Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 10356 del 19/05/2016


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Civile Sent. Sez. L Num. 10356 Anno 2016
Presidente: NOBILE VITTORIO
Relatore: MANNA ANTONIO

SENTENZA
sul ricorso ic~-20H nroposto da:
SUPERCHI LORENZO C.E. SPRLNZ13P23D612R, domici1dato
in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CANCELLERIA DELLA
CORTE SUPREMA DI CAW3AZIUNE, rappresentato e difeso
dagli avvorat GABRIELE PALOSCIA, TOMMASO ROLF°,
giusta delega-, in atti;

– ricorrente –

2016
contro

953
FOND1ARIA

SA

P.A.

C.F.

00919570012,

GRUPPO

ASSICURATIVO FONDIARIA-SAI, direzione e coordinamento
FONDIARIA-SAI

.PA.,

in

persona

del

legale

Data pubblicazione: 19/05/2016

rappresentante pro iempore, elettivamente domiciliata
in ROMA, VIA FLMINIA 109, presso lo studio
dell’avvocato CTUSEPPE FONTANA, che la rappresenta e
difende unitamente all’avvocato ANDREA DEL RE, giusta
delega in atti;

avverso la :2enlenya e. 255/2013 della CORTE D’APPELLO
di FIRENZE, def_uslt,.tu

18/0.5/2013 r.g.n. 581/2012;

udita la relctlune Jlld causa svolta nella pubblica
udienza del 0 -)/03/2 , )ì6 dal Consigliere Dott. ANTONIO
MANNA;
udito 1’Avvoc,-.10 EN7,0 FABIO per delega Avvocato
FONTANA GIUSEPPE;
udito il P.M. in persona del SusLitutu Procuratore
Generale Dott. PAO].A MATkOBERARDINO, che ha concluso
per 1 -1 r[getto aol licut5u.

controricorrente

R.G. n. 19363/13
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con sentenza n. 255/13 la Corte d’appello di Firenze rigettava il gravame di
Lorenzo Superchi contro la sentenza n. 374/12 del Tribunale della stessa sede,
che ne aveva respinto l’impugnativa del licenziamento disciplinare intimatogli il
27.7.11 da Fondiaria SAI S.p.A. (alle cui dipendenze lavorava con mansioni di

2008-10) nelle liquidazioni di 26 sinistri, tutte a vantaggio dello stesso avvocato
che assisteva i diversi aventi diritto ai risarcimenti.
Per la cessazione della sentenza ricorre Lorenzo Superchi affidandosi a quattro
motivi.
Fondiaria SAI S.p.A. resiste con controricorso.
Le parti depositano memoria ex art. 378 c.p.c.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1.1. – Il primo motivo denuncia vizio di motivazione per avere la Corte
territoriale fondato la propria decisione su una prassi non dimostrata né dedotta
da Fondiaria SAI S.p.A., minimizzando – invece – l’assenza di norme procedurali
espresse circa le corrette modalità tecniche di liquidazione; si obietta in ricorso
che la sentenza non ha valorizzato neppure l’archiviazione in sede penale della
denuncia presentata contro il ricorrente, così come non ha considerato che, in
realtà, le liquidazioni effettuate in favore dell’avv. Spacocci erano giustificate
(contrariamente a quanto si legge nella gravata pronuncia) dalle apposite
procure scritte rilasciate al professionista dai danneggiati da lui assistiti e
presenti nel fascicolo delle indagini preliminari (a tale riguardo il ricorrente
dichiara di aver proposto anche istanza di revocazione della sentenza).
Censura sostanzialmente analoga – quanto all’esistenza delle procure
all’incasso in favore dell’avv. Spacocci, esistenza negata dalla gravata
pronuncia – viene fatta valere con il secondo motivo sotto forma di denuncia di
violazione e falsa applicazione degli artt. 1392, 1393, 1703, 1708, 1709, 1713
e 1721 c.c., anche per quel che concerne la forma della procura che,
contrariamente a quanto asserito dai giudici di merito, in tale evenienza ben
poteva essere anche meramente verbale o comunque ricavarsi da elementi
presuntivi; aggiunge il ricorrente che la richiesta della documentazione che
certifichi l’esistenza del potere rappresentativo in capo al mandatario (che non
necessita neppure di espressa contemplati° domini da parte sua) è meramente
facoltativa da parte del terzo.

