Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 1036 del 17/01/2019

Cassazione civile sez. III, 17/01/2019, (ud. 14/02/2018, dep. 17/01/2019), n.1036

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CHIARINI Maria Margherita – Presidente –

Dott. OLIVIERI Stefano – Consigliere –

Dott. CIGNA Mario – Consigliere –

Dott. MOSCARINI Anna – Consigliere –

Dott. GUIZZI Stefano Giaime – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 2971/2016 proposto da:

UNIONE NAZIONALE ENAL CACCIA – PESCA E TIRO SEZIONE PROVINCIALE

CAGLIARI in persona del Presidente in carica A.S.,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA GALLONIO 18, presso lo studio

dell’avvocato MARCELLO FREDIANI, rappresentata e difesa

dall’avvocato MARINO COTTI giusta procura speciale in calce al

ricorso;

– ricorrente –

contro

REGIONE AUTONOMA SARDEGNA, del suo Presidente Prof.

P.F., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA LUCULLO 24 (UFFICIO

RAPPRESENTANZA REGIONE SARDEGNA), presso lo studio dell’avvocato

ALESSANDRA CAMBA, che la rappresenta e difende unitamente

all’avvocato SANDRA TRINCAS giusta procura speciale a margine del

controricorso;

– controricorrente –

e contro

UNIONE NAZIONALE ENAL CACCIA PESCA E TIRO – PRESID;

– intimati –

avverso la sentenza n. 592/2015 della CORTE D’APPELLO di CAGLIARI,

depositata il 28/09/2015;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

14/02/2018 dal Consigliere Dott. STEFANO GIAIME GUIZZI.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. L’Unione Nazionale Enal Caccia-Pesca e Tiro, Sezione Provinciale di Cagliari (d’ora in poi, “Enal Caccia provinciale”), ricorre, sulla base di cinque motivi, per la cassazione della sentenza n. 592/15 del 28 settembre 2015 dalla Corte di Appello di Cagliari, che rigettando il gravame esperito dall’odierna ricorrente contro la sentenza n. 1349/14 del 6 maggio 2014, resa dal Tribunale di Cagliari – ha confermato la condanna di essa Enal Caccia provinciale a pagare alla Regione Autonoma Sardegna (d’ora in poi, “Regione”) la somma in Euro 100.120,40, a titolo di risarcimento del danno, ponendo a carico della prima anche le spese del grado.

2. Riferisce, in punto di fatto, l’odierna ricorrente di essere stata convenuta in giudizio, il 7 luglio 2006, dalla Regione (unitamente alla Presidenza regionale della stessa Enal Caccia; d’ora in poi: “Enal caccia regionale”). Assumeva, in particolare, parte attrice – sul presupposto di aver stipulato con tali D. e L., in data 6 ottobre 1997, un contratto per condurre in locazione tre immobili di loro proprietà, siti al n. (OMISSIS) – di aver conferito in comodato ad Enal provinciale uno di essi, ed in particolare quello contrassegnato come interno (OMISSIS), senza determinazione di durata.

Nel dedurre che l’odierna ricorrente, a dispetto della richiesta – e delle successive diffide – di restituire il locale suddetto, non aveva provveduto in tal senso, la Regione si doleva del fatto che tale condotta le aveva creato un danno, stante il rifiuto dei proprietari/locatori dei tre immobili ad accettare (alla data con gli stessi concordata, ovvero il 3 ottobre 2005) una restituzione solo parziale delle complessive unità immobiliari condotte in locazione dalla Regione, la quale, pertanto, si vedeva costretta a continuare a versare il canone pattuito fino al momento (20 marzo 2006, secondo quanto risulta dal solo controricorso della Regione) in cui la parte locatrice accettava che le fossero restituiti solo due dei tre appartamenti.

Su tali basi, dunque la Regione – secondo la ricostruzione dei fatti emergente dal ricorso in esame – chiedeva che fosse risolto per inadempimento il contratto di comodato intercorso con Enal Caccia provinciale, condannandola a restituire l’immobile e al pagamento dei danni.

