Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 10364 del 11/05/2011

Cassazione civile sez. trib., 11/05/2011, (ud. 16/11/2010, dep. 11/05/2011), n.10364

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CARLEO Giovanni – Presidente –

Dott. IACOBELLIS Marcello – Consigliere –

Dott. DI BLASI Antonino – Consigliere –

Dott. VIRGILIO Biagio – Consigliere –

Dott. GRECO Antonio – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ordinanza

sul ricorso proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore,

rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso

la quale è domiciliata in Roma alla Via dei Portoghesi n. 12;

– ricorrente –

contro

F.C. e P.E., rappresentato e difeso dall’avv.

CAPASSO Sergio ed elettivamente domiciliato in Rema presso l’avv.

Florangela Marano in piazzale Clodio n. 61;

– controricorrenti –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale del Lazio

n. 273/40/06, depositata il 18 ottobre 2006.

Udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

16 novembre 2010 dal Relatore Cons. Dott. Antonio Greco.

La Corte:

Fatto

RITENUTO IN FATTO

che, ai sensi dell’art. 380 bis cod. proc. civ., è stata depositata in cancelleria la seguente relazione:

“L’Agenzia delle entrate propone ricorso per cassazione nei confronti della sentenza della Commissione tributaria regionale del Lazio n. 273/40/06, depositata il 18 ottobre 2006, che, rigettando l’appello dell’Agenzia delle entrate, ufficio di Formia, confermava l’annullamento dell’avviso di accertamento ai fini dell’IRPEF per l’anno 1995, emesso a carico di P.E. e F.S. a seguito di verifica della Guardia di finanza, che aveva rilevato ricavi non contabilizzati sulla base delle operazioni di prelievo e di versamento risultanti dai conti correnti bancari e dai libretti di risparmio nella disponibilità dei contribuenti.

I contribuenti resistono con controricorso.

Il ricorso contiene tre motivi, che rispondono ai requisiti prescritti dall’art. 366 bis cod. proc. civ..

Con il primo ed il secondo motivo l’Agenzia delle Entrate, denunciando violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, nonchè degli artt. 115 e 116 c.p.c., in relazione all’art. 4 c.p.c., deduce che la consulenza tecnica d’ufficio disposta nel processo penale, volta a verificare la configurabilità di illeciti penali, non può essere considerata, in quanto prodotta nel processo tributario, alla stregua della prova del contribuente idonea a contrastare la presunzione relativa dell’ufficio nell’ipotesi di atto impositivo fondato sugli accertamenti bancari, disciplinata dalla disposizione in rubrica; con il terzo motivo censura la sentenza per contraddittorietà della motivazione, in quanto essa da una parte concorda con l’ufficio sulla inattendibilità delle scritture contabili e la conseguente correttezza dell’accertamento, mentre dall’altra assume come determinanti per la decisione le considerazioni espresse dal CTU in sede penale.

L’eccezione, sollevata dai controricorrenti, di inammissibilità del ricorso per tardività non sembra fondata, in quanto la sentenza risulta depositata il 18 ottobre 2006, e non il 18 luglio 2006, come affermato nel controricorso.

E’ del pari infondata l’eccezione di inammissibilità del ricorso per omessa indicazione in esso del nome del legale rappresentante dell’Agenzia delle entrate, ove si consideri che, in tema di contenzioso tributario, è ammissibile il ricorso per cassazione proposto dall’Agenzia delle Entrate in persona del legale rappresentante pro tempore (o in carica), non essendo necessaria l’indicazione del nome della persona fisica preposta all’ufficio dell’organo rappresentante legale, in considerazione del carattere istituzionale dell’organo medesimo (Cass. n. 22761 del 2004).

Questa Corte ha più volte affermato che, in tema di accertamento delle imposte sui redditi, in virtù della presunzione di cui al D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 32 – che, data la fonte legale, non necessita dei requisiti di gravità, precisione e concordanza richiesti dall’art. 2729 cod. civ., per le presunzioni semplici, sia i prelevamenti che i versamenti operati su conti correnti bancari vanno imputati a ricavi conseguiti dal contribuente nella propria attività d’impresa, se questo non dimostra di averne tenuto conto nella determinazione della base imponibile oppure che sono estranei alla produzione del reddito; e che nel caso in cui l’accertamento effettuato dall’ufficio finanziario si fondi su verifiche di conti correnti bancari, è onere del contribuente, a carico del quale si determina una inversione dell’onere della prova, dimostrare che gli elementi desumibili dalla movimentazione bancaria non siano riferibili ad operazioni imponibili, mentre l’onere probatorio dell’Amministrazione è soddisfatto, per legge, attraverso i dati e gli elementi risultanti dai conti predetti (ex multis, Cass. n. 9103 del 2001, n. 4589 del 2009).

La ratio decidendi della sentenza impugnata – secondo cui in sostanza le presunzioni pur legittime dell’ufficio non hanno trovato in sede penale un concreto riscontro di accrescimento di ricchezza in quanto nella consulenza disposta in sede penale si legge che in base agli elementi contabili evidenziati nel p.v.c. può ritenersi che l’entità dell’accertata evasione di circa L. 158 milioni non trova riscontro nell’accrescimento di ricchezza rilevabile dalle situazioni bancarie… nè dall’esame delle posizioni bancarie emerge che la G. di F. abbia rilevato delle uscite per acquisti in nero o per acquisti a titolo personale tanto da far ritenere che i maggiori incassi – in evasione – siano stati utilizzati per alimentare spese personali – ad es. immobili auto et similia tali da costituire utilizzo delle somme presuntivamente incassate – o acquisti in nero – non è conforme ai principi sopra enunciati, tanto più ove si consideri la differente finalità del giudizio penale e l’eterogeneità del relativo regime della prova.

In conclusione, si ritiene che, ai sensi dell’art. 375 cod. proc. civ., comma 1 e art. 380 bis cod. proc. civ., il ricorso possa essere deciso in Camera di consiglio in quanto manifestamente fondato”;

che la relazione è stata comunicata al Pubblico Ministero e notificata agli avvocati delle parti costituite;

che non sono state depositate conclusioni scritte mentre i controricorrenti hanno depositato memoria.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

che il Collegio, a seguito della discussione in Camera di consiglio, condivide i motivi in fatto e in diritto esposti nella relazione e pertanto, ribaditi i principi di diritto sopra enunciati, il ricorso deve essere accolto, la sentenza impugnata va cassata e la causa rinviata, anche per le spese, ad altra sezione della Commissione tributaria del Lazio.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese, ad altra sezione della Commissione tributaria regionale del Lazio.

Così deciso in Roma, il 16 novembre 2010.

Depositato in Cancelleria il 11 maggio 2011

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