liquidatore sinistri) per ripetute e gravi irregolarità da parte sua (nel periodo

R. G. n. 19363/13
Con il terzo motivo ci si duole di vizio di motivazione per non avere la Corte
territoriale indicato la presunta norma di legge che il ricorrente avrebbe violato,
basandosi unicamente su una prassi aziendale inclimostrata.
Il quarto motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 7 Stat. per
avere la gravata pronuncia ritenuto tempestiva la contestazione (nonostante la

scoperta delle violazioni e la contestazione disciplinare) e proporzionata la
relativa sanzione (malgrado la configurabilità a carico del ricorrente, a tutto
voler concedere, d’una mera leggerezza).

2.1. – Il primo motivo è inammissibile, da un lato, perché in realtà in esso si
sollecita una mera rivalutazione delle risultanze istruttorie, di cui si denuncia un
sostanziale travisamento, senza considerare che tale ipotetico vizio può
astrattamente farsi valere solo in via di revocazione ex art. 395 n. 4 c.p.c.
(revocazione che, infatti, in ricorso si afferma essere stata proposta nella
competente sede) e non mediante ricorso per cessazione (giurisprudenza
costante: cfr.,

ex aliis,

Cass. n. 3535/15; Cass. n. 24834/14; Cass. n.

15702/10; Cass. n. 213/07).
Dall’altro, la nuova formulazione dell’art. 360 co. 1° n. 5 c.p.c. (applicabile, ai
sensi del cit, art. 54, co. 3°, alle sentenze pubblicate dal trentesimo giorno
successivo a quello di entrata in vigore della legge di conversione del decreto,
cioè alle sentenze pubblicate dal 12.9.12 e, quindi, anche alla pronuncia in
questa sede impugnata) rende denunciabile per cessazione solo il vizio di
“omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di
discussione tra le parti”.
In tal modo il legislatore è tornato, pressoché alla lettera, all’originarla
formulazione dell’art. 360 co. 1° n. 5 c.p.c. del codice di rito del 1940.
Con orientamento (cui va data continuità) espresso dalla sentenza 7.4.14 n.
8053 (e dalle successive pronunce conformi), le S.U. di questa S.C.,
nell’interpretare la portata della novella, hanno in primo luogo notato che con
essa si è assicurato al ricorso per cessazione solo una sorta di “minimo
costituzionale”, ossia lo si è ammesso ove strettamente necessitato dai precetti
costituzionali, supponendo il giudice di legittimità quale giudice dello

ius

constitutionis e non, se non nei limiti della violazione di legge, dello ius
litiga toris.

tardività dei controlli attivati e il decorso di oltre un anno e mezzo fra la

RG. n. 19363/13

Proprio per tale ragione le S.U. hanno affermato che non è più consentito
denunciare un vizio di motivazione se non quando esso dia luogo, in realtà, ad
una vera e propria violazione dell’art. 132 co. 2° n. 4 c.p.c.
Ciò si verifica soltanto in caso di mancanza grafica della motivazione, o di
motivazione del tutto apparente, oppure di motivazione perplessa od