Costituitasi Enal Caccia provinciale, la stessa affermava di non aver mai stipulato un contratto di comodato, assumendo di possedere l’immobile in questione, ininterrottamente, da oltre trent’anni, eccependo, pertanto, l’avvenuta usucapione. Per parte propria, Enal Caccia regionale eccepiva il proprio difetto di legittimazione passiva, atteso che – a termini di statuto dell’ente – era prevista l’assoluta autonomia gestionale della sezione provinciale di Cagliari (ovvero, l’altra convenuta in giudizio, nonchè odierna ricorrente).

Il Tribunale cagliaritano, dichiarato il difetto di legittimazione passiva di Enal Caccia regionale, condannava Enal Caccia provinciale – in accoglimento della domanda attorea – a rilasciare l’immobile suddetto, nonchè al risarcimento dei danni in misura che stimava in Euro 100.120,40, comprensiva anche dei maggiori oneri sostenuti per il pagamento dei canoni relativi ai due appartamenti dei quali era stata rifiutata la consegna dai locatori/proprietari.

Proposto appello dall’odierna ricorrente (non senza che la stessa, considerata l’esecutività della sentenza di primo grado, consegnasse alla Regione – con riserva – l’immobile “de quo”, in data 15 luglio 2014), lo stesso veniva rigettato dalla Corte sarda.

3. Avverso tale decisione ha proposto ricorso per cassazione Enal Caccia provinciale, sulla base di cinque motivi.

3.1. Con il primo motivo si denuncia “violazione dell’art. 187 c.p.c., in relazione all’art. 111 Cost.”, nonchè “omesso esame di circostanze e mancanza di motivazione”, oltre che violazione “del R.D. 18 novembre 1929, n. 04440, art. 17” (recte: 2440) e “dell’art. 2725 c.c.”.

Ci si duole del fatto che la sentenza impugnata avrebbe omesso di motivare sull’eccezione, già sollevata innanzi al giudice di prime cure, circa l’illegittima prosecuzione – giacchè si assume essere avvenuta in spregio dell’art. 187 c.p.c. e del principio della durata ragionevole del processo – della fase di trattazione del processo, sebbene lo stesso fosse maturo per la decisione vista “l’acquisizione (fin dalla prima risposta difensiva) di elementi sufficienti per decidere”. Questi, in particolare, sarebbero stati costituiti da una nota del 4 novembre 2005 dell’Assessorato regionale degli enti Locali Finanza ed Urbanistica, a firma del Direttore del servizio. Tale documento, infatti, in risposta ad un’istanza di chiarimenti (inviata da Enal Caccia provinciale, dopo aver ricevuto la richiesta di rilascio del bene), affermava che, “espletati gli opportuni accertamenti, non risulta agli atti di questo servizio alcuna documentazione relativa ad eventuali rapporti intercorsi o ancora in corso tra Regione Autonoma della Sardegna e la Sezione Provinciale Enal Caccia di Cagliari”. Siffatta dichiarazione – evidenzia la ricorrente – non veniva contestata dalla Regione neppure nella memoria ex art. 183 c.p.c., nella quale essa affermava che il documento si limiterebbe ad attestare “l’inesistenza di documenti relativi a rapporti obbligatori” tra le parti, con il che essa, implicitamente, confermava – osserva sempre Enal Caccia provinciale – la tesi dell’allora convenuta circa l’assenza di qualsivoglia titolo che l’obbligasse al rilascio dell’immobile.

Orbene, la Corte di Appello non avrebbe dato alcuna risposta in ordine al mancato accoglimento – da parte del Tribunale – dell’istanza di fissazione immediata dell’udienza di precisazione delle conclusioni, limitandosi a qualificare il motivo di gravame proposto sul punto come “in parte palesemente infondato avuto riguardo al potere del giudice di valutare quando la causa sia matura per la decisiongied in parte inammissibile non involgendo direttamente il contenuto delle statuizioni della sentenza.

3.2. Con il secondo motivo – privo, come il precedente, di un riferimento specifico a taluna delle ipotesi di cui all’art. 360 c.p.c. – si ipotizza “violazione degli artt. 2733 e 2745 c.c. (recte: art. 2735)” e degli artt. “2725 e 1950 c.c. (recte: art. 1350)”, nonchè “contraddittorietà”, “mancanza di motivazione” e “illogicità”, oltre a “travisamento della dichiarazione testimoniale”.

