Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 10347 del 20/04/2021

Cassazione civile sez. III, 20/04/2021, (ud. 02/12/2020, dep. 20/04/2021), n.10347

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIVALDI Roberta – Presidente –

Dott. SCODITTI Enrico – Consigliere –

Dott. FIECCONI Francesca – Consigliere –

Dott. POSITANO Gabriele – Consigliere –

Dott. GUIZZI Stefano Giaime – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 4070/2019 proposto da:

F.S., RCS MEDIAGROUP SPA, D.G.M.L.,

elettivamente domiciliati in ROMA, VIA VALLE DELLA MULETTA 119,

presso lo studio dell’Avvocato GIUSEPPE GUELI, che li rappresenta e

difende unitamente all’Avvocato MARCELLO FRANCO;

– ricorrenti –

contro

P.D. elettivamente domiciliato in ROMA, VIA GIUSEPPE AVEZZANA,

2, presso lo studio dell’Avvocato SERAPIO DEROMA, che lo rappresenta

e difende;

– controricorrente –

nonchè da:

P.D., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA GIUSEPPE

AVEZZANA, 2, presso lo studio dell’Avvocato SERAPIO DEROMA, che lo

rappresenta e difende;

– ricorrente incidentale –

contro

F.S., RCS MEDIAGROUP SPA, D.G.M.L.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 7478/2018 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 26/11/2018;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

02/12/2020 dal Consigliere Dott. STEFANO GIAIME GUIZZI.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. La società RCS Mediagroup S.p.a. (d’ora in poi, “società RCS”), F.S. e D.G.M.L. ricorrono, sulla base di cinque motivi, per la cassazione della sentenza n. 7478/18, del 14 novembre 2018, della Corte di Appello di Roma, che accogliendo il gravame esperito da P.D. avverso la sentenza n. 22665/13, del 31 ottobre 2013, del Tribunale di Roma – così provvedeva.

Essa accoglieva parzialmente la domanda risarcitoria proposta dal P. contro gli odierni ricorrenti, condannando gli stessi a corrispondergli la somma di Euro 80.000,00 (oltre interessi come in motivazione), a titolo di danno non patrimoniale conseguente alla pubblicazione, sul quotidiano “(OMISSIS)”, di due articoli diffamatori, rigettando, invece, la domanda nella parte in cui mirava a conseguire il risarcimento anche del danno patrimoniale, ordinando, infine, sia la rimozione degli articoli suddetti dall’archivio della edizione “on line” del quotidiano, sia la pubblicazione sullo stesso, a cura e spese degli appellati, una sola volta e per estratto, di copia della sentenza medesima.

2. In punto di fatto, i ricorrenti riferiscono di essere stati convenuti in giudizio dal P. (nelle rispettive qualità, RCS, di società editrice del quotidiano, nonchè, il F. e la D.G., di direttore responsabile dello stesso e di autrice dei due articoli), sul presupposto della natura diffamatoria degli scritti, entrambi pubblicati sulla cronaca di (OMISSIS) de “(OMISSIS)”. Nel primo articolo, apparso in data (OMISSIS), si riferivano gli sviluppi dell’attività svolta dall’Ispettorato Generale del Ministero della Giustizia, in merito alla gestione della Sezione Fallimentare del Tribunale di Roma. Con particolare riferimento alla posizione del P., legale iscritto all’albo degli avvocati della Capitale, nonchè titolare di numerose curatele presso la suddetta Sezione Fallimentare, veniva pubblicato quanto segue. “A volte le parentele diventano imbarazzanti, come sa l’ex Presidente della sezione B.G.: il magistrato ha affidato alcuni fascicoli agli Avvocati D.M.C. e P.D., il primo capo di suo figlio M., l’altro di T.V., marito di sua nipote”. A tale articolo seguiva, su sollecitazione del P. (che segnalava, con missiva inviata al quotidiano, di non aver ricevuto incarichi dal Presidente B., di non essere “il capo” del Dott. T., nè di aver mai intrattenuto rapporti “con presunte nipoti del Presidente B.”), il successivo (OMISSIS), la rettifica della notizia, accompagnata da una breve nota dell’articolista, ritenuta, tuttavia, anch’essa diffamatoria dal P..

Incardinato il giudizio innanzi al Tribunale di Roma, la domanda veniva integralmente rigettata, con decisione, tuttavia, parzialmente riformata in appello, nei termini sopra meglio indicati, essendo, invece, respinto l’appello incidentale condizionato con cui gli odierni ricorrenti censuravano la reiezione dell’eccezione di prescrizione sollevata innanzi al primo giudice.

3. Avverso la decisione della Corte capitolina ricorrono per cassazione la società RCS, il F. e la D.G., sulla base come detto – di cinque motivi (gli ultimi tre, peraltro, subordinatamente ai primi due).

3.1. Con il primo motivo è denunciata – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) – violazione e falsa applicazione degli artt. 2943,2947 e 2948 c.c., per avere il giudice di secondo grado erroneamente ritenuto interrotto il termine di prescrizione quinquennale, in ragione dell’invio, da parte del P., di raccomandata a.r. del 15 dicembre 2009, priva dei requisiti di valida costituzione in mora.

Sul presupposto che il giudizio di primo grado venne instaurato con citazione notificata il 15-17 aprile 2010, e quindi oltre cinque anni dopo la pubblicazione degli articoli, gli odierni ricorrenti assumono che il credito risarcitorio sarebbe prescritto, essendo la suddetta raccomandata del 15 dicembre 2009 priva dei requisiti di valido atto di interruzione della prescrizione, in quanto “assolutamente generica ed indeterminata”, diversamente dà quanto ritenuto dalla Corte territoriale.

3.2. Con il secondo motivo si denuncia – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) – violazione e falsa applicazione degli artt. 2043,2049 e 2059 c.c., nonchè dell’art. 595 c.p. e dell’art. 2 Cost., per essere stati erroneamente ritenuti illeciti, in danno dell’Avv. P., i due scritti del (OMISSIS).

Evidenziano i ricorrenti, quale “antefatto” della presente vicenda processuale, la predisposizione, da parte dell’Ispettorato Generale del Ministero della Giustizia, di due relazioni (del (OMISSIS)) relative ad irregolarità emerse, presso la Sezione Fallimentare, del Tribunale capitolino. Difatti, le nomine di coadiutori e consulenti sarebbero avvenute “pescando sempre nella medesima cerchia”, tra i beneficiari di questo sistema essendo individuati, nelle predette relazioni ministeriali, anche “i cognati T. – P.”. Con riferimento al T., inoltre, nella prima delle due relazioni si affermava che il medesimo “si dice fidanzato con la nipote del Presidente B.”, mentre nella seconda lo stesso veniva indicato, “ormai, a quanto pare”, come “marito” della donna. Inoltre, il T. e il P. erano individuati quali destinatari di n. 92 incarichi dalla Sezione, precisandosi “che il Presidente B. ha assegnato al futuro “nipote” il 16,33 degli incarichi” complessivi.

