Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 10375 del 20/05/2015


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Civile Sent. Sez. L Num. 10375 Anno 2015
Presidente: STILE PAOLO
Relatore: BERRINO UMBERTO

SENTENZA

sul ricorso 28158-2013 proposto da:
PARCHITELLI

ANGELO

PASQUALE

PRCNLP39B11F915K,

PARCHITELLI NICOLA PRCNCVL50E06F915, PARCHITELLI ANNA
PRCNNA45D63F915C, quali eredi di TRISOLINI CATERINA,
tutti elettivamente domiciliati in ROMA, VIA ARCHIMEDE
138,
2015
173

presso

lo studio dell’avvocato GIULIO BELLINI,

rappresentati e difesi dall’avvocato VINCENZO ROTOLO,
giusta delega in atti;
– ricorrente contro

n!,

I.N.P.S. – ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA SOCIALE

Data pubblicazione: 20/05/2015

1.•

C.F. 80078750587, in persona del legale rappresentante
pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA
CESARE BECCARIA 29, presso l’Avvocatura Centrale


dell’Istituto, rappresentato e difeso dagli
avvocatiSERGIO PREDEN, ANTONELLA PATTERI, LIDIA

copia notificata del ricorso;

resistente con mandato

avverso la sentenza n. 3918/2012 della CORTE D’APPELLO
di LECCE, depositata il 11/12/2012, r.g.n. 2531/2010;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica
udienza del 14/01/2015 dal Consigliere Dott. UMBERTO
BERRINO;
udito l’Avvocato CALIULO LUIGI;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. MARCELLO MATERA, che ha concluso per il
rigetto.

CARCAVALLO, LUIGI CALIULO, giusta delega in calce alla

Svolgimento del processo
Parchitelli Angelo Pasquale, Parchitelli Anna e Parchitelli Nicola, quali eredi di
Trisolini Caterina, chiesero al giudice del lavoro del Tribunale di Bari la

titolare la loro dante causa, previa applicazione delle norme di cui agli artt. 6,
comma 3, della legge n. 638/93 e 4 della legge n. 140/85, con la conseguente
condanna dell’inps al pagamento dei ratei differenziali, dal momento che l’istituto
previdenziale aveva attribuito l’integrazione al minimo limitatamente al periodo
1.1.1981 —30.9.1983.
Il giudice adito dichiarò prescritto il diritto, mentre la Corte d’appello di Bari,
investita dall’impugnazione degli eredi, ritenne maturata la decadenza ex art. 47
del d.p.r. n. 639/1970.
Tale decisione fu cassata da questa Corte, a seguito di ricorso dei predetti eredi,
con sentenza n. 948/2010, con la quale si stabilì che la decadenza di cui all’art. 47
del d.P.R. 30 aprile 1970, n. 639 non si applica ove !a domanda giudiziale sia
diretta ad ottenere la riliquidazione della prestazione pensionistica già attribuita
(nella specie, di reversibilità), venendo in rilievo solo l’adeguamento di un diritto
già riconosciuto sia pure per un importo inferiore, nel qual caso la pretesa non
soggiace ad altro limite che non sia quello dell’ordinaria prescrizione decennale.
Con sentenza del 30/11 — 11/12/2012 la Corte d’appello di Lecce, quale giudice
del rinvio presso il quale il giudizio fu riassunto dai predetti eredi della Trisolini, ha
rigettato l’impugnazione di questi ultimi dopo aver rilevato che lo spostamento del
beneficio dell’integrazione al trattamento minimo dalla pensione diretta, riportata a
calcolo senza gli aumenti ex art. 4 della legge n. 140/1985, a quella di reversibilità
cbmportava l’erogazione di una somma nel periodo ottobre 1983 — giugno 1997

(mese del decesso della dante causa) maggiore di quella effettivamente percepita
nel medesimo arco temporale.