contraddittorietà e sempre che i relativi vizi emergano dal provvedimento in sé,
esclusa la riconducibilità in detta previsione di una verifica sulla sufficienza e
razionalità della motivazione medesima mediante confronto con le risultanze
probatorie.
Per l’effetto, il controllo sulla motivazione da parte del giudice di legittimità
diviene un controllo ab intrinseco, nel senso che la violazione dell’art. 132 co.
2° n. 4 c.p.c. deve emergere obiettivamente dalla mera lettura della sentenza
in sé, senza possibilità alcuna di ricavarlo dal confronto con atti o documenti
acquisiti nel corso dei gradi di merito.
Secondo le S.U., l’omesso esame deve riguardare un fatto (inteso nella sua
accezione storico-fenomenica e, quindi, non un punto o un profilo giuridico)
principale o primario (ossia costitutivo, impeditivo, estintivo o modificativo del
diritto azionato) o secondario (cioè dedotto in funzione probatorla).
Ma il riferimento al fatto secondario non implica che possa denunciarsi ex art.
360 co. 10 n. 5 c.p.c. anche l’omesso esame di determinati elementi probatori!
basta che il fatto sia stato esaminato, senza che sia necessario che il giudice
abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie emerse all’esito dell’istruttoria
come astrattamente rilevanti.
A sua volta deve trattarsi di un fatto (processualmente) esistente, per esso
intendendosi non un fatto storicamente accertato, ma un fatto che in sede di
merito sia stato allegato dalle parti: tale allegazione può risultare già soltanto
dal testo della sentenza impugnata (e allora si parlerà di rilevanza del dato
testuale) o dagli atti processuali (rilevanza dei dato extra-testuale)_
Sempre le S.U. precisano gli oneri di allegazione e produzione a carico del
ricorrente ai sensi degli artt. 366 co. 1° n. 6 e 369 co. 2° n. 4 c.p.c.: il ricorso
deve indicare chiaramente non solo il fatto storico del cui mancato esame ci si
duole, ma anche il dato testuale (emergente dalla sentenza) o extra-testuale
(emergente dagli atti processuali) da cui risulti la sua esistenza, nonché il come
e il quando tale fatto sia stato oggetto di discussione tra le parti e spiegarne,
infine, la decisività.

oggettivamente incomprensibile, oppure di manifesta e irriducibile sua

R. G. n. 19363/13

L’omesso esame del fatto decisivo si pone, dunque, nell’ottica della sentenza
n. 8053/14 come il “tassello mancante” (così si esprimono le S.U.) alla
plausibilità delle conclusioni cui è pervenuta la sentenza rispetto a premesse
date nel quadro del sillogismo
Invece, il ricorso in oggetto non risponde ai requisiti prescritti dalla citata

2.2. – Anche il secondo motivo è inammissibile nella parte in cui sostiene che
la Corte territoriale non avrebbe considerato l’esistenza di apposite procure
scritte e, comunque, la non necessità di tale forma, bastando quella meramente
verbale.
Ora, circa l’esistenza o meno di apposite procure scritte, deve ribadirsi
l’inammissibilità della denuncia, mediante ricorso per cassazione, d’un ipotetico
travisamento dei fatti.
Quanto all’asserita sufficienza di mere procure verbali, basti osservare che la
censura non è conferente rispetto alla motivazione esposta dalla sentenza
impugnata, che ha evidenziato che alcuni degli aventi diritto al risarcimento
hanno negato di aver conferito procura alcuna al suddetto avvocato.
Del pari non conferente rispetto alla ratio decidendi è il sostenere la mera
facoltatività della verifica del potere del rappresentante da parte del terzo che
con lui venga in contatto: Lorenzo Superchi, nella sua qualità di liquidatore di
sinistri, agiva non in proprio, ma pur sempre quale rappresentante di Fondiaria
SAI S.p.A., sicché era tenuto ad agire con la diligenza prescritta dall’art. 1710

c.c., che gli imponeva (anziché consentirgli una mera facoltà a riguardo)
verificare l’esistenza dei

di

poteri dell’altro supposto rappresentante (l’avv.

Spacocci) prima di liquidargli alcunché.
Ulteriore ragione di inammissibilità del motivo risiede nel non avere

il

ricorrente confutato con apposite argomentazioni le ulteriori autonome rationes
decidendi su cui si è fondata la sentenza della Corte territoriale, che ha
ravvisato una giusta causa di licenziamento anche nell’essersi l’odierno
ricorrente ingiustificatamente ingerito nelle liquidazioni di sinistri affidate ad
altri suoi colleghi e sempre a vantaggio dello stesso avvocato, nonché
nell’avergli liquidato gli importi relativi ai sinistri senza mai distinguere fra
indennizzi e competenze professionali.
Invero, allorquando la sentenza di merito si basi su una pluralità di autonome
ragioni, ciascuna di per sé sufficiente a giustificare la decisione, la parte

sentenza delle S.U.