Orbene, è in tale contesto – sottolineano i ricorrenti – che si colloca l’articolo del (OMISSIS), “il quale, sulla base delle relazioni ispettive poc’anzi menzionate, riferiva, in sintesi, delle indagini svolte dall’Ispettorato”, essendosi lo scritto in questione limitato “a dar conto di un fatto documentato”, ovvero che il P. avesse ricevuto degli incarichi (per l’esattezza, n. 43) “nella totale ignoranza delle indicazioni contenute nei cd. elenchi”, ciò che per gli stessi ispettori ministeriali costituiva una vera e propria “anomalia”.

Di conseguenza, la sentenza impugnata – sebbene abbia dato atto dell’esistenza, presso la Sezione Fallimentare del Tribunale di Roma, di “una situazione molto degradata”, nonchè di “un evidente interesse pubblico a diffondere le relative notizie, risultando peraltro all’epoca procedimenti penali riguardanti giudici della sezione” (ovvero, sottolineano i ricorrenti, proprio “il nucleo essenziale della notizia riferita fedelmente dal Corriere della Sera”) – avrebbe errato nel ritenere diffamatorio, da parte del quotidiano, l’aver “comunicato che l’Avv. P. riceveva incarichi perchè legato professionalmente al Dott. T., marito della nipote del Presidente B.”, circostanza non vera, risultando il T. coniugato con persona “non legata da alcuna parentela” con il magistrato.

L’erroneità di tale conclusione deriverebbe, innanzitutto, dal fatto che tale (inesistente) rapporto di parentela era stato attestato dagli ispettori ministeriali, sicchè la Corte territoriale avrebbe dovuto fare applicazione del principio secondo cui “la lesione dell’onore e della reputazione altrui non si realizza quando la notizia diffusa sia vera per essere contenuta in un documento ufficiale” (è citata Cass. Sez. 3, sent. 24 maggio 2002, n. 7628), documenti, nella specie, rappresentati dalle due relazioni ministeriali, che la giornalista non aveva alcun onere di verificare.

In secondo luogo, a prescindere dalla circostanza che il P. fosse “il capo” del T., o che quest’ultimo fosse stato fidanzato con la nipote del B., decisivo sarebbe il fatto che furono gli ispettori ministeriali, a torto o a ragione, “ad inserire il P. tra i professionisti “beneficiati” ingiustamente dai giudici della Sezione fallimentare”, sicchè l’articolista D.G. “era certamente legittimata” a riferire tale notizia, “commentandola”, giacchè “vera quantomeno sotto il profilo putativo”.

Il presente motivo contesta, infine, la decisione della Corte territoriale perchè essa non solo ha escluso che la rettifica del (OMISSIS) fosse idonea a ridurre le conseguenze del danno, ma ha ritenuto di attribuire alla nota di commento della stessa, a firma della medesima articolista, un “ulteriore effetto lesivo della reputazione” del P..

3.3. Il terzo motivo denuncia – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) – violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1223,2043,2056,2059 e 2697 c.c., per avere la Corte territoriale liquidato il danno non patrimoniale, nella misura di Euro 80.000,00, in difetto di prova e, comunque, senza tener conto dell’efficacia riparatoria della pubblicata rettifica, oltre che della disposta pubblicazione della sentenza, ex art. 120 c.p.c..

Si censura la sentenza impugnata nella parte in cui afferma che “una volta provata la condotta ingiuriosa è indubbio che si debba presumere che tale condotta abbia determinato la lesione dell’onore”, giacchè essa, di fatto, configura il danno in questione come “in re ipsa”, essendosi la Corte territoriale limitata a rilevare, del tutto apoditticamente, che il P. è “un professionista che gode di buone relazioni professionali e sociali”.

In ogni caso, poi, l’entità del risarcimento risulterebbe sproporzionata rispetto alle circostanze del caso, atteso che: l’articolo venne pubblicato solo nella cronaca di Roma, dedicando alla posizione dell’Avv. P. uno spazio modesto; l’attore non ha dimostrato alcuna ripercussione negativa derivata dalla pubblicazione; la notizia riprendeva una fonte istituzionale e, infine, fu oggetto di rettifica.

3.4. Il quarto motivo denuncia – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) – violazione e/o falsa applicazione dell’art. 120 c.p.c., per avere la Corte territoriale ordinato la pubblicazione della sentenza nonostante fossero passati quattordici anni dalla pubblicazione degli articoli, nè tenendo conto che essa avvenne sulle pagine della cronaca di (OMISSIS).

3.5. Il quinto motivo denuncia – sempre ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) – violazione e/o falsa applicazione del D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, artt. 96 e 97 e dell’art. 2 Cost., per avere la sentenza impugnata erroneamente disposto la rimozione dell’articolo e della rettifica dall’archivio “on line” del (OMISSIS)”.

Si assume, infatti, che la conservazione della notizia trovi la sua giustificazione nel principio di verità della stessa in quel dato momento storico, spettando, se del caso, solo all’interessato, ed avuto riguardo alla finalità della conservazione dell’archivio e all’interesse che la sottende, richiedere la contestualizzazione della notizia (peraltro, nel caso in esame, già presente in detto archivio) ed il suo eventuale aggiornamento.

Inoltre, le “importanti risorse storico-educative” fornite dagli archivi “on line” risultano, secondo i ricorrenti, riconosciute dalla giurisprudenza della Corte EDU, la quale ha affermato l’esistenza di un permanente interesse pubblico alla conoscenza delle vicende giudiziarie, che investe le informazioni non solo sugli eventi correnti, ma anche passati (è citata Corte EDU, sent. 19 ottobre 2017, Fuchsmann Vs. Germania).

4. Ha resistito, con controricorso, all’avversaria impugnazione il P., chiedendone la declaratoria di inammissibilità, sotto plurimi profili, ovvero, in subordine, il rigetto, nonchè svolgendo ricorso incidentale.

4.1. Quanto al ricorso principale, il controricorrente contesta, innanzitutto, la ricostruzione dei fatti proposta da parte avversa.

Si evidenzia, infatti, come la nota di commento alla rettifica ebbe non solo ad insistere nell’indicare (come attestato dall’uso delle parole “ma segnaliamo”) la circostanza, non vera, che la moglie del T. fosse una nipote del Presidente B., ma pure ad affermare che, secondo la prima delle due relazioni ministeriali sopra richiamate, il P. era stato, comunque, destinatario di incarichi da altro magistrato della Sezione Fallimentare, anch’egli “processato” dal CSM come il Dott. B..

Per il resto, il controricorrente ribadisce la correttezza della motivazione della sentenza impugnata, quanto alla ritenuta interruzione del corso della prescrizione, al riconoscimento del carattere diffamatorio dei due scritti e alla liquidazione del danno non patrimoniale.

4.2. Quanto al ricorso incidentale, lo stesso si articola in tre motivi

4.2.1. In particolare, il primo motivo denuncia – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) – violazione degli artt. 115,116 c.p.c., art. 183 c.p.c., comma 7, nonchè artt. 1226,2227 e 2729 c.c..

Si censura la sentenza impugnata nella parte in cui afferma che era onere del danneggiato, al fine di conseguire il ristoro del danno patrimoniale, “dimostrare la contrazione dei suoi redditi dopo l’illecito”, non potendo il giudice, in mancanza, avvalersi del potere di liquidazione equitativa, ricorrendo, se del caso, ad una CTU per meglio esercitarlo.