Intendendo la suddetta nota del 4 novembre 2005 alla stregua di una confessione stragiudiziale, la ricorrente assume che, dopo lo scambio delle memorie ex art. 183 c.p.c., il giudice avrebbe dovuto ritenere la causa matura per la decisione, senza dare corso alla prova testimoniale richiesta dalla Regione e volta a dimostrare la conclusione del contratto di comodato, prova da ritenersi inammissibile sotto vari profili. Innanzitutto, perchè essa – in violazione degli artt. 2733 e 2735 c.c. – era diretta a contrastare le risultanze di tale confessione. In secondo luogo, perchè l’ammissione della prova per testi era preclusa dall’art. 2725 c.c., a mente del quale la testimonianza non è consentita quando la prova scritta del contratto è richiesta a pena di nullità (viene richiamato l’art. 1350 c.c.), tale essendo i casi – del R.D. 18 novembre 1929, n. 2440, art. 17 – di ogni contratto stipulato da pubbliche amministrazioni.

Invero, la Corte di Appello, pur riconoscendo che, in relazione ai contratti per i quali si richiede “ad substantiam” la forma scritta, l’inammissibilità della prova testimoniale (salvo il caso di perdita incolpevole del documento) può essere dedotta in ogni stato e grado del giudizio ed essere rilevata anche d’ufficio, non ne ha tratto la dovuta conseguenza, ovvero la declaratoria di illegittimità dell’ordinanza del Tribunale che aveva ammesso la prova, ritenendo invece – in contraddizione con la premessa e con “vizio di logica e di mancanza di motivazione” – che il primo giudice potesse dare corso a tale incombente istruttorio e apprezzarne le risultanze.

Quanto, poi, al risultato di tale apprezzamento, si rileva come la Corte territoriale sia pervenuta alla conclusione che nei riguardi dell’odierna ricorrente si fosse verificata “la immissione in possesso (rectius nella detenzione) dell’immobile operata da chi aveva la disponibilità giuridica del locale, valorizzando le dichiarazione di un dipendente regionale, tale F.M., peraltro – secondo la ricorrente – “riportate in sentenza in termini differenti da quelle reali” (avendo costui escluso l’esistenza di un comodato, salvo poi affermare che l’odierna ricorrente aveva preso possesso dell’immobile). Ma, soprattutto, il giudice di appello avrebbe ignorato le dichiarazioni della teste D.C., sebbene proprietaria dell’immobile e, dunque, maggiormente informata sui fatti, dalle quali emergerebbe che Enal Caccia provinciale occupava l’immobile almeno dal 1996, come confermato dalla presenza di una targa. Irrilevante, infine, sarebbe la lettera inviata l’11 ottobre 2005 da Enal Caccia regionale (documento nel quale si afferma che l’odierna ricorrente deteneva “in usufrutto” l’immobile “fin dal 1971”), provenendo da un soggetto che ha sempre professato l’autonomia statutaria di Enel Caccia provinciale, tanto da eccepire in giudizio – con successo – il proprio difetto di legittimazione passiva.

3.3. Con il terzo motivo – formulato con la medesima tecnica redazionale dei precedenti – si ipotizza violazione e falsa applicazione degli artt. 1140 e 1158 c.c., “in ordine all’eccezione di usucapione” da essa ricorrente proposta, oltre che “contraddittorietà”, “carenza di logica” e “difetto di motivazione su circostanza decisiva”.

Si contesta la sentenza impugnata laddove afferma l’assenza di prova circa il possesso “ad usucapionem” del bene suddetto, reputando non idonea la già indicata testimonianza della D., ritenuta “generica”, essendo stata la stessa, per contro, “precisa e decisiva”, oltre che “sostenuta e rafforzata “per tabulas”” dalla documentazione prodotta in giudizio dall’odierna ricorrente, consistente nella corrispondenza intercorsa tra di essa e la Regione, oltre ad altri enti.