AN5

riliquidazione della pensione ai superstiti e di vecchiaia, delle quali era stata

;

Per la cassazione della sentenza ricorrono gli eredi Parchitelli con quattro motivi.
Per l’Inps compare il difensore munito di procura che resiste al ricorso
opponendosi in udienza al suo accoglimento.
Motivi della decisione

artt. 112 e 416 c.p.c., dell’art. 52 della legge n. 88/1989 e dell’art. 1, comma 263,
della legge n. 662/1996, in relazione all’art. 360 c.p.c. nn. 3 e 5..
Sostengono i ricorrenti che la Corte d’appello ha rigettato la domanda sulla scorta
delle conclusioni del consulente d’ufficio, a loro volta basate sulla compensazione
dei crediti coi debiti per effetto della sommatoria degli importi della pensione di
reversibilità e di quella diretta, senza tener conto del fatto che l’Inps non aveva
proposto domanda riconvenzionale per la restituzione dell’importo
dell’integrazione al minimo erogato sulla pensione diretta della defunta e che
neppure aveva eccepito la compensazione tra il credito da essi vantato sulla
pensione di reversibilità, oggetto di integrazione, ed il loro presunto debito per
l’integrazione indebitamente percepita sulla pensione diretta. Aggiungono i
ricorrenti che non solo la suddetta compensazione non era stata mai eccepita
dall’Inps, ma che anche in caso di sua proposizione il credito eventualmente
vantato dall’Inps a seguito della riliquidazione della pensione di vecchiaia senza
integrazione non avrebbe potuto essere compensato col loro credito sulla
pensione di reversibilità, atteso che una tale compensazione era impedita dalle
disposizioni di cui all’art. 52 della legge n. 88/89 e dall’art. 1, comma 263, della
legge n. 662/96. Ne derivava, secondo tale tesi difensiva, che in nessun caso il
credito maturato sulla pensione ai superstiti (categoria SO) poteva essere
compensato con l’eventuale indebito realizzatosi sulla pensione di vecchiaia
(categoria VO) senza alcuna colpa della pensionata.
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2. Col secondo motivo è dedotta la violazione e falsa applicazione dell’art. 100
c.p.c. e degli artt. 6, comma 3, e 7 del D.L. n. 463/83, in relazione all’art. 360 nn. 3

2

1. Col primo motivo i ricorrenti denunziano la violazione e falsa applicazione degli

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e 5 c.p.c., con particolare riferimento alla parte della motivazione dell’impugnata
sentenza in cui è stato rilevato un difetto di interesse degli eredi ad agire in base
alla conclusione che il trasferimento del beneficio dell’integrazione dalla pensione
diretta (in godimento da parte della dante causa dal mese di marzo del 1979) a

evidenziava alcun vantaggio per gli stessi richiedenti. Al riguardo i ricorrenti fanno
notare che avevano chiesto la riliquidazione di entrambe !e pensioni in base ai
principi di cui all’ad. 6, comma 3, della legge n. 638/83, la qual cosa avrebbe
comportato automaticamente il trasferimento dell’integrazione al minimo sulla
pensione ai superstiti e la cristallizzazione (mantenimento dell’integrazione al
minimo) della pensione di vecchiaia, per cui la sommatoria della pensione di
reversibilità integrata e di quella diretta cristallizzata sarebbe stata superiore,
anche senza l’applicazione degli aumenti di cui all’ad. 4 della legge n. 140/85, alla
somma delle pensioni effettivamente erogate nelle diverse forme della pensione
diretta integrata e della pensione di reversibilità a calcolo. Quindi, secondo tale
tesi difensiva, l’errore in cui era incorsa la Corte di merito era consistito nell’avere
la medesima imposto al consulente d’ufficio di non tener conto dell’istituto della
cristallizzazione, la cui applicazione era stata invece richiesta con riferimento al
calcolo della pensione diretta.
3. Coi terzo motivo, proposto per violazione e falsa applicazione dell’ad. 4 della
legge n. 140/85 e degli artt. 3 e 97 della Costituzione, i ricorrenti assumono che, ai
sensi del primo comma del predetto art. 4 della legge n. 140/85, le pensioni
integrate al trattamento minimo aventi titolo alla maggiorazione (nella fattispecie
quella di reversibilità con un numero di contributi settimanali non inferiori a 781)
sono aumentate mensilmente, per cui l’aumento riguarda le pensioni integrate al
trattamento minimo e non la soia parte a calcolo delle pensioni integrate al
trattamento minimo. Fatta tale premessa, i ricorrenti sostengono che se gli
aumenti di cui all’ad. 4 della legge n. 140/85 non venissero aggiunti agli importi