Questa affermazione, secondo il controricorrente, sarebbe erronea, sotto più profili.

In primo luogo, perchè la Corte territoriale non ha valutato adeguatamente la prova per atto pubblico costituita dal certificato rilasciato dalla cancelleria della Sezione Fallimentare, in data 31 maggio 2011, attestante i 23 incarichi professionali ricevuti dal P. tra il 15 maggio 1999 e il 30 settembre 2004 (incarichi che si esaurirono dopo le pubblicazioni giornalistiche). In secondo luogo, l’erroneità dell’affermazione suddetta rivelerebbe come il giudice di appello non abbia saputo valorizzare quel documento quale indizio grave, preciso e concordante dell’esistenza anche del danno patrimoniale da diffamazione.

Infine, si censura la scelta di non dare corso ad una CTU contabile, che non era affatto diretta ad uno scopo esplorativo, bensì a supportare il giudice nella valutazione equitativa del danno.

4.2.2. Il secondo motivo denuncia – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3), 4) e 5) – violazione e degli artt. 115 e 116 c.p.c., nonchè artt. 1324,1434 e 1438 c.c., “da trattarsi necessariamente in uno con l’omesso esame circa un fatto decisivo del giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”.

Si censura la sentenza impugnata nella parte in cui ha escluso l’esistenza del nesso causale tra le due pubblicazioni e il danno patrimoniale. A tale esito essa è pervenuta, in particolare, sul rilievo che l’odierno ricorrente – convocato dalla Sezione Fallimentare, in virtù di provvedimento del (OMISSIS) con cui il giudice delegato a quelle procedure concorsuali, delle quali il P. era il curatore, proponeva la revoca dall’incarico, “ritenendo compromesso il rapporto fiduciario con il medesimo anche in relazione alle notizie apparse sulla stampa” – ebbe ad abbandonare volontariamente tali incarichi.

Senonchè, la Corte territoriale – omettendo di considerare il contenuto della lettera inviata da quello stesso magistrato anni dopo i fatti (esattamente, il (OMISSIS)), con la quale il medesimo esprimeva il proprio rincrescimento per aver “indotto” il P. “ad operare rinuncia alle curatele” – avrebbe “commesso il grave errore” di considerare le dimissioni come “manifestazioni di libero pensiero” dell’odierno ricorrente e non, invece, come “indotte/coartate” dal magistrato. Le dimissioni, pertanto, sarebbero state suscettibili di annullamento per violenza, ex art. 1434 c.c., considerato il vantaggio ingiusto conseguito dal magistrato, ovvero, estromettere il professionista dalle curatele per “allontanare in pari tempo dalla sua persona qualsivoglia possibile ed anche pur minimo sospetto sul proprio operato giurisdizionale”.

D’altra parte, con il medesimo motivo, il ricorrente censura pure l’affermazione relativa all’assenza di dimostrazione sull’ammontare del danno, difettando – a dire della Corte territoriale – “la prova dei mancati introiti riferiti agli incarichi passati”. La sentenza impugnata, per contro, sarebbe giunta a diversa conclusione se non avesse omesso di considerare ben undici documenti allegati da esso P., che attesterebbero il danno subito in conseguenza dell’induzione a rinunciare a quegli incarichi, allegazioni in relazione alle quali non vi fu alcuna contestazione specifica ad opera degli allora convenuti, donde, allora, l’avvenuta “relevatio ab onere probandi” ai sensi dell’art. 115 c.p.c., comma 1.

4.2.3. Infine, il terzo motivo denuncia – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3) e 4) – violazione della L. 8 febbraio 1948, n. 47, art. 12, oltre che dell’art. 112 c.p.c. e art. 132 c.p.c., comma 2, n. 2).

Si censura la sentenza impugnata nella parte in cui ha escluso che la riparazione pecuniaria di cui della L. n. 47 del 1948, citato art. 12, non potesse essere posta a carico dell’editore e del direttore del giornale, senza, però, spiegare perchè la stessa non potesse essere applicata almeno nei confronti della giornalista, lacuna che integrerebbe il vizio di omessa pronuncia e di mancata motivazione.

5. Il ricorrente incidentale ha depositato memoria insistendo nelle proprie argomentazioni.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

6. Il ricorso principale va rigettato.

6.1. Il primo motivo non è fondato.

6.1.1. E’, infatti, corretta la decisione della Corte capitolina di riconoscere efficacia interruttiva del corso della prescrizione alla missiva inviata dal P., il 15 dicembre 2009, a ciascuno dei tre soggetti (la società RCS, il F. e la d.G.) poi convenuti in giudizio.

Nella stessa, invero, egli manifestava “la volontà di essere risarcito per tutti i danni di qualsivoglia natura, nessuno escluso”, e ciò “in relazione agli articoli” riguardanti la sua persona “pubblicati sul giornale “(OMISSIS)”, cronaca di (OMISSIS) il giorno (OMISSIS) ed il giorno (OMISSIS)”. A tale richiesta, inoltre, faceva seguito – nella medesima missiva – la dichiarazione di volere, con la stessa, “costituire in mora: ad ogni effetto di legge” i destinatari, sia di “procedere alla formale interruzione della prescrizione”, preannunciando, infine, di “aver conferito mandato ad un legale”.

Orbene, considerato che il credito risarcitorio da illecito aquiliano è, per sua natura, illiquido, non fondata risulta la doglianza dei ricorrenti nel richiamare i principi giurisprudenziali per vero, enunciati da questa Corte con riferimento ai crediti “ex contractu” – che esigono che l’atto interruttivo della prescrizione rechi, oltre ad “una chiara indicazione del soggetto obbligato” e alla “esplicitazione di una pretesa” (elementi entrambi presenti nel caso che occupa, avendo il P. esternato la propria volontà “di essere risarcito di tutti i danni di qualsivoglia natura”, connessi alla pubblicazione dei due articoli, a ciascuno dei tre soggetti solidalmente obbligati al risarcimento, ex art. 2055 c.c.), anche “l’intimazione o la richiesta scritta di adempimento”, giacchè qui l’obbligazione risarcitoria “da adempiere” presupponeva un’iniziativa giudiziaria, che peraltro lo scrivente preannuncia di voler assumere.

6.2. Neppure il secondo motivo del ricorso principale è fondato.

6.2.1. In via preliminare, deve muoversi dalla constatazione che costituisce consolidato principio quello secondo cui, “in tema di azione di risarcimento dei danni da diffamazione a mezzo della stampa, la ricostruzione storica dei fatti, la valutazione del contenuto degli scritti, l’apprezzamento in concreto delle espressioni usate come lesive dell’altrui reputazione, la valutazione dell’esistenza o meno dell’esimente dell’esercizio del diritto di cronaca e di critica costituiscono oggetto di accertamenti di fatto, riservati al giudice di merito ed insindacabili in sede di legittimità se sorretti da argomentata motivazione” (così, da ultimo, in motivazione, Cass. Sez. 3, ord. 14 marzo 2018, n. 6133, Rv. 648418-01; in senso conforme, anche Cass. Sez. 3, ord. 28 febbraio 2019, n. 5811, Rv. 652997-01, nello stesso senso, tra le più recenti, Cass. Sez. 3, ord. 30 maggio 2017, n. 13520, non massimata sul punto; Cass. Sez. 3, sent. 27 luglio 2015, n. 15759, non massimata, Cass. Sez. 3, sent. 10 gennaio 2012, n. 80, Rv. 621133-01).