3.4. Con il quarto motivo – nuovamente proposto senza un espresso riferimento a taluna delle specifiche ipotesi contemplate dall’art. 360 c.p.c. – si lamenta “violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato” e “dell’art. 112 c.p.c.”, ipotizzando una “modifica della “causa petendi””, nonchè i vizi di “extrapetizione” e di “errata lettura delle risultanze processuali”.

Si lamenta che, a fronte della (sola) domanda proposta dalla Regione, ovvero quella di risoluzione per inadempimento di un contratto di comodato, la Corte di Appello non poteva – come, invece, ha fatto, in ragione della già denunciata distorta valutazione delle risultanze istruttorie – dichiarare la risoluzione di un contratto “mai sorto”.

3.5. Il quinto motivo – proposto “in via di subordine” – denuncia come “ingiustificata ed illegittima” la propria condanna “al pagamento di canoni relativi ad immobili” in relazione ai quali non era insorto tra di essa e la Regione alcun contenzioso, dolendosi anche, al riguardo, di “mancata ed illogica motivazione”.

Assume la ricorrente di aver eccepito, sin dalle sue prime difese, che in caso di accoglimento della domanda attorea i soli danni risarcibili avrebbero dovuto identificarsi con quelli legati al rapporto di comodato di cui si chiedeva la risoluzione “e, perciò, quelli relativi al rimborso del valore locativo del bene al momento della sua consegna”, proponendo, in via di subordine, istanza per il licenziamento di CTU “rivolta ad accertare il danno civilistico da risarcire”.

Siffatta eccezione è stata disattesa da ambo i giudici di merito, con decisione ritenuta dalla ricorrente “ingiusta e priva di motivazione”, e ciò perchè il danno avrebbe dovuto essere rapportato “al valore locativo dell’immobile nel mercato immobiliare di Cagliari”, e non certo assumere a riferimento un contratto – quello di locazione tra la Regione e la D. e il L. – che per l’odierna ricorrente rappresentava una “res inter alios acta”.

4. Ha resistito con controricorso la Regione Sardegna chiedendo il rigetto dell’avversaria impugnazione, in quanto infondata in ogni suo motivo, in particolare sottolineando come nessuna violazione dell’art. 112 c.p.c., possa ravvisarsi nel caso di specie, atteso che la Corte di Appello ha confermato la condanna dei Enal Caccia provinciale al rilascio del bene per cui è causa sul presupposto che essa non avesse alcun titolo per occupare lo stesso, sicchè la sua presenza nell’immobile si può spiegare solo con la tolleranza manifestata dall’ente regionale.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

5. Il ricorso va rigettato.

5.1. Il primo motivo non è fondato.

Al riguardo, è necessario muovere dalla constatazione che, così come dal combinato disposto dell’art. 184 c.p.c., comma 5 e art. 187 c.p.c., non è possibile trarre l’esistenza di un diritto delle parti allo svolgimento dell’udienza per le deduzioni istruttorie (cfr. Cass. Sez. 3, sent. 21 febbraio 2002, n. 2504, Rv. 553391-01; in senso conforme Cass. Sez. 2, sent. 29 luglio 2005, n. 16092, Rv. 584859-01, nonchè Cass. Sez. 3, sent. 24 agosto 2007, n. 17965, Rv. 598872-01; Cass. Sez. 3, sent. 3 ottobre 2007, n. 20745, Rv. 598991-01), simmetricamente è da escludere che esse abbiano diritto all’immediata fissazione dell’udienza per la precisazione delle conclusioni.

Viene infatti in rilievo, nel caso di specie, un potere discrezionale del giudice, come si evince dalla scelta del legislatore – resa evidente dall’uso della congiunzione con valore ipotetico “se” – di far dipendere la rimessione della causa al collegio (o allo stesso giudice unico in funzione non più istruttoria, ma decisoria) da un apprezzamento relativo al fatto che essa sia “matura per la decisione”.