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/a/5

quella di reversibilità (in godimento dal lontano mese di luglio del 1953) non

e

integrati in pagamento ali’1/1/85, ma all’importo a calcolo, tutte le pensioni
finirebbero per essere ridotte da lire 364.650 a lire 341.850. Aggiungono i ricorrenti
che la riprova dell’erroneità dell’interpretazione che conduce a tale inaccettabile
conclusione la si ricava in maniera evidente dalla relazione del consulente

maggiorata ai sensi dell’ari 14-quater del d.l. n. 663/79, che in data 30/9/1983
ammontava a lire 317.850, diventava incredibilmente di lire 307.200 a partire dal
mese successivo. Una ulteriore conferma della denunziata erroneità di un tale
risultato interpretativo, seppur conforme all’orientamento espresso dalla Sezione
lavoro della Cassazione con sentenza n. 12116 del 26.5.2009, i ricorrenti la
traggono dalla relazione del consulente d’ufficio il quale, nel calcolare entrambe le
pensioni integrate sulla scorta del quesito postogli dalla Corte d’appello, teso ad
accertare se gli aumenti di cui all’art. 4 della legge n. 140/85 avevano comportato
la trasformazione della pensione integrata in pensione superiore al trattamento
minimo con tutte le conseguenze in tema di perequazione automatica, aveva
verificato un importo totale identico per ognuna delle due pensioni, pur essendo
stata una sola di esse acquisita con più di 781 contributi e col diritto alla
maggiorazione di cui al citato ari. 14-quater del di. n. 663/79. In conclusione i
ricorrenti ritengono che una interpretazione, come quella seguita dalla Corte di
merito, contraria a quella per la quale gli aumenti fanno diventare
automaticamente superiore al minimo la prestazione che ne beneficia, sarebbe in
contrasto con gli artt. 3 e 97 della Costituzione.
4. Col quarto motivo i ricorrenti si lamentano della violazione e falsa applicazione
degli artt. 112 e 324 c.p.c., oltre che dell’ari. 2909 c.c., in quanto ritengono che la
Corte d’appello sia incorsa in vizio di ultrapetízione nel momento in cui, pur in
mancanza di una specifica impugnativa della statuizione del primo giudice relativa
alla rilevata prescrizione del diritto alla riliquidazione delle pensioni contenente
l’implicito riconoscimento dell’esistenza di un tale diritto e pur in presenza di un

d’ufficio, in quanto dalla stessa emerge che la pensione di reversibilità integrata e

;

giudicato interno implicito in tal modo realizzatosi, faceva eseguire una consulenza
sul “quantum” che finiva per mutare la domanda di condanna generica alla
riliquidazione delle due pensioni, con conseguente trasferimento dell’integrazione
sulla pensione per la quale spettava, in domanda specifica, il tutto in aperta

Osserva la Corte che l’esame del ricorso può partire dalla trattazione di
quest’ultimo motivo che involge la questione preliminare della dedotta
inosservanza, da parte della Corte di merito, del giudicato interno implicito
formatosi su una statuizione del giudice di primo grado.
Con la prospettazione di tale motivo i ricorrenti alludono alla circostanza per la
quale la dichiarazione, in prime cure, della prescrizione del diritto alla
riliquidazione delle pensioni da essi vantato conteneva l’implicito riconoscimento
dell’esistenza del diritto stesso, che era venuto meno solo per effetto
dell’accertamento di una causa estintiva, per cui in difetto di una impugnazione al
riguardo da parte dell’Inps era da ritenere che su tale implicito riconoscimento si
era formato il giudicato interno.
Il motivo è infondato, atteso che nella fattispecie la questione di merito
dell’esistenza o meno del diritto degli eredi alla riliquidazione delle pensioni non ha
superato nei giudizi di primo e secondo grado, svoltisi antecedentemente alla
pronunzia emessa in sede rescindente, l’ostacolo delle eccezioni preliminari della
prescrizione e della decadenza per poter essere dibattuta, tant’è vero che l’esame
pieno del merito è stato reso possibile solo nella fase rescissoria del giudizio di
rinvio, per cui non sussiste in radice il dedotto giudicato implicito, né di
conseguenza il lamentato vizio di ultrapetizione della sentenza impugnata.
Altra questione da affrontarsi in via preliminare è quella agitata col terzo motivo del
presente ricorso, dal momento che attraverso lo stesso i ricorrenti pongono in
discussione il metodo di calcolo fatto eseguire dalla Corte di merito nello
svolgimento della relazione tecnica d’ufficio.