Di conseguenza, il “controllo affidato al giudice di legittimità è dunque limitato alla verifica dell’avvenuto esame, da parte del giudice del merito, della sussistenza dei requisiti della continenza, della veridicità dei fatti narrati e dell’interesse pubblico alla diffusione delle notizie, nonchè al sindacato della congruità e logicità della motivazione, secondo la previsione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), applicabile “ratione temporis””, mentre resta “del tutto estraneo al giudizio di legittimità l’accertamento relativo alla capacità diffamatoria delle espressioni in contestazione, non potendo la Corte di cassazione sostituire il proprio giudizio a quello del giudice di merito in ordine a tale accertamento” (così, nuovamente in motivazione, Cass. Sez. 3, ord. n. 6133 del 2018, cit.).

Dando seguito a questo indirizzo, e tenuto conto degli attuali limiti di legge al sindacato sulla motivazione, il motivo in esame risulta non fondato.

Sul punto, infatti, va rammentato che, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) – nel testo “novellato” dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lett. b), convertito con modificazioni dalla L. 7 agosto 2012, 134 (applicabile “ratione temporis” al presente giudizio) – il sindacato di questa Corte è destinato ad investire la parte motiva della sentenza solo entro il “minimo costituzionale” (cfr. Cass. Sez. Un., sent. 7 aprile 2014, n. 8053, Rv. 629830-01, nonchè, “ex multis”, Cass. Sez. 3, ord. 20 novembre 2015, n. 23828, Rv. 637781-01; Cass. Sez. 3, sent. 5 luglio 2017, n. 16502, Rv. 637781-01; Cass. Sez. 1, ord. 30 giugno 2020, n. 13248, Rv. 658088-01).

Lo scrutinio di questa Corte presuppone la ricorrenza di una motivazione “meramente apparente”, configurabile, oltre che nell’ipotesi di “carenza grafica” della stessa, quando essa, “benchè graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perchè recante argomentazioni obbiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento” (Cass. Sez. Un., sent. 3 novembre 2016, n. 22232, Rv. 641526-01, nonchè, più di recente, Cass. Sez. 6-5, ord. 23 maggio 2019, n. 13977, Rv. 654145-01), o perchè affetta da “irriducibile contraddittorietà” (cfr. Cass. Sez. 3, sent. 12 ottobre 2017, n. 23940, Rv. 645828-01; Cass. Sez. 6-3, ord. 25 settembre 2018, n. 22598, Rv. 650880-01), ovvero connotata da “affermazioni inconciliabili” (da ultimo, Cass. Sez. 6-Lav., ord. 25 giugno 2018, n. 16111, Rv. 649628-01), mentre “resta irrilevante il semplice difetto di “sufficienza” della motivazione” (Cass. Sez. 2, ord. 13 agosto 2018, n. 20721, Rv. 650018-01).

6.2.2. Nella specie, la motivazione, sul punto, della sentenza impugnata si colloca ben al di sopra del “minimo costituzionale”.

Rileva, al riguardo, la Corte territoriale che la portata diffamatoria dell’articolo del (OMISSIS) dovesse desumersi anche dal titolo (“Fallimenti? No affari di famiglia”) e dall’occhiello (“I tanti casi di favoritismo nell’inchiesta che ha coinvolto sei giudici”), “oltre che da quanto si legge nel corpo dello stesso”. Lo scritto, globalmente considerato, secondo la sentenza oggi impugnata, “aveva appunto l’intenzione di porre in evidenza quale fosse l’anomalo meccanismo di assegnazione degli incarichi, risultante dalle relazioni degli ispettori ministeriali” dell'(OMISSIS) del (OMISSIS), ossia “la rilevanza esclusiva attribuita a rapporti di parentela, appartenenza al medesimo gruppo o studio professionale”.

Pertanto, secondo la Corte territoriale, “le notizie non veritiere riferite, in ordine all’Avv. P., ossia l’aver ricevuto incarichi dal Presidente della sezione Dott. B., perchè era il “capo” del Dott. T., marito della nipote di B.”, non risultano affatto “neutre rispetto all’offensività della comunicazione” nei riguardi del professionista, visto che “con esse si è appunto comunicato” che “l’affidamento dei fallimenti come “affari di famiglia” riguardava anche i suoi incarichi”. Nè è irrilevante, secondo la sentenza impugnata, sempre nella prospettiva della dimostrazione della natura diffamatoria dell’articolo, la presenza, nelle due relazioni dell’Ispettorato Generale del Ministero della Giustizia, delle locuzioni “si dice” e “a quanto pare” (con riferimento alla qualità del T. di fidanzato, e poi addirittura di marito, della nipote del Presidente B.), visto che l’utilizzazione di tali formule dubitative, “al di là della autorevolezza della fonte” ministeriale, avrebbe “consigliato maggiore approfondimento sulla notizia” da parte del giornalista. In definitiva, secondo la Corte capitolina, “sono proprio i dati non veri” quelli “a far sì che il nominativo dell’Avv. P. rientri nell’elenco dei professionisti beneficiari dei favoritismi e per i quali l’idea della gestione “familiare” della sezione” risultava “suggerita dal titolo della pubblicazione”.

La sentenza impugnata, infine, ha escluso che “quanto contenuto nella relazione ispettiva del (OMISSIS) in ordine all’Avv. P. dimostri la sostanziale veridicità della notizia” pubblicata, quand’anche la stessa non fosse stata arricchita dalle circostanze non vere di cui si è detto. Il documento, infatti, attesta, con riferimento al predetto legale, “il mancato rispetto dei criteri di rotazione e la concentrazione di incarichi provenienti dagli stessi giudici”, ma tale circostanza “non giustificava quanto su di lui riportato nell’articolo in esame, titolato con ricorso a termini che evocano una gestione familistica degli incarichi”, ciò di cui è riprova, del resto, la circostanza che “altri professionisti, sui quali pure si è rivolta l’attenzione degli ispettori per la concentrazione di incarichi”, non risultano menzionati nell’articolo; e ciò a conferma, appunto, del fatto che lo scritto “non intendeva denunciare il mancato rispetto di assegnazione e di adeguata e rotazione degli incarichi”, bensì proprio la gestione “familistica” impressa alla Sezione Fallimentare.

