Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 10385 del 12/05/2011

Cassazione civile sez. trib., 12/05/2011, (ud. 04/01/2011, dep. 12/05/2011), n.10385

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. D’ALONZO Michele – rel. Presidente –

Dott. BERNARDI Sergio – Consigliere –

Dott. PARMEGGIANI Carlo – Consigliere –

Dott. SAMBITO Maria Giovanna Concetta – Consigliere –

Dott. COSENTINO Antonello – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

Avv. R.F., elettivamente domiciliato in Roma alla VIA F.

P. Dè Calboli n. 1, difeso da se medesimo;

– ricorrente –

contro

L’AGENZIA delle ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore,

elettivamente domiciliata in Roma alla Via dei Portoghesi n. 12

presso l’Avvocatura Generale dello Stato che la rappresenta e

difende;

– controricorrente –

per la revocazione della sentenza n. 22314/08 depositata il 4

settembre 2008 da questa sezione.

Udita la relazione svolta nella Pubblica udienza del 4 gennaio 2011

dal Cons. Dr. Michele D’ALONZO;

sentite le difese delle parti, perorate dall’avv. R.F.,

per sè stesso, e dall’avv. Gianna Maria DE SOCIO (dell’Avvocatura

Generale dello Stato), per l’Agenzia;

udito il P.M., in persona dell’Avvocato Generale Dr. CICCOLO Pasquale

Paolo Maria, il quale ha concluso per la declaratoria di

inammissibilità del ricorso e, in subordine, per l’accoglimento solo

del primo motivo.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con ricorso notificato il 20 ottobre 2009 all’AGENZIA delle ENTRATE (depositato il 6 novembre 2009), l’avv. R.F. – premesso (a) che detta Agenzia aveva impugnato la sentenza (65/01/05) con la quale la Commissione Tributaria Regionale del Lazio aveva annullato “la cartella di pagamento posta a base della pretesa creditoria dell’erario” e (b) che questa sezione (sentenza n. 22314/08, depositata il 4 settembre 2008), in accoglimento del ricorso dell’Agenzia, aveva deciso la causa nel merito respingendo l'”originario” suo ricorso, in forza di due motivi, chiedeva di revocare quest’ultima decisione, “perchè affetta da errore di fatto”, di accogliere il ricorso dell’Agenzia solo per i “contributi previdenziali di ricongiunzione” e non anche per “quelli integrativi”, nonchè di dichiarare, “comunque”, “non dovute le sanzioni”.

Nel controricorso notificato il 27 novembre 2009 (depositato il 15 dicembre 2009) l’Agenzia intimata concordava (“sembrerebbe fondato”) sul primo motivo ed instava per il rigetto del secondo.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Nella sentenza gravata si legge quanto segue. A. “Svolgimento del processo”.

” R.F. impugnava in sede giurisdizionale la cartella di pagamento con cui il competente Ufficio Finanziario recuperava a tassazione, ai fini IRPEF per l’anno 1998, i contributi previdenziali di ricongiunzione ed i contributi previdenziali integrativi, esposti in dichiarazione ed irrogava le connesse sanzioni”:

“L’adita Commissione Tributaria Provinciale di Roma accoglieva il ricorso, limitatamente alle sanzioni, con decisione che, sull’appello del contribuente, veniva riformata dalla C.T.R. …”: “in particolare, la Commissione di secondo grado riteneva di dover annullare in toto la cartella, opinando che, tanto i contributi previdenziali di ricongiunzione quanto quelli integrativi, fossero da considerare obbligatori e, come tali, deducibili”.

“Con ricorso notificato il 21 maggio 2006, l’Agenzia delle Entrate, ha chiesto la cassazione dell’impugnata decisione”.

“Il contribuente, resiste con controricorso, notificato il 4 luglio 2006, e memoria 13 giugno 2008, chiedendo che il ricorso venga rigettato”.

“Con istanza 25 ottobre 2007, il Sostituto Procuratore Generale ha chiesto l’accoglimento del ricorso per manifesta fondatezza, ex art. 375 c.p.c.”.