D’altra parte, una simile scelta, lungi dall’essere “ad libitum” del giudice, “si riferisce all’ipotesi in cui tra le parti sia insorta controversia solo in punto di diritto relativamente a diritti disponibili delle parti, a quella in cui i fatti controversi tra le parti sono provati attraverso documenti, a quella, infine, in cui le parti non abbiano chiesto l’ammissione di prove sui punti controversi della decisione”, ovvero le loro richieste istruttorie siano ritenute “inammissibili o non rilevanti e la causa possa essere immediatamente decisa” (così, in motivazione, Cass. Sez. 3, sent. n. 2504 del 2002, cit.).

Orbene, esclusa nel caso di specie la ricorrenza della prima e della terza ipotesi testè indicate (controversia tra le parti solo in punto di diritto, ovvero assenza di loro richieste istruttorie), non si può ritenere che a questa Corte spetti sindacare la ricorrenza delle altre due condizioni, vale a dire l’esistenza di prova documentale del fatto controverso, nonchè l’articolazione di istanze istruttorie non rilevanti o inammissibili (profilo, questo dell’inammissibilità, su cui insiste anche il secondo motivo di ricorso).

Uno scrutinio siffatto, avendo ad oggetto l’esistenza di prova documentale del fatto o l’irrilevanza della prova richiesta, si risolve in una rivalutazione – da compiersi per giunta, verrebbe da dire, in chiave di “prognosi postuma”, giacchè destinata ad investire “ora per allora” un materiale probatorio ancora non definito, bensì largamente “in fieri” – delle prove offerte al giudice, incontrando, così, i consueti limiti ai quali esso è soggetto in sede di legittimità. Sul punto, invero, sembra sufficiente richiamare il principio secondo cui il “cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito non dà luogo ad alcun vizio denunciabile con il ricorso per cassazione, non essendo inquadrabile nel paradigma dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), (che attribuisce rilievo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e presenti carattere decisivo per il giudizio), nè in quello del precedente n. 4), disposizione che – per il tramite dell’art. 132 c.p.c., n. 4, dà rilievo unicamente all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante” (Cass. Sez. 3, sent. 10 giugno 2016, n. 11892, Rv. 640194-01; in senso conforme, tra le altre, in motivazione, Cass. Sez. 3, sent. 12 ottobre 2017, n. 23940; Cass. Sez. 3, sent. 12 aprile 2017, n. 9356, Rv. 644001-01).

5.2. Il secondo motivo è, invece, inammissibile.

In disparte il rilievo secondo cui la “confessione stragiudiziale” deve provenire dalla parte “o da chi la rappresenta” (tale non potendo intendersi, rispetto all’Ente regionale, il soggetto firmatario della nota del 4 novembre 2005 dell’Assessorato regionale degli enti Locali Finanza ed Urbanistica, ovvero il Direttore del servizio), dirimente è la constatazione che il motivo – anche laddove ipotizza la violazione dell’art. 2725 c.c., per non essere consentita l’assunzione di testimonianze allorchè la prova scritta del contratto sia richiesta a pena di nullità – non sembra cogliere l’effettiva “ratio decidendi” della sentenza impugnata.

Essa, per vero, ha riconosciuto – a dispetto di quanto reputa il ricorrente – la “nullità del contratto di comodato”, giacchè “stipulato da una pubblica amministrazione non in forma scritta”, in ciò conformandosi al consolidato orientamento di questa Corte secondo cui la “volontà di obbligarsi della P.A. non può desumersi per implicito da fatti o atti, dovendo essere manifestata nelle forme richieste dalla legge, tra le quali l’atto scritto “ad substantiam”, sicchè non è configurabile il rinnovo tacito del contratto, nè rileva, per la formazione del contratto stesso, un mero comportamento concludente, anche se protrattosi per anni” (cfr., da ultimo, Cass. Sez. 3, sent. 11 novembre 2015, n. 22994, Rv. 637819-01).