Tale motivazione, dunque, non può ritenersi nè “perplessa”, nè “irriducibilmente contraddittoria”, o “imperscrutabile”, essendosi, oltretutto, adeguata (dichiaratamente) ad un principio affermato a più riprese da questa Corte, ovvero che, per “stabilire se uno scritto giornalistico abbia o meno contenuto diffamatorio non è sufficiente avere riguardo alla verità delle notizie da esso diffuse” (verità qui, peraltro, per molti aspetti mancante), “nè limitarsi alla sola analisi testuale dello scritto, ma è invece necessario considerare tutti gli ulteriori elementi – come ad esempio i titoli, l’occhiello, le fotografie, gli accostamenti, le figure retoriche – che formano il contesto della comunicazione e che possono arricchirla di significati ulteriori, anch’essi lesivi dell’altrui onore o reputazione” (Cass. Sez. 3, sent. 14 ottobre 2008, n. 25157, Rv. 605477-01; nello stesso senso, Cass. Sez. 3, sent. 28 settembre 2011, n. 19806, Rv. 619251-01).

6.2.3. Nè, infine, giova ai ricorrenti il riferimento al principio della “verità putativa”, che la sentenza non avrebbe considerato.

Invero, a tale fine, non può darsi rilievo alla circostanza che la notizia secondo cui il Dott. T. sarebbe stato fidanzato, se non coniuge, della nipote del Presidente B. – notizia la cui falsità presenta carattere centrale nella valutazione della Corte territoriale circa il carattere diffamatorio dell’articolo del (OMISSIS) (e, come si dirà, anche della nota di commento della giornalista alla richiesta di rettifica del successivo (OMISSIS)) – fosse stata tratta dalle relazioni dell’Ispettorato Generale.

I ricorrenti si richiamano al principio, espresso da questa Corte, secondo cui “la lesione dell’onore e della reputazione altrui non si realizza quando la notizia diffusa sia vera per essere contenuta in un documento ufficiale” (è citata Cass. Sez. 3, sent. 24 maggio 2002, n. 7628, Rv. 554692-01).

Nondimeno, ad una più attenta disamina, il citato arresto di legittimità si risolve in una conferma, e non in una smentita, della correttezza del ragionamento svolto dalla Corte territoriale.

Nella motivazione della sentenza di questa Corte citata dai ricorrenti si legge, infatti, che, tra le condizioni per l’operatività della scriminante del diritto di cronaca giornalistica, vi è la cd. “continenza sostanziale”, ovvero “quella per la quale i fatti narrati debbono corrispondere a verità”, sebbene non “di verità assoluta” deve trattarsi, “ma di verità soggettiva, perchè la cronaca di accadimenti ritenuti soggettivamente veri è il riflesso soggettivo del fatto che non sono stati riferiti fatti immaginari”. Ciò detto, resta tuttavia inteso che, ai fini dell’operatività della scriminante “de qua”, è pur sempre necessario, quando “la pubblicazione censurata” si riferisca “ad un provvedimento (…) esistente” (come nel caso che occupa), che “la verità della notizia” venga “valutata con riferimento alla fedeltà della pubblicazione rispetto al contenuto di quel provvedimento” (così Cass. Sez. 3, sent. n. 7628 del 2002, cit.).

Ne consegue che, a fronte di dati – come ben osserva la Corte capitolina – riferiti dalle relazioni ministeriali in forma dubitativa (“si dice” e “a quanto pare”), l’operatore dell’informazione, per poter poi invocare l’applicazione dell’art. 51 c.p. e art. 21 Cost., avrebbe dovuto, in alternativa, regolarsi nei termini di seguito meglio indicati. In particolare, l’articolista o avrebbe dovuto effettuare un controllo della fonte, giacchè l’applicazione dell’esimente del diritto di cronaca implica la verità anche solo “putativa” della notizia, “ma purchè frutto di un serio e diligente lavoro di ricerca” del giornalista (tra le tante, Cass. Sez. 3, sent. 25 agosto 2014, n. 18174, Rv. 633036-01; Cass. Sez. 3, sent. 4 settembre 2012, n. 14822, Rv. 623667-01), oppure – potendo il “dovere di verifica” essere “tanto meno accurato, quanto più autorevole sia la fonte dell’informazione” (così, in motivazione, Cass. Sez. 3, sent. 29 ottobre 2019, n. 27592, Rv. 655572-01) assicurare la “fedeltà della pubblicazione rispetto al contenuto” della fonte, cioè, nello specifico, dare conto dei rapporti “familiari” tra il T. e il B. per come essi emergevano nelle due relazioni ispettive, vale adire nella medesima forma dubitativa da esse utilizzata.

Nessuna delle due condotte, tuttavia, risulta essere stata osservata dall’autrice delle pubblicazioni.

6.3. Anche il terzo motivo del ricorso principale non è fondato.

6.3.1. Tale esito si impone, in primo luogo, per la censura che stigmatizza la scelta della Corte capitolina di non dare rilievo, quale fattore di “attenuazione” dell’entità del risarcimento del danno non patrimoniale riconosciuto al P., alla rettifica della notizia.

Infatti, il giudice di appello ha ritenuto il commento dell’articolista, che accompagnò tale rettifica, esso stesso diffamatorio, sicchè la sentenza oggi impugnata, del tutto correttamente, non ha attribuito rilievo ad essa nella prospettiva, indicata dai ricorrenti, di un ridimensionamento del disvalore della prima pubblicazione.

Non fondata, poi, è anche la censura di violazione dell’art. 120 c.p.c., visto che “in tema di lesione del diritto all’immagine ed alla reputazione, la quantificata entità del corrispondente danno risarcibile non può essere automaticamente ridotta per effetto della pubblicazione della sentenza su un quotidiano, costituendo tale misura, oggetto di un potere discrezionale del giudice, una sanzione autonoma che, grazie alla conoscenza da parte della collettività della reintegrazione del diritto offeso, assolve ad una funzione riparatoria in via preventiva rispetto all’ulteriore propagazione degli effetti dannosi dell’illecito, diversamente dal risarcimento del danno per equivalente che mira al ristoro di un pregiudizio già verificatosi” (Cass. Sez. 1, sent. 21 gennaio 2016, n. 1091, Rv. 638494-01).

Nè, d’altra parte, può dirsi che la Corte territoriale abbia configurato quello “de quo” – come pure denunciano i ricorrenti alla stregua di un danno “in re ipsa”.

Va, infatti, qui ribadito che “il danno all’onore ed alla reputazione, di cui si invoca il risarcimento, non è “in re ipsa”, identificandosi il danno risarcibile non con la lesione dell’interesse tutelato dall’ordinamento ma con le conseguenze di tale lesione, sicchè la sussistenza di siffatto danno non patrimoniale deve essere oggetto di allegazione e prova, anche attraverso presunzioni, assumendo a tal fine rilevanza, quali parametri di riferimento, la diffusione dello scritto, la rilevanza dell’offesa e la posizione sociale della vittima” (Cass. Sez. 3, ord. 26 ottobre 2017, n. 25420, Rv. 646634-04), essendosi anche precisato che, solo una volta soddisfatti dall’interessato tali oneri di allegazione e prova del danno, “la sua liquidazione deve essere compiuta dal giudice sulla base, non di valutazioni astratte ma del concreto pregiudizio presumibilmente patito dalla vittima, per come da questa dedotto e provato” (Cass. Sez. 3, ord. 6 dicembre 2018, n. 31537, Rv. 651944-01).