B. “Motivi della decisione”.

“Visto il ricorso, con cui l’Agenzia delle Entrate censura l’impugnata sentenza per violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 10, comma 1, lett. E) e successive modifiche, sotto tre profili, ed art. 11 preleggi, comma 1”.

“Visto il controricorso del contribuente e la memoria depositata in vista dell’udienza camerale”.

“Vista, pure, la richiesta del Sostituto Procuratore Generale”.

“Considerato che i giudici di appello hanno ritenuto deducibili i contributi di che trattasi, alla stregua dello ius superveniens, rappresentato dal D.Lgs. n. 47 del 2000, art. 13, comma 1, lett. a), n. 1, riconoscendo a tale disposizione efficacia retroattiva, avuto riguardo alla relativa natura, considerata meramente esplicativa e non innovativa”.

“Considerato che tale decisum fa malgoverno delle decisioni di questa Corte che, in pregresse pronunce, per un verso, ha escluso che la norma citata abbia natura di interpretazione autentica e, sotto altro profilo, ha dichiarato che alla stregua della normativa previgente alla entrata in vigore (1 gennaio 2001) della novella introdotta dal D.Lgs. n. 47/2000, la deducibilità era ammessa esclusivamente per i contributi previdenziali ed assistenziali versati in ottemperanza a disposizioni di legge e non anche, come nel caso, la dove i versamenti siano connessi ad una scelta del lavoratore (Cass. n. 1605/2006, n. 1642/2005, n. 17020/2004)”.

“Considerato, conclusivamente, che il ricorso va accolto e, per l’effetto, cassata l’impugnata sentenza, la causa, in applicazione dei principi espressi dalle richiamate pronunce, può essere decisa nel merito con il rigetto dell’originario ricorso del contribuente”.

2. Il ricorrente chiede la revocazione di tale decisione ai sensi dell’art. 391 bis c.p.c., adducendo due ragioni.

A. Con la prima l’avv. R. denunzia il “mancato rilievo del giudicato interno formatosi a seguito della non proposizione dell’appello incidentale da parte dell’Agenzia delle Entrate” ed espone:

– “la … Corte nel rigettare il ricorso originario del contribuente è incorsa in un chiaro ed evidente stravolgimento degli atti di causa”;

– “sebbene infatti la stessa Agenzia delle Entrate ricorrente si fosse limitata nelle proprie conclusioni a chiedere la riforma della sentenza di appello emessa dalla Commissione Tributaria Regionale, la sentenza revocanda ha frainteso il contenuto della richiesta e lo stesso thema decidendum”;

– “tra le parti infatti era evidente che l’annullamento delle sanzioni di cui alla cartella di pagamento impugnata dal ricorrente era divenuto definitivo; allorchè l’avv. R.F. propose gravame avverso la sentenza che pur annullando le sanzioni aveva mantenuto inalterata la pretesa patrimoniale dell’Erario, l’Ufficio non propose appello incidentale di modo che sulla non debenza delle sanzioni si era formato chiaramente un giudicato interno che la Corte, anzichè disattendere, avrebbe dovuto rilevare d’ufficio”;

– “… a prescindere dalla esistenza del giudicato formatosi per la mancata impugnativa in via incidentale, la Corte avrebbe dovuto rilevare che mai è stata introdotta dalle parti nel giudizio di Cassazione la questione inerente alle sanzioni già annullate in primo grado dalla Commissione Provinciale di Roma”: “basti osservare il tenore delle conclusioni e del ricorso nel suo complesso a firma dell’Avvocato Generale dello Stato ove si legge in ossequio al principio di autosufficienza del ricorso ex art. 366 c.p.c. …” (omesso qui il testo del ricorso dell’Agenzia);

– “la … Corte per mero errore di fatto (non vi è traccia nella parte motiva di indicazioni che lascino ipotizzare una diversa volontà) ha violato due principi cardine dell’ordinamento, non riconoscendo il giudicato formatosi ex art. 345 c.p.c., e pronunciando ultra petita ha finito con l’emettere una pronuncia che, in materia processuale tributaria, ha di fatto riattribuito validità: ed efficacia ad un atto della Pubblica Amministrazione parzialmente annullato con una sentenza passata in giudicato”;