5

th)

violazione dell’art. 112 c.p.c.

In particolare, i ricorrenti lamentano che l’aumento di cui all’art. 4 della legge n.
140/85 riguarda le pensioni integrate al trattamento minimo e non la sola parte a
calcolo delle pensioni integrate al trattamento minimo.
Il motivo è infondato.

12116 del 26/512009), “gli aumenti degli importi delle pensioni spettanti per effetto
della perequazione automatica introdotta dall’art. 4 della legge 15 aprile 1985, n.
140, vanno calcolati per le pensioni di reversibilità integrate al trattamento minimo
con riferimento all’importo a calcolo della pensione del titolare, mirando la
disposizione ad assicurare – in sostituzione del beneficio già introdotto dall’art. 14quater del d.l. 30 dicembre 1979, n. 663, convertito, con modificazioni, nella legge
28 febbraio 1980, n. 33 – una tutela alle posizioni di quei lavoratori che, pur in
possesso di un’anzianità assicurativa superiore a settecentottanta contributi
settimanali, avevano in godimento una pensione di modesto ammontare, anche
inferiore al minimo, per effetto della limitazione del diritto all’integrazione al minimo
operata dall’art. 6, terzo comma, del d.l. 12 settembre 1983, n. 463, convertito, con
modificazioni, nella legge 11 novembre 1983, n. 638, in caso di superamento di
determinate soglie di reddito. Ne consegue che qualora la somma del suddetto
trattamento base e dell’importo spettante per la perequazione sia inferiore alla
pensione integrata già in godimento, deve essere mantenuto tale trattamento
senza operare alcun miglioramento.”
In tale sentenza si è precisato che il tenore letterale della disposizione non
consente altra interpretazione, giacché la L. n. 140 dei 1985, art. 4, comma 3
prevede chiaramente che gli aumenti “si applicano sull’importo della pensione
mensile non integrata al trattamento minimo”, e quindi l’applicazione degli aumenti
medesimi sulla pensione integrata contrasterebbe con il tenore letterale della
disposizione che non si presta ad interpretazioni diverse.

Invero, come questa Corte ha già avuto occasione di statuire (Cass. Sez. Lav. n.

!

Si è, inoltre, chiarito che la disposizione mirava all’aumento delle prestazioni di
quei lavoratori che, pur potendo far valere una consistente anzianità assicurativa,
oltre 780 contributi settimanali, si trovavano tuttavia in godimento di una pensione
di modesto ammontare, addirittura inferiore al minimo e quindi nella necessità