Nel caso che occupa, la Corte territoriale ha ritenuto che il danno fosse dimostratoinon unicamente dal fatto che il P. sia “un professionista che gode di buone relazioni professionali o sociali”. Invero, la sentenza impugnata ha anche apprezzato, in concreto, le “ripercussioni” delle due pubblicazioni tanto sulla persona dell’odierno ricorrente – ritenendo, in particolare, “documentate” le circostanze della “prescrizione e acquisto di ansiolitici”, a conferma del turbamento d’animo che gli articoli in questione ebbero a provocare nell’interessato – quanto “nell’ambiente di vita familiare, sociale e professionale” dello stesso, ritendo, in particolare, tali ripercussioni “importanti”, come testimoniato dal fatto che la proposta di revoca, L. Fall., ex art. 37, degli incarichi di curatore al medesimo fino ad allora conferiti fosse stata proprio “giustificata con esclusivo richiamo alle notizie di stampa” sul suo conto.

Nè manca, nella sentenza impugnata, la constatazione che, sebbene i due scritti fossero stati pubblicati sulle pagine della cronaca di Roma del quotidiano, la stessa era “comunque idonea a garantire una diffusione capillare, anche in via indiretta, negli ambienti di lavoro e sociali frequentati dal professionista”.

Una motivazione, dunque, più che adeguatamente articolata.

Infine, in ordine al lamentato carattere “sproporzionato” dell’ammontare del risarcimento valgono le medesime considerazioni appena svolte, considerato che “l’esercizio, in concreto, del potere discrezionale conferito al giudice di liquidare il danno in via equitativa non è suscettibile di sindacato in sede di legittimità”, purchè a condizione che “la motivazione della decisione dia adeguatamente conto dell’uso di tale facoltà, indicando il processo logico e valutativo seguito” (da ultimo, Cass. Sez. 3, sent. 13 ottobre 2017, n. 24070, Rv. 645831-01; in senso analogo Cass. Sez. 1, sent. 15 marzo 2016, n. 5090, Rv. 63902901), sicchè, “al fine di evitare che la relativa decisione si presenti come arbitraria e sottratta ad ogni controllo”, occorre che il giudice indichi, ancorchè solo “sommariamente e nell’ambito dell’ampio potere discrezionale che gli è proprio, i criteri seguiti per determinare l’entità del danno e gli elementi su cui ha basato la sua decisione in ordine al “quantum”” (Cass. Sez. 3, sent. 31 gennaio 2018, n. 2327, Rv. 647590-01), senza che egli sia “tenuto a fornire una dimostrazione minuziosa e particolareggiata di un univoco e necessario rapporto di consequenzialità di ciascuno degli elementi esaminati e l’ammontare del danno liquidato, essendo sufficiente che il suo accertamento sia scaturito da un esame della situazione processuale globalmente considerata” (Cass. Sez. 3, sent. 10 novembre 2015, n. 22885, Rv. 637822-01).

D’altra parte, sempre nella medesima prospettiva – che è nuovamente, pure in tale ambito, quella dell’avvenuta riduzione al “minimo costituzionale” dell’onere motivazionale del giudice di merito – deve ribadirsi che la liquidazione equitativa del danno risulta insindacabile in sede di legittimità, salvo che i criteri adottati “siano manifestamente incongrui rispetto al caso concreto, o radicalmente contraddittori, o macroscopicamente contrari a dati di comune esperienza, ovvero l’esito della loro applicazione risulti particolarmente sproporzionato per eccesso o per difetto” (da ultimo, Cass. Sez. 3, ord. 25 maggio 2017, n. 13153, Rv. 644406-01; nello stesso senso già Cass. Sez. 3, sent. 8 novembre 2007, n. 23304, Rv. 600376-01; Cass. Sez. 3, sent. 14 luglio 2004, n. 13066, Rv. 574567).

In conclusione, nel caso che occupa, l’onere di indicare, anche solo “sommariamente”, i criteri di liquidazione, risulta, dunque di sicuro soddisfatto.

6.4. Neppure il quarto motivo del ricorso principale è fondato.

6.4.1. Invero, diversamente da quanto sostenuto dai ricorrenti, la circostanza del tempo trascorso dai fatti non è “ex se” ostativa alla pubblicazione su un quotidiano della sentenza di condanna al risarcimento del danno.

Sul punto, deve farsi applicazione di quanto affermato da questa Corte con riferimento alla sentenza di condanna del giornalista in sede penale per il reato di diffamazione, essendosi ritenuto che detta pronuncia sia “sempre passibile di pubblicazione, a prescindere dal maggiore o minore lasso di tempo trascorso rispetto all’epoca dei fatti, purchè l’offesa alla persona, o, per essa, ai suoi più prossimi eredi, sia suscettibile di riparazione mercè la detta pubblicazione” (Cass. Sez. 3, sent. 20 dicembre 2001, n. 16078, Rv. 551268-01). Affermazioni che si attagliano pienamente al caso che occupa, visto che, essendo rimasta frustata la funzione riparatoria della rettifica (trasformatasi, anzi, in causa di ulteriore pregiudizio alla reputazione del P.), la pubblicazione della sentenza di condanna ha, in certo qual modo, “surrogato” tale strumento.

Più in generale, poi, va ribadito che il potere discrezionale di ordinare la pubblicazione della sentenza “trova un limite solo nella esigenza di razionalità ed adeguatezza della pronuncia e nel divieto di ultrapetizione” (Cass. Sez. 3, sent. 1 marzo 1993, n. 2491, Rv. 481167-01).

6.5. Infine, non è fondato neanche il quinto ed ultimo motivo del ricorso principale.

6.5.1. Sul punto, non sembra inutile muovere dalla constatazione che questa Corte, di recente, tentando una “risistemazione” del tema – invero, assai complesso e non del tutto suscettibile di una “reductio ad unum” – dei rapporti tra diritto all’oblio e libertà di informazione, ha riconosciuto l’indubbio rilievo che presentano, a fini documentaristici (e quindi, in senso lato, “storici”), gli archivi “on line” dei quotidiani.

Difatti, è stato osservato che l’archivio storico di ogni quotidiano, “per non snaturare la sua funzione, deve contenere tutti gli articoli pubblicati su tutte le edizioni, nella loro originaria forma e contenuto, e non può subire “amputazioni” a pena di perdere il carattere di storicità e di completezza che lo caratterizza”, e ciò in quanto il “trattamento dei dati archiviati on line non è caratterizzato da finalità giornalistiche (come accade, invece, al momento della sua pubblicazione o nel caso di una “nuova pubblicazione” nell’ambito di una “nuova iniziativa giornalistica”) ma avviene a fini documentaristici”; fermo, però, restando che diversamente dagli archivi cartacei, “gli archivi on line sono accessibili con facilità”, sicchè “occorre ragionare se giuridicamente può essere ipotizzabile una tutela delle informazioni contenute nel solo archivio cartaceo a differenza dell’archivio on line che, per i mezzi di cui si avvale, presenta una maggiore lesività nel trattamento del dato”, visto che “la rapidità di consultazione dell’archivio on line” può “risultare molto più lesiva di una consultazione cartacea” (così, in motivazione, recependo le osservazioni della Procura Generale presso questa Corte, Cass. Sez. 1, ord. 27 marzo 2020, n. 7559, Rv. 65742401).