– “detto errore è poi chiaramente desumibile dal corpo della sentenza stessa laddove si legge testualmente: “L’adita Commissione Tributaria provinciale di Roma, accoglieva il ricorso, limitatamente alle sanzioni, con decisione che, sull’appello del contribuente, veniva riformata dalla CTR …”: “il passo dimostra inequivocabilmente che l’omissione è stato frutto di un mero errore materiale della Suprema Corte che immediatamente dopo da atto che in particolare, la Commissione di secondo grado riteneva di dover annullare in toto la cartella, opinando che tanto i contributi previdenziali di ricongiunzione quanto quelli integrativi, fossero da considerare obbligatori, e come tali, deducibili”.

“In buona sostanza la Corte pur avendo a disposizione tutti gli elementi da cui si ricavava l’esistenza del giudicato, ha rigettato l’originario ricorso per mero errore di fatto, non essendosi avveduta di non essere mai stata investita della questione inerente alle sanzioni annullate definitivamente”.

B. Con l’altra ragione il ricorrente denunzia “travisamento del contenuto del ricorso e del contro ricorso sfociato in omessa pronuncia da parte della Suprema Corte a causa di mero errore di fatto” ed espone:

– “a riprova dell’erronea percezione del contenuto degli atti di causa milita una ulteriore osservazione di immediato riscontro”;

– “la Corte su ricorso dell’Ufficio con i tre motivi del gravame era stata chiamata a decidere sulla deducibilità dei contributi previdenziali di ricongiunzione ed integrativi in quanto obbligatori o meno ai sensi del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 10, comma 1, lett. E”;

– “la Corte nella motivazione richiama tutti i propri precedenti in materia accomunando però involontariamente contributi previdenziali di ricongiunzione ed integrativi quando al contrario le pronunce citate hanno chiaramente ad oggetto i primi ma non già i secondi. Ad un attento esame del materia del decidere, degli atti di parte e della motivazione della sentenza risulta evidente che la Corte ha travisato i fatti a tal punto da non distinguere non solo il limitato thema decidendum (come osservato sopra limitato alla deducibilità dei contributi previdenziali di ricongiunzione ed integrativi e non anche delle sanzioni illo tempore irrogate ed in seguito definitivamente annullate) ma addirittura di non tenere distinti i contributi previdenziali di ricongiunzione (oggetto dei primi due motivi del ricorso dell’Ufficio) da quelli integrativi (oggetto del terzo motivo di gravame), motivando espressamente sui primi ma non già sui secondi e pertanto lasciando irrisolta in punto di diritto la questione attinente alla deducibilità dei contributi integrativi in quanto contributi obbligatori”; – “la Corte insomma nella motivazione di cui alla revocanda sentenza da un lato dichiara di dover statuire sulla questione relativa alla applicabilità con efficacia retroattiva del D.Lgs. n. 47 del 2000, art. 1, comma 13, lett. a), n. 1 (avente ad oggetto la disposizione i soli contributi previdenziali di ricongiunzione) ma, per errore di fatto, non distinguendo la diversa natura dei contributi oggetto di decisione e di impugnativa, statuisce anche su quelli integrativi ed infine, come denunciato nel primo motivo, sulle sanzioni ormai annullate con sentenza di primo grado non sottoposta a gravame”;

– “il ricorrente in questa sede pertanto ribadisce le osservazioni avverso il terzo motivo di gravame dell’Ufficio già proposte nel contro ricorso; nel caso di specie la Suprema Corte con riferimento ai contributi integrativi (di natura obbligatoria come confermato da granitica giurisprudenza della Corte adita a differenza dei contributi di ricongiunzione) avrebbe dovuto rilevare che le contestazioni in merito sollevabili dall’Ufficio non avrebbero potuto essere avanzate in sede di accertamento formale ex art. 36 ter D.P.R. n. 600 del 1973 bensì avrebbero richiesto l’emissione di apposito avviso di accertamento”;

– “la questione dovrà essere espressamente affrontata dalla Corte in sede di giudizio rescissorio in quanto precedentemente omessa per via della precedente promiscua trattazione conseguente a mero errore di fatto per erronea lettura degli atti di causa”.

