche in relazione al presente giudizio, saranno determinate all’esito del giudizio di rinvio.

PQM

La Corte rigetta il primo motivo di ricorso, accoglie il secondo e dichiara assorbiti il terzo ed il quarto, cassando, per l’effetto, la sentenza impugnata, rinviando alla Corte di Appello di Perugia in diversa composizione per la decisione nel merito, oltre che per la liquidazione delle spese anche del presente giudizio.

Così deciso in Roma, all’esito di adunanza camerale della Sezione Terza Civile della Corte di Cassazione, il 14 febbraio 2018.

Depositato in Cancelleria il 17 gennaio 2019

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