introdotto dal D.L. n. 663 del 1979, art. 14 convertito nella L. n. 33 del 1980, e che
era finalizzato ad aumentare la pensione a calcolo proprio a seguito della
limitazione del diritto alla integrazione al minimo operata dalla L. n. 638 del 1983,
ad. 6, ossia della disposizione che, per la prima volta, ha condizionato il diritto alla
integrazione al minimo al possesso di redditi inferiori ad una certa soglia, e quindi
determinando la riduzione a calcolo della pensione per tutto il periodo del
superamento. inoltre, anche se la medesima pensione in questi casi veniva
cristallizzata ai sensi dalla medesima L. n. 638 del 1983, art. 6, comma 7, la
integrazione si perdeva sicuramente sulla seconda pensione (cfr. la disposizione
di interpretazione autentica di cui alla L. 24 dicembre 1993, n. 537, ad. 11, comma
22 poi dichiarata incostituzionale dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 240
dei 1994). Si volle quindi aumentare l’importo a calcolo di dette pensioni, per
metterle in qualche modo ai riparo dalla perdita della integrazione, peraltro le
disposizioni a favore di questo tipo di pensioni con oltre 780 contributi proseguì nel
tempo ad opera della L. 29 dicembre 1988, n. 544, art. 3 e dal D.P.C.M. del 16
dicembre 1989.
Per quel che concerne, invece, il primo motivo, che vede sulla lamentata
compensazione tra opposti crediti, si rileva che lo stesso è infondato per la
semplice ragione che nella fattispecie non si rawisa un’ipotesi di compensazione
in senso tecnico, per la quale occorre un’apposita eccezione, bensì un caso di
mero accertamento contabile di poste attive e passive all’interno dello stesso
rapporto previdenziale che il giudice può compiere d’ufficio.

della integrazione. Si tratta di un beneficio che sostituisce l’altro, che era già stato

t

Si è, infatti, statuito (Cass. Sez. Lav. n. 2635 del 19/3/1994) che “nell’ipotesi in cui
l’I.N.P.S., per contrastare la pretesa relativa alla integrazione al minimo della
pensione di riversibilità, pretenda di detrarre dall’importo dovuto le somme
erroneamente erogate a titolo di integrazione al minimo della pensione diretta,
erogata al titolare di quella di riversibilità, non si configura un’eccezione di
compensazione soggetta alla preclusione di cui all’art. 416 cod. proc. civ.,
trattandosi di crediti delle parti derivanti da un rapporto unitario, per i quali la
valutazione delle singole pretese si risolve in un mero accertamento contabile di
poste attive e passive che il giudice può compiere d’ufficio.”
Quanto al secondo motivo, attraverso il quale è posta in discussione la rilevata
carenza di interesse degli eredi come conseguenza della mancanza di vantaggi
dall’operazione di trasferimento del beneficio dell’integrazione dalla pensione
diretta a quella di reversibilità, si osserva che lo stesso è infondato.
Invero, premesso che solo per un evidente errore materiale nella sentenza si
afferma che l’importo di € 42595,85, determinato dal consulente d’ufficio, è
maggiore di quello effettivamente percepito di € 47730,80, laddove si deve
intendere l’esatto contrario in virtù della chiara indicazione dei suddetti importi
globali, non si ravvisano ragioni per non confermare quanto accertato in punto di
fatto dai giudici d’appello sulla base della consulenza contabile d’ufficio.
Infatti, sulla scorta di quest’ultima consulenza la Corte territoriale ha avuto modo di
accertare che lo spostamento del beneficio dell’integrazione al trattamento minimo
dalla pensione diretta, riportata a calcolo senza gli aumenti di cui all’art. 4 della
legge n. 140/85, a quella di reversibilità determinava l’erogazione della somma
complessiva di € 42595,85 (di cui € 41595,85 dalla reversibilità ed € 1081,51 dalla
diretta) nel periodo ottobre 1983 – giugno 1997, mentre l’importo effettivamente
percepito nel medesimo arco temporale ammontava ad € 47730,80.
In pratica la decisione di rigetto del gravame degli eredi è stata giustificata dalla
considerazione sia logica che giuridica, come tale esente da rilievi di legittimità,

8

pi5

••

che i medesimi avrebbero conseguito dall’invocato spostamento del beneficio
dell’integrazione al minimo da una pensione all’altra una somma
complessivamente inferiore a quella realmente percepita.
In definitiva il ricorso va rigettato.

liquidate come da dispositivo.
Sussistono i presupposti, ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n.
115/2002, per il versamento da parte dei soccombenti del contributo unificato di
cui al dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna i ricorrenti al pagamento delle spese del
presente giudizio nella misura di € 1000,00 per compensi professionali e di €
100,00 per esborsi, oltre accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della
sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore
importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma
del comma 1-bis dello stesso art. 13.
Così deciso in Roma il 14 gennaio 2015
Il Consigliere estensore

Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza dei ricorrenti e vanno

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