Sulla base di tale presupposto – che rende superfluo, pertanto, interrogarsi sull’ammissibilità di una prova testimoniale dalla quale la Corte cagliaritana, secondo la prospettazione della ricorrente, avrebbe tratto la conclusione (in realtà mai raggiunta) circa l’avvenuta valida stipulazione del comodato – essa ha, poi, dedotto che Enal Caccia provinciale versava in una situazione di “detenzione illegittima del bene”, tradottasi “di fatto in un occupazione senza titolo”. Su tali basi, inoltre, il giudice di appello ha ritenuto di essere legittimato, a fronte dell’esercizio dell’azione di risoluzione da parte della Regione, a dichiarare la nullità del contratto. A tale esito, peraltro, esso è pervenuto facendo applicazione del principio secondo cui “qualora venga acclarata la mancanza di una “causa adquirendi” – tanto nel caso di nullità, annullamento, risoluzione o rescissione di un contratto, quanto in quello di qualsiasi altra causa che faccia venir meno il vincolo originariamente esistente – l’azione accordata dalla legge per ottenere la restituzione di quanto prestato in esecuzione del contratto stesso è quella di ripetizione di indebito oggettivo; ne consegue che, ove sia proposta una domanda di risoluzione del contratto per inadempimento e il giudice rilevi, d’ufficio, la nullità del medesimo, l’accoglimento della richiesta restitutoria conseguente alla declaratoria di nullità non viola il principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato” (è espressamente richiamata, nella sentenza impugnata, Cass. Sez. 3, sent. 7 febbraio 2011, n. 2956, Rv. 616616-01).

Orbene, si tratta di stabilire se la sentenza impugnata, nel dichiarare la nullità del contratto di comodato e nel disporre la condanna della Enal Caccia provinciale alla restituzione del bene abbia legittimante operato, che costituisce l’oggetto del quarto motivo di ricorso, destinato ad assumere carattere di centralità, una volta che si ricostruisca la “ratio decidendi” della sentenza impugnata nei termini suddetti.

5.3. Il quarto motivo non è fondato.

Sul punto occorre muovere dalla constatazione che “il vizio di ultra ed extrapetizione viene limitato alle ipotesi in cui il giudice, interferendo indebitamente nel potere dispositivo delle parti, alteri uno degli elementi di identificazione dell’azione o dell’eccezione, pervenendo ad una pronunzia non richiesta o eccedente i limiti della richiesta, mentre, laddove la pronunzia vi corrisponda nel suo risultato finale, sebbene risulti fondata su argomentazioni giuridiche diverse da quelle prospettate dalle parti, si esclude la sussistenza della violazione dell’art. 112 c.p.c.”. E ciò in quanto “il giudice è libero di individuare l’esatta natura dell’azione, di qualificare le eccezioni proposte e quindi di porre a base della pronuncia adottata considerazioni di diritto diverse da quelle prospettate, attenendo ciò all’obbligo di esatta applicazione della legge”, con l’avvertenza che “l’unico limite che il decidente incontra su questa via è rappresentato dall’impossibilità di immutare l’effetto giuridico che la parte ha inteso conseguire, nel senso che la prospettazione della stessa lo vincola a trarre dai fatti esposti il risultato giuridico domandato” (così, in motivazione, Cass. Sez. 3, sent. n. 2956 del 2011, cit.).

Nel caso di specie, dunque, considerato che – come osserva efficacemente la stessa controricorrente nel proprio scritto defensionale – lo scopo avuto di mira dalla Regione Sardegna era quello di far cessare lo stato di materiale disponibilità dell’immobile oggetto di lite da parte dell’odierna ricorrente, previo accertamento dell’assenza di alcun titolo legittimante in capo ad essa (presupposto, questo, anche della domanda risarcitoria proposta), la Corte di Appello, sebbene sulla scorta di argomentazioni giuridiche differenti da quelle prospettate dall’attrice, non sembrerebbe aver “immutato” l’effetto giuridico al quale tendeva l’azione esercitata.

D’altra parte, non senza rilievo – in questa prospettiva – parrebbe anche la constatazione che l’art. 1585 c.c., comma 2, “il quale attribuisce al conduttore la legittimazione ad agire contro i terzi che arrechino molestie concernenti il godimento dell’immobile, è analogicamente applicabile ai casi in cui il fatto illecito del terzo, che occupi abusivamente l’immobile concesso in locazione, impedisca l’attuazione di tale rapporto”, con la conseguenza “che il conduttore può agire direttamente contro l’autore dell’illecito per ottenere la disponibilità del bene e/o per il risarcimento del danno” (Cass. Sez. 1, sent. 22 febbraio 1996, n. 1411, Rv. 495982-01).