Nella medesima prospettiva, la citata sentenza segnala che “la protezione normativa dell’archivio (storico) giornalistico sta cominciando a formare oggetto di attenta considerazione da parte del legislatore: basti pensare a quanto sancito nel Regolamento Europeo sulla Protezione dei Dati (Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016), in cui sono state inserite norme (cfr. art. 9, par. 2, lett. j) finalizzate alla tutela delle attività di archiviazione nel pubblico interesse di ricerca scientifica o storica o a fini statistici”, tanto che il diritto all’oblio “subisce delle limitazioni (art. 17, par. 3, lett. d) nelle ipotesi in cui il trattamento dei dati sia necessario “a fini di archiviazione nel pubblico interesse, di ricerca scientifica o storica o a fini statistici conformemente all’art. 89, par. 1, nella misura in cui il diritto di cui al paragrafo 1 rischi di rendere impossibile o di pregiudicare gravemente il conseguimento degli obiettivi di tale trattamento””. In ogni caso, se l’art. 89, al par. 1, “prende in considerazione garanzie adeguate per i diritti e le libertà dell’interessato mediante l’adozione di misure tecniche ed organizzative che possano garantire il rispetto del principio della minimalizzazione dei dati”, un’intera parte del Regolamento (il titolo VII) è, infine, “dedicata appositamente al trattamento a fini di archiviazione nel pubblico interesse, di ricerca scientifica o storica o a fini statistici con la finalità di garantire la conservazione di quei dati che siano decisivi per la “memoria” della società” (così, nuovamente, Cass. Sez. 1, ord. n. 7559 del 2020, cit.).

Su tali basi, dunque, il citato arresto si è chiesto “se gli archivi storici on line” (o meglio, a quali condizioni) “possiedano una sorta di primato, garantito dalla libertà di stampa e di informazione (art. 21 Cost.), alla conservazione storica di fatti e vicende concernenti eventi del passato”. Orbene, nella ricerca di un necessario “bilanciamento tra i diritti del singolo e quelli della collettività”, si è ritenuta “una soluzione di ragionevole compromesso” quella consistente nell’adozione di “provvedimenti che impongono la deindicizzazione degli articoli sui motori di ricerca generali, la cui conseguenza immediata è che l’articolo e la notizia controversa sono resi disponibili solo dall’attivazione dello specifico motore di ricerca all’interno di un quotidiano”; difatti, tale “semplice limitazione consente all’interessato di vedere estromesso dal dato che lo riguarda azioni di ricerca mosse da ragioni casuali o, peggio, futili”, senza, tuttavia, che l’archivio subisca “amputazioni” della propria integrità, continuando ad assolvere la funzione che gli è propria, ovvero di consentire la conservazione di un dato personale che “mantenga un apprezzabile interesse pubblico alla sua conoscenza”, interesse, beninteso, “da valutarsi e da ritenersi sussistente” – si precisa – “in funzione non solo della perdurante attualità del dato di cronaca, ma anche in presenza del solo assolvimento del valore documentaristico conservativo proprio dell’archivio” (così, ancora una volta, Cass. Sez. 1, ord. n. 7559 del 2020, cit.).

6.5.2. Nondimeno, la sentenza appena illustrata – come, più in generale, le altre intervenute sul tema, enunciando il principio secondo cui “l’editore di un quotidiano, che memorizzi nel proprio archivio storico della rete internet le notizie di cronaca, mettendole così a disposizione di un numero potenzialmente illimitato di persone, è tenuto ad evitare che, attraverso la diffusione di fatti anche remoti, possa essere leso il diritto all’oblio delle persone che vi furono coinvolte” (così, in particolare, Cass. Sez. 3, sent. 5 aprile 2012, n. 5525, Rv. 622169-01; in senso analogo anche Cass. Sez. 1, sent. 24 giugno 2016, n. 13161, Rv. 640218-01) – affrontano casi in cui la pubblicazione della notizia era, “ab origine”, del tutto lecita. Difatti, la controversia giudiziaria aveva investito, in quelle ipotesi, o la perdurante presenza della notizia negli archivi informatici senza che ragioni di interesse pubblico la giustificassero, oppure la sua avvenuta “riproposizione”, originata da evenienze che l’aveva resa nuovamente attuale, su edizioni cartacee, oppure “on line”, di testate giornalistiche.

Sotto questo specifico profilo, dunque, viene in rilevo quanto affermato anche nel recente arresto delle Sezioni Unite in tema di diritto all’oblio (per il resto non utile, invece, ai fini della risoluzione del presente caso, per le ragioni di cui si dirà).

Esso, difatti, chiarisce che quando si parla del diritto all’oblio, “ci si riferisce, in realtà, ad almeno tre differenti situazioni”, ovvero: “quella di chi desidera non vedere nuovamente pubblicate notizie relative a vicende, in passato legittimamente diffuse, quando è trascorso un certo tempo tra la prima e la seconda pubblicazione”; quella, invece, “connessa all’uso di internet ed alla reperibilità delle notizie nella rete, consistente nell’esigenza di collocare la pubblicazione, avvenuta legittimamente molti anni prima, nel contesto attuale”; e quella, infine, trattata nella sentenza della Corte di giustizia dell’Unione Europea 13 maggio 2014, in C-131/12, “nella quale l’interessato fa valere il diritto alla cancellazione dei dati”, o meglio il “diritto a che l’informazione in questione riguardante la sua persona non venga più, allo stato attuale, per il tempo decorso, collegata al suo nome da un elenco di risultati che appare a seguito di una ricerca effettuata a partire dal suo nome” (così, in motivazione, Cass. Sez. Un., sent. 22 luglio 2019, n. 19681, Rv. 654836-01).

In questa prospettiva, dunque, e fermo restando che la testè citata sentenza delle Sezioni Unite non crea vincoli all’odierna decisione (e ciò perchè tale arresto – oltre ad affermare che la fattispecie allora in esame corrispondeva “alla prima delle tre ipotesi suindicate”, rappresentando “un caso classico, cioè un caso connesso col problema della libertà di stampa e la diffusione della notizia a mezzo giornalistico, rimanendo perciò escluso ogni collegamento con i problemi posti dalla moderna tecnologia e dall’uso della rete internet” – precisa di voler circoscrivere “il proprio intervento nomofilattico esclusivamente in tale ambito”; così, in motivazione, Cass. Sez. Un., sent. n. 19681 del 2019, cit.), deve rilevarsi che l’elemento, per così dire, “unificante” tutte le ipotesi in cui viene in rilievo il conflitto tra il diritto della persona all’oblio di notizie che la riguardino ed il contrapposto interesse alla conservazione delle stesse in archivi informatici, è costituito dalla liceità dell’iniziale pubblicazione.

All’opposto, nel presente caso, tale presupposto difetta, essendo stata la notizia ritenuta diffamatoria.

Tale peculiarità, dunque, impone il rigetto del motivo qui in esame.

7. Anche il ricorso incidentale va rigettato.

7.1. Il primo motivo – che contesta l’affermazione della Corte territoriale circa la mancanza di prova della contrazione dei redditi del P., e quindi il rigetto della domanda di risarcimento del danno patrimoniale – non è fondato, e ciò in ciascuna delle tre censure in cui si articola.