R.G. n. 19363113

soccombente ha l’onere di censurare ognuna di esse, non potendo il giudice
dell’Impugnazione estendere il proprio esame a punti non compresi neppure per
implicito nei termini prospettati dal gravame, senza violare il principio della
corrispondenza fra ìl chiesto e il pronunciato (Cass. nn. 18310/07, 7809/01 e
7675/95).

più rationes decidendi siano in rapporto di pregiudizialità logica o giuridica: in
siffatta evenienza la specifica impugnazione della ratio pregiudicante contiene
per implicito anche la contestazione della ratio pregiudicata, non potendo
quest’ultima reggersi da sola una volta che sia stata dimostrata l’inconsistenza
della prima.
Ma – a tutta evidenza – non è questo il caso di specie.
In breve, va ribadito il principio secondo cui, ove venga impugnata una
sentenza – o un capo di questa – fondata su più ragioni, tutte autonomamente
idonee a sorreggerla, è necessario che ciascuna di esse abbia formato oggetto
di specifica censura; diversamente, l’omessa impugnazione di una di esse rende
inammissibile la censura relativa alle altre, la quale, essendo divenuta definitiva
l’autonoma motivazione non impugnata, non potrebbe produrre in nessun caso
la rimozione della sentenza (v. Cass. 25.2.13 n. 4672; cfr. altresì, ex a(iis,
Cass. 3.11.11 n. 22753 e Cass. S.U. 8.8.2005 n, 16602).

2.3. – Del pari inammissibile è il terzo motivo.
Lamentare che la sentenza non abbia indicato le norme di legge ritenute
violate costituisce una denuncia di vizio della motivazione in diritto, in quanto
tale non spenclibile mediante ricorso per cessazione ex art. 360 co. 1° n. 5
c.p.c., che concerne solo la motivazione in fatto, giacché quella in diritto può
sempre essere corretta o meglio esplicitata, sia in appello che in cassazione (in
quest’ultimo caso ex art. 384 ult. co . c.p.c.), senza che la sentenza impugnata

ne debba in alcun modo soffrire.
In altre parole, rispetto alla questione di diritto ciò che conta è che la
soluzione adottata sia corretta ancorché malamente spiegata o non spiegata
affatto; se

invece risulta

erronea, nessuna motivazione (per quanto

dialetticamente suggestiva e ben costruita) la può trasformare in esatta e il
vizio da cui risulterà affetta la pronuncia sarà non già di motivazione, bensì di
inosservanza o violazione di legge o falsa od erronea sua applicazione.

possibile un’implicita censura d’una ratio decidendi soltanto quando le due o

RG. n. 19363113

2.4. – II quarto motivo è infondato.
La tempestività d’una contestazione disciplinare va valutata non muovendo
dall’epoca dell’astratta conoscibilità dell’infrazione, bensì dal momento in cui il
datore di lavoro ne acquisisca in concreto piena conoscenza, a tal fine non
bastando meri sospetti (cfr., ex aliis, Cass. n. 26304/14; Cass. n. 12577/02;

Nel . caso di specie, con accertamento in punto di fatto insindacabile nella
presente sede, la gravata pronuncia ha constatato che gli illeciti disciplinari
sono stati scoperti (soprattutto nel loro elemento unificante, costituito dalla

costante identità dell’avvocato avvantaggiato dalle anomale modalità di
liquidazione dei sinistri da parte dell’odierno ricorrente) solo dopo le indagini
svolte dai revisori della funzione AUDIT del gruppo societario, cioè soltanto
dopo la segnalazione fatta nel luglio 2010 dal supervisore sinistri dell’area.
Ciò significa che le more della contestazione sono state giustificate dalla
complessità della ricostruzione di vicende protrattesi nell’arco di un biennio
(relative a 26 sinistri, ma ad un numero di gran lunga superiore di soggetti a
vario titolo interessati) e dalle necessarie verifiche prodromiche all’avvio del
procedimento di cui all’art. 7 Stat., solo al cui esito la società ha avuto contezza
dei fatti e della loro rilevanza disciplinare.
Dunque, contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente non è decorso oltre

un anno e mezzo fra la scoperta delle violazioni (intesa come sua adeguata
conoscenza nelle relative implicazioni e nell’individuazione del responsabile) e la
contestazione disciplinare.
A ciò si aggiunga che bisogna mantenere ben fermo il principio secondo cui
non basta il mero sospetto per la contestazione ancor prima di conoscere l’esito
delle verifiche in corso: diversamente si costringerebbe l’azienda ad anticipare
la contestazione senza ancora disporre dei dati conoscitivi per valutare le
giustificazioni eventualmente offerte dal lavoratore.
Né è sostenibile che il datare di lavoro debba anticipare

l’iter disciplinare

prima ancora di disporre dei necessari dati conoscitivi perché poi, in loro attesa,
potrebbe sospendere il proprio giudizio. É vero – invece – il contrario, se solo si

pensa alla decadenza dall’esercizio del potere disciplinare previsto in tempi
assai rapidi da numerosi contratti collettivi.
Né, infine, può accogliersi l’assunto – ribadito nella memoria ex art. 378 c.p.c.
di parte ricorrente – secondo cui la tempestività della contestazione disciplinare
dovrebbe essere valutata alla luce d’un preteso obbligo, in capo al datare di
6