C. “Tutto ciò premesso il ricorrente” chiede che questa Corte:

(2) “revochi ex art. 391 bis c.p.c., la sentenza n. 22314/08 …

perchè affetta da errore di fatto circa il mancato rilievo del giudicato interno formatosi per mancata impugnativa della sentenza n. 64/52/04 della Commissione Provinciale di Roma nonchè la conseguente erronea percezione del thema decidendum in violazione dell’art. 112 c.p.c.”;

(2) “in accoglimento del ricorso dell’Agenzia, statuisca la debenza dei soli contributi previdenziali di ricongiunzione ma non di quelli integrativi e comunque, a prescindere, dichiari non dovute le sanzioni di cui alla cartella di pagamento già sul punto annullata”.

3. Il ricorso è inammissibile.

A. In limine va premesso che per l’art. 391 bis c.p.c., comma 1, una “sentenza” od una “ordinanza pronunciata ai sensi dell’art. 375, comma 1, nn. 4) e 5)” di questa Corte può essere impugnata per “revocazione” dalla “parte interessata” unicamente (oltre che in ipotesi di “errore materiale o di calcolo ai sensi dell’art. 287”) se sia “affetta da errore di fatto ai sensi dell’art. 395, n. 4”, ovverosia “se la sentenza è l’effetto di un errore di fatto risultante dagli atti o documenti della causa”: per l’art. 395 c.p.c., n. 4, vi è “errore di fatto” quando “la decisione è fondata sulla supposizione di un fatto la cui verità è incontrastabilmente esclusa, oppure quando è supposta l’inesistenza di un fatto la cui verità è positivamente stabilita, e tanto nell’uno quanto nell’altro caso se il fatto non costituì un punto controverso sul quale la sentenza ebbe a pronunciare”.

In ordine a siffatto complessivo disposto normativo è sufficiente ricordare e (in carenza di argomentazioni contrarie, neppure adombrate) ribadire il “consolidato orientamento di questa Corte” (Cass., 1^, 25 giugno 2008 n. 17443 che richiama “Cass. S.U. 1997/5303; Cass. 1999/1232; 1999/12983; 2000/2057; 2004/9198;

2006/3190; 2006/7127; 2006/9396″ , tra le recenti) secondo il quale l'”errore revocatorio previsto dell’art. 395 c.p.c., n. 4”, “con riferimento alla sentenza di cassazione”, “è soltanto quello dovuto alla falsa percezione di una circostanza decisiva in contrasto con quanto manifestamente emergente dagli atti, ossia l’errore che, consistendo in una mera svista materiale, abbia indotto il giudice ad affermare o supporre l’esistenza di un fatto che i documenti e gli atti di causa escludevano, ovvero l’inesistenza di un fatto che, da tali atti e documenti, risultava invece positivamente affermato”:

“l’errore di fatto ex art. 395 c.p.c., n. 4”, quindi, “presuppone il contrasto tra due diverse rappresentazioni dello stesso oggetto, emergenti una dalla sentenza e l’altra dagli atti e documenti processuali, purchè, da un lato, la realtà desumibile dalla sentenza sia frutto di supposizione e non di valutazione o di giudizio e, dell’altro, quella risultante dagli atti e dai documenti non sia stata contestata dalle parti (S.U. 1997/5303; Cass. 1999/226;

1999/895; 2001/5515; 2006/11657; 2006/12154; 2007/7469)”.

L'”errore” in questione, inoltre, “non deve cadere su di un punto controverso, sul quale il giudice si sia pronunciato, e deve avere il carattere di assoluta immediatezza e di semplice e concreta rilevabilità, senza la necessità di argomentazioni induttive o di particolari indagini ermeneutiche (Cass. 1999/6388; 1999/9120;

2002/15522; 2004//23592; 2006/7812; 2007/2713), con la conseguenza che l’errore di fatto, quale errore meramente percettivo (Cass. 2008/5075), non può concernere l’attività valutativa, da parte del giudice, di situazioni processuali esattamente percepite nella loro aggettività (Cass. 94/9979; 2000/314; 2005/6198; 2006/14766) e quindi l’erroneo apprezzamento di risultanze processuali (Cass. 2000/14840; 2003/15466; 2006/10807), o il vizio di ragionamento sui fatti assunti, ricorrendo in tali ipotesi errore di giudizio (Cass. 2008/5075), qualora i fatti segnalati abbiano formato oggetto di esatta rappresentazione e poi di discussa valutazione (Cass. 1998/4859; 1999/4145; 1999/4196; 2006/2478)”.