Nella specie, dunque, la Corte territoriale – una volta ritenuto che non fosse mai venuto ad esistenza un contratto di comodato tra le parti (in virtù della summenzionata nullità per difetto della necessaria forma scritta, richiesta dal R.D. 18 novembre 1929, n. 2440, art. 17, per i contratti degli enti pubblici) – ha correttamente concluso che non per questo motivo potesse ritenersi la Regione sfornita di strumenti per conseguire il “risultato finale” al quale mirava la sua iniziativa, ovvero far accertare il carattere abusivo della detenzione dell’immobile da parte di Enal Caccia provinciale, ottenendo la cessazione di tale contegno ed il risarcimento del danno.

5.4. Il terzo motivo è, invece, inammissibile.

Invero, quanto alla dedotta violazione e falsa applicazione degli artt. 1140 e 1150 c.c., si deve applicare il principio secondo cui è “inammissibile il ricorso per cassazione con cui si deduca, apparentemente, una violazione di norme di legge mirando, in realtà, alla rivalutazione dei fatti operata dal giudice di merito, così da realizzare una surrettizia trasformazione del giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, terzo grado di merito” (da ultimo, Cass. Sez. 3, ord. 4 aprile 2017, n. 8758, Rv. 643690-01).

Analogamente si è ritenuto che “il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa” – che è quanto si lamenta nel caso di specie, richiedendosi un sindacato proprio sulla scelta della Corte territoriale di privilegiare una risultanza probatoria piuttosto che un’altra – “è, invece, esterna all’esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, sottratta al sindacato di legittimità” (da ultimo, Cass. Sez. 1, ord. 13 ottobre 2017, n. 24155, Rv. 645538-03; in senso conforme anche Cass. Sez. 3, ord. 13 marzo 2018, n. 6035, Rv. 648414-01).

Nella stessa prospettiva, poi, deve qui ribadirsi – quanto alla censura che investe la scelta della Corte territoriale di non attribuire adeguato rilievo alla deposizione della teste D. – che la “valutazione delle risultanze delle prove ed il giudizio sull’attendibilità dei testi, come la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice di merito, il quale è libero di attingere il proprio convincimento da quelle prove che ritenga più attendibili” (così, ex multis, Cass. Sez. 1, sent. 23 maggio 2014, n. 11511, Rv. 631448-01; nello stesso senso, più di recente, Cass. Sez. 6-3, ord. 4 luglio 2017, n. 16467, Rv. 644812-01).

Laddove, poi, il motivo censura – peraltro, nuovamente attraverso un’inammissibile contestazione dell’apprezzamento, operato dal giudice di appello, delle risultanze istruttorie relative all’eccepita usucapione – asseriti vizi della motivazione, appare sufficiente osservare quanto segue.

Va, infatti, qui ribadito che ai sensi ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) – nel testo “novellato” dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lett. b), convertito con modificazioni dalla L. 7 agosto 2012, 134 (applicabile “ratione temporis” al presente giudizio) – il sindacato di questa Corte è destinato ad investire la parte motiva della sentenza solo entro il “minimo costituzionale” (cfr. Cass. Sez. Un., sent. 7 aprile 2014, n. 8053, Rv. 629830-01, nonchè, “ex multis”, Cass. Sez. 3, ord. 20 novembre 2015, n. 23828, Rv. 637781-01; Cass. Sez. 3, sent. 5 luglio 2017, n. 16502, Rv. 637781-01).

Lo scrutinio di questa Corte è, dunque, ipotizzabile solo in caso di motivazione “meramente apparente”, configurabile, oltre che nell’ipotesi di “carenza grafica” della stessa, quando essa, “benchè graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perchè recante argomentazioni obbiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento” (Cass. Sez. Un., sent. 3 novembre 2016, n. 22232, Rv. 641526-01), o perchè affetta da “irriducibile contraddittorietà” (cfr. Cass. Sez. 3, sent. 12 ottobre 2017, n. 23940, Rv. 645828-01), ovvero connotata da “affermazioni inconciliabili” (da ultimo, Cass. Sez. 6-Lav., ord. 25 giugno 2018, n. 16111, Rv. 649628-01), mentre “resta irrilevante il semplice difetto di “sufficienza” della motivazione” (Cas. Sez. 2, ord. 13 agosto 2018, n. 20721, Rv. 650018-01).