Cass. n. 12621/2000).

R.G. n. 19363113

lavoro, di continuo o comunque tempestivo controllo dell’operato dei propri
dipendenti: nessuna norma di legge o di contratto lo prevede, né esso può dirsi
connaturato alla posizione datoriale, prova ne sia che per potersi parlare di
obbligo all’interno d’un rapporto sinallagmatico dovrebbe individuarsi la
corrispettiva posizione attiva a favore dell’altra parte, mentre non è ipotizzabile

fatto che le proprie infrazioni siano state scoperte dal datare di lavoro.
Né siffatto obbligo può ricavarsi dai principi di correttezza e buona fede ex
artt. 1175 e 1375 c.c. (cfr. Cass. n. 16196/09): lo smentisce il carattere
fiduciario del rapporto di lavoro, fiducia che per sua stessa nozione consiste
nella sensazione di sicurezza basata sulla speranza o sulla stima riposta in
qualcuno o in qualcosa.
Ciò implica che la fiducia del datore di lavoro nei confronti del proprio
dipendente faccia sì che egli normalmente conti sulla sua correttezza, ossia che
faccia affidamento sul fatto che il lavoratore rispetti i propri doveri anche in
assenza di controlli assidui e continui.
Dunque, il supporre che le clausole generali di correttezza e buona fede ex
artt. 1175 e 1375 c.c. impongano al datare di lavoro di controllare
assiduamente i propri dipendenti contestando loro immediatamente qualsiasi
infrazione prevenendone una maggiore gravità negherebbe in radice quel
carattere fiduciario del rapporto di lavoro subordinato che ne costituisce
requisito ineliminabile,
In breve, connaturato alla posizione datorlale è Il suo potere di controllo (che
costituisce una delle specificazioni dei potere gerarchico e direttiva di cui agli
artt. 2086 e 2104 cpv. c.c.), non certo il suo obbligo.
Né l’obbligo di tempestivo controllo di cui parla il ricorrente può essere
ricostruito come onere, in capo al datore di lavoro, da assolvere per poter poi
esercitare il potere disciplinare di cui all’art. 2106 c.c., sostituendolo o
aggiungendolo all’onere (che è assai diverso, sia ben chiaro) di formulare
tempestiva contestazione non appena si venga a conoscenza d’una infrazione
disciplinare: mentre questo risponde all’esigenza di prevenire un uso
dell’iniziativa disciplinare pretestuoso o strumentale alla menomazione del
diritto di difesa del lavoratore, quello sarebbe privo di qualsiasi fondamento
pratico o teorico (oltre che contrario alla natura fiduciaria del rapporto di lavoro,
come s’è detto), a meno che non si ipotizzi che il lavoratore abbia il diritto di

un diritto del dipendente ad essere controllato o ad essere subito informato del

R.G. n. 19363/13

continuare a violare i propri doveri fino a quando la sua condotta non venga
scoperta (ipotesi non meritevole di commento).

3.1. – In conclusione, il ricorso è da rigettarsi.
Le spese del giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo, seguono la

P.Q.M.
La Corte
rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente a pagare le spese del giudizio di
legittimità, liquidate in curo 5.100,00, di cui euro 5.000,00 per compensi
professionali ed euro 100,00 per esborsi, oltre al 15% di spese generali e agli
accessori di legge.

Ai sensi dell’art. 13 co. 1 quater d.P.R. n. 115/2002, come modificato dall’art. 1
co. 17 legge 24.12.2012 n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti per
versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo
unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del CO. 1 bis dello stesso
articolo 13.
Roma, così deciso nella camera di consiglio del 3.3.16.

soccombenza.

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