In sintesi, l’errore di fatto in cui sia incorso il giudice di legittimità considerato rilevante dalla norma “presuppone l’esistenza di divergenti rappresentazioni dello stesso oggetto, emergenti una dalla sentenza e l’altra dagli atti e documenti di causa e deve, quindi, 1) consistere in una errata percezione del fatto, in una svista di carattere materiale, oggettivamente ed immediatamente rilevabile, tale da avere indotto il giudice a supporre la esistenza di un fatto la cui verità era esclusa in modo incontrovertibile, oppure a considerare inesistente un fatto accertato in modo par imeni i indiscutibile; 2) essere decisivo, nel senso che, se non vi fosse stato, la decisione sarebbe stata diversa;

3) non cadere su di un punto controverso sul quale la Corte si sia pronunciata; 4) presentare i caratteri della evidenza e della obiettività, si da non richiedere, per essere apprezzato, lo sviluppo di argomentazioni induttive e di indagini ermeneutiche; 5) non consistere in un vizio di assunzione del fatto, nè in un errore nella scelta del criterio di valutazione del fatto medesimo” (Cass., trib., 20 novembre 2009 n. 24512, che richiama, “ex plurimis”, “Cass. civ. sentt., nn. 13915 del 2005 e 2425 del 2006, v. anche Cass. civ. SS.UU. sent. n. 9882 del 2001”).

B. Il profilo del primo motivo con il quale il ricorrente lamenta “il mancato rilievo”, da parte dei giudici che hanno emesso la sentenza revocanda, del “giudicato interno formatosi per mancata impugnativa della sentenza n. 64/52/04 della Commissione Provinciale di Roma” è inammissibile perchè quello addotto dal ricorrente non integra l'”errore di fatto” indispensabile per chiedere la “revocazione” di una sentenza di questo giudice di legittimità.

Il mancato rilievo del “giudicato” interno, infatti, “lungi dal prospettare una mera svista materiale della Corte… e la sua falsa percezione di circostanze decisive emergenti direttamente dagli atti con carattere di assoluta immediatezza e di semplice e concreta rilevabilità, senza la necessità di argomentazioni induttive o di particolari indagini ermeneutiche, denuncia un erroneo apprezzamento delle risultanze processuali …e quindi un errore di valutazione e di giudizio, e non di percezione, inidoneo a configurare nella specie un’ipotesi di errore di fatto revocatolo”: il “giudicato”, infatti, “essendo destinato a fissare la regola del caso concreto, partecipa della natura dei comandi giuridici e, conseguentemente, la sua interpretazione non si esaurisce in un giudizio di fatto, ma deve essere assimilata, per la sua intrinseca natura e per gli effetti che produce, all’interpretazione delle norme giuridiche; pertanto l’erronea presupposizione dell’esistenza o dell’inesistenza del giudicato, equivalendo ad ignoranza della regula juris rileva non quale errore di fatto, ma quale errore di diritto (Cass. S.U. 2005/23242; Cass. 2006/24992; 2007/12157)”.

L'”omessa considerazione di un giudicato” (“interno o esterno che sìa”) “per definizione” (Cass., un., 16 novembre 2004 n. 21639), “non è classificabile come errore revocatorio dell’art. 395 c.p.c., ex n. 4) … stante il rapporto di reciproca specialità e specificità tra i diversi casi di revocazione previsti da quest’ultima norma, che accredita di autonomo rilievo, al n. 5), l’ipotesi in cui la sentenza impugnata sia contraria ad altra precedente avente fra le parti autorità di cosa giudicata”.

C. La violazione dell’art. 112 c.p.c. (extrapetizione) denunziata con il secondo profilo del primo motivo (“la Corte avrebbe dovuto rilevare che mai è stata introdotta nel giudizio di cassazione la questione inerente alle sanzioni già annullate in primo grado”), poi, si palesa, nel caso di specie, inammissibile perchè insussistente.