Nondimeno, l’evenienza summenzionata, ovvero quella di una motivazione “meramente apparente”, non sussiste nel caso di specie neppure nella prospettazione della ricorrente, la quale si è limitata a contestare, come detto, la valutazione delle risultanze istruttorie operata dalla Corte cagliaritana.

5.5. Infine, anche il quinto ed ultimo motivo di ricorso è inammissibile.

Sul punto va, innanzitutto, osservato che non si comprende alla stregua di quale dei vizi di cui all’art. 360 c.p.c., venga lamentata la natura “ingiustificata ed illegittima” della condanna comminata alla ricorrente al risarcimento dei danni. Del pari, non si comprende quali siano le basi giuridiche in forza delle quali il pregiudizio di cui la Regione Sardegna ha chiesto il ristoro – e consistente nel perdurante pagamento (almeno fino al 20 marzo 2006) del canone di tutti e tre gli immobili condotti in locazione, in ragione dell’impossibilità di restituire l’intero compendio immobiliare, stante il rifiuto del locatore ad accettare un adempimento parziale dell’obbligazione restitutoria – dovrebbe essere parametrato al valore locativo del solo immobile occupato abusivamente dalla ricorrente e non del complessivo pregiudizio subito dalla conduttrice.

Non senza tacere, poi, del fatto che essendo stato il “quantum” del risarcimento determinato ai sensi dell’art. 1226 c.c., trova applicazione il principio secondo cui “l’esercizio, in concreto, del potere discrezionale conferito al giudice di liquidare il danno in via equitativa non è suscettibile di sindacato in sede di legittimità quando la motivazione della decisione dia adeguatamente conto dell’uso di tale facoltà, indicando il processo logico e valutativo seguito” (Cass. Sez. 1, sent. 15 marzo 2016, n. 5090, Rv. 639029-01).

Ciò che è quanto si è verificato nel caso di specie, visto che si è scelto – come detto – di parametrare il danno ai complessivi esborsi affrontati della Regione, in conseguenza della mancata accettazione di una restituzione solo parziale delle “res locatae”.

6. Le spese seguono la soccombenza, essendo pertanto poste a carico della ricorrente e liquidate come da dispositivo.

7. A carico della ricorrente sussiste l’obbligo di versare l’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater.

PQM

La Corte rigetta il primo e il terzo motivo di ricorso e dichiara inammissibili i motivi secondo, quarto e quinto, condannando l’Unione Nazionale Enal Caccia-Pesca e Tiro, Sezione Provinciale di Cagliari a rifondere alla Regione Autonoma Sardegna le spese del presente giudizio, che liquida in Euro 5.000,00, più Euro 200,00 per esborsi, oltre spese forfetarie nella misura del 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, la Corte dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, all’esito di adunanza camerale della Sezione Terza Civile della Corte di Cassazione, il 14 febbraio 2018.

Depositato in Cancelleria il 17 gennaio 2019

Sostieni LaLeggepertutti.it

La pandemia ha colpito duramente anche il settore giornalistico. La pubblicità, di cui si nutre l’informazione online, è in forte calo, con perdite di oltre il 70%. Ma, a differenza degli altri comparti, i giornali online non ricevuto alcun sostegno da parte dello Stato. Per salvare l'informazione libera e gratuita, ti chiediamo un sostegno, una piccola donazione che ci consenta di mantenere in vita il nostro giornale. Questo ci permetterà di esistere anche dopo la pandemia, per offrirti un servizio sempre aggiornato e professionale. Diventa sostenitore clicca qui

LEGGI ANCHE



NEWSLETTER

Iscriviti per rimanere sempre informato e aggiornato.

CERCA CODICI ANNOTATI

CERCA SENTENZA