La “portata precettiva di una pronunzia giurisdizionale”, come noto Cass.: 3^, 8 luglio 2010 n. 16152; un., 9 maggio 2008 n. 11501 (la quale ha ribadito che “la vis normativa del provvedimento giurisdizionale comporta che la correlativa esegesi debba essere coerentemente operata alla stregua della interpretazione delle norme e non di quella degli atti e dei negozi giuridici”); 1^, 8 giugno 2007 n. 13513, “va individuata tenendo conto non soltanto del dispositivo, ma anche della motivazione”.

Nella sentenza revocanda, come evidenziato dallo stesso ricorrente, questa Corte ha chiaramente esposto che:

(a) “la Commissione Tributaria Provinciale … accoglieva il ricorso limitatamente alle sanzioni”;

(b) la “decisione” di primo grado è stata appellata (solo) dal “contribuente”;

(c) l’Agenzia ha censurato la sentenza di appello (unicamente) per “violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 10, comma 1, lett. E)”.

Dalla logica correlazione della decisione adottata (“rigetta l’originario ricorso del contribuente”) con la ragione di censura addotta dall’Agenzia (chiaramente investente soltanto la questione della indeducibilità dei contributi ivi in discussione e non anche quella relativa alla sanzione irrogata) discende evidente, al di là della mera suggestione letterale, che il “rigetto” dell'”originario ricorso del contribuente” (quindi il solo e vero decisum) disposto da questa Corte ha ad oggetto la debenza della pretesa tributaria e non anche l’aspetto sanzionatorio, la cui esclusione (decisa dal primo giudice) non risulta (esaminato e), quindi, modificato.

D. Anche il secondo motivo è inammissibile.

La decisione qui impugnata, invero, diversamente da quanto assunto dal ricorrente, non ha affatto lasciato “irrisolta in punto di diritto la questione attinente alla deducibilità dei contributi integrativi in quanto contributi obbligatori” perchè dalla complessiva lettura della stessa emerge univocamente la riferibilità all’intera materia del contendere al suo esame – quindi al recupero “a tassazione” sia dei “contributivi previdenziali di ricongiunzione” che dei “contributi previdenziali integrativi” – dell’affermazione giuridica in essa contenuta secondo cui “la deducibilità era ammessa esclusivamente per i contributi previdenziali ed assistenziali versati in ottemperanza a disposizioni di legge e non anche, come nel caso, la dove i versamenti siano connessi ad una scelta del lavoratore”.

Nella decisione impugnata, infatti, risulta chiaramente esposta la duplicità della pretesa fiscale, ovverosia la differenza oggettiva dei recuperi ivi in discussione (contributi “di ricongiunzione” e contributi “integrativi”), per cui l’inciso (scriminante a fini fiscali) “connessi ad una scelta del lavoratore” è sicuramente riferito ad entrambi i tipi di contributi.

Da tal rilievo discende che (anche) la doglianza in esame non denunzia un vizio revocatorio nel senso precisato al punto A. che precede ma unicamente un (eventuale, anche perchè il ricorrente afferma, senza indicarla, l’esistenza di una “granitica giurisprudenza” di questa Corte sulla “natura obbligatoria” dei “contributi integrativi”) vizio di giudizio sulla connessione “ad una scelta del lavoratore” di entrambi i “contributi” ritenuta ed affermata nella decisione revocanda, quindi un vizio assolutamente incensurabile con il rimedio processuale proposto.

4. Per la sua totale soccombenza il ricorrente, ai sensi dell’art. 91 c.p.c., è tenuto a rimborsare all’Agenzia le spese del giudizio liquidate nella misura indicata in dispositivo sulla scorta delle vigenti tariffe legali, tenuto conto del valore della controversia e dell’attività difensiva svolta dalla parte vittoriosa.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente a rifondere all’Agenzia le spese del giudizio che liquida in complessivi Euro 1.500,00 (millecinquecento/OO), di cui Euro 1.300,00 (milletrecento/00) per onorario, oltre spese generali ed accessori di legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 4 gennaio 2011.

Depositato in Cancelleria il 12 maggio 2011

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