7.1.1. In relazione, infatti, alla prima censura, ovvero quella di violazione dell’art. 116 c.p.c., la non fondatezza della stessa deriva dalla constatazione che il certificato rilasciato dalla cancelleria della sezione fallimentare (a prescindere dal suo effettivo valore di prova legale, che si assume essere stato obliterato dalla sentenza impugnata) attestava solo l’avvenuta cessazione, a partire dal (OMISSIS), di incarichi del P. presso la sezione stessa, ma non, di per sè, il fatto dell’avvenuta contrazione dei redditi e, dunque, l’esistenza del danno patrimoniale.

Non fondata, egualmente, è la censura di violazione degli artt. 2727 e 2729 c.p.c., che investe il (supposto) rifiuto della Corte territoriale di operare, sulla base di quello stesso documento, un ragionamento presuntivo, per pervenire al riconoscimento dell’esistenza del danno non patrimoniale.

Invero, non può dubitarsi – su un piano generale – che il rifiuto di trarre una presunzione dalle risultanze istruttorie sia deducibile “come vizio di falsa applicazione delle norme degli artt. 2727 e 2729 c.c., in quanto nella motivazione della sentenza di merito si coglie e, quindi si denuncia, un’argomentazione motivazionale espressa con cui il giudice violando alcuno dei paradigmi dell’art. 2729 c.c., si rifiuta erroneamente di sussumere la vicenda fattuale (assunta proprio come egli l’ha individuata) sotto la norma stessa e, quindi, di applicare una presunzione che doveva applicare”, dovendo il “rifiuto espresso e motivato di individuare una presunzione “hominis”” essere trattato “allo stesso modo dell’applicazione di una presunzione senza rispetto dei paradigmi normativi indicati dall’art. 2729 c.c.”, visto che in “entrambi i casi la denuncia in Cassazione è possibile secondo il verso della c.d. falsa applicazione della norma dell’art. 2729 c.c.” (così, in motivazione, Cass. Sez. 3, ord. 6 luglio 2018, n. 17720, Rv. 649663-01).

Nel caso di specie, però, ciò che risulta mancare – nella sentenza impugnata – è proprio tale rifiuto “espresso e motivato” della Corte territoriale di trarre una “presumptio hominis” dagli elementi a sua disposizione, ciò che impedisce l’accoglimento anche di tale censura.

Infine, quanto alla doglianza che investe la mancata ammissione della CTU, della quale il ricorrente incidentale nega il carattere esplorativo, essendo, a suo dire, solo finalizzata a supportare il giudice “nella valutazione equitativa del danno”, è sufficiente rilevare che proprio la ritenuta (dalla Corte territoriale) assenza di prova del danno rendeva del tutto superfluo dare corso all’incombente.

7.2. Non fondato è pure il secondo motivo di ricorso incidentale.

7.2.1. Esso, per un verso, contesta l’affermazione (che attiene, nuovamente, all’assolvimento dell’onere probatorio relativo al danno patrimoniale) circa l’assenza di “prova dei mancati introiti riferiti agli incarichi passati”, evidenziando il P. di aver prodotto in giudizio, al riguardo, alcuni documenti, non oggetto di specifica contestazione da parte dei convenuti, donde l’ipotizzata violazione dell’art. 115 c.p.c., comma 1.

Sul punto, tuttavia, è sufficiente osservare che “il principio di non contestazione di cui all’art. 115 c.p.c., ha per oggetto fatti storici sottesi a domande ed eccezioni e non può riguardare le conclusioni ricostruttive desumibili dalla valutazione di documenti” (Cass. Sez. 3, sent. 5 marzo 2020, n. 6172, Rv. 657154-01).

L’altra censura, che investe l’argomentazione utilizzata dalla sentenza impugnata (il carattere volontario della cessazione degli incarichi) per escludere l’esistenza del nesso causale tra pubblicazione degli articoli e danno non patrimoniale, risulta, invece, inammissibile. Invero, il suo ipotetico accoglimento non gioverebbe, in nessun caso, al ricorrente incidentale, atteso che resterebbe ferma, ai fini del rigetto della domanda di risarcimento del danno patrimoniale, la diversa “ratio decidendi” della Corte territoriale, relativa alla mancata dimostrazione dell’esistenza del danno stesso.

Trova, dunque, applicazione il principio secondo cui, ove la decisione di merito “si fondi su di una pluralità di ragioni, tra loro distinte e autonome, singolarmente idonee a sorreggerla sul piano logico e giuridico, la ritenuta infondatezza delle censure mosse ad una delle “rationes decidendi” rende inammissibili, per sopravvenuto difetto di interesse, le censure relative alle altre ragioni esplicitamente fatte oggetto di doglianza, in quanto queste ultime non potrebbero comunque condurre, stante l’intervenuta definitività delle altre, alla cassazione della decisione stessa” (da ultimo, Cass. Sez. 5, ord. 11 maggio 2018, n. 11493, Rv. 64802301).

In ogni caso, poi, la pretesa del ricorrente incidentale di contrastare l’affermazione della Corte capitolina circa l’assenza del nesso causale (pretesa che si fonda sulla contestazione che le dimissioni del P. dall’incarico di curatore fallimentare non siano state “libere e volontarie”, essendo, invece, frutto di “violenza”), si fonda su un parallelismo con la materia lavoristica che, sebbene non privo di elementi di suggestione, risulta del tutto ingiustificato.

Difatti, il principio affermato in ambito lavoristico e secondo cui possono assumere rilievo, ai fini ed agli effetti di cui all’art. 1434 c.c., eventuali dimissioni “coartate” del prestatore di lavoro, concerne un rapporto contrattuale che ha nella subordinazione il suo tratto caratteristico. Questa Corte, tuttavia, ha sottolineato che il curatore fallimentare non “ha un rapporto di lavoro subordinato con la p.a., ma è un professionista incaricato di volta in volta delle funzioni di curatore con riferimento ad un dato fallimento”, sicchè, per quanto “la legge parli di una nomina e di un’accettazione, tuttavia non si è in presenza di un contratto (come sostiene autorevole ma minoritaria dottrina classica, che tuttavia ritiene trattarsi di mandato e non di contratto di cui all’art. 2230 c.c.), poichè la dichiarazione di volontà del tribunale e del professionista nominato, non sono qualitativamente eguali, essendo la prima estrinsecazione dell’imperium ed avendo la sostanza di un provvedimento” (così, in motivazione, Cass. Sez. 3, sent. 15 luglio 2005, n. 15030, non massimata sul punto).

7.3. Infine, anche il terzo motivo del ricorso incidentale non è fondato.

7.3.1. La sentenza impugnata si è, infatti, uniformata ad un principio già enunciato da questa Corte.

Essa, da tempo, ha evidenziato, sulla scorta dei lavori preparatori della L. n. 47 del 1948 (che fu approvata, peraltro, dall’Assemblea Costituente), come lo scopo dell’art. 12, sia quello di “rendere più sensibili le conseguenze per l’offensore della diffamazione libellistica”, donde l’espressa qualificazione, in quella stessa sede, data alla “riparazione aggiuntiva al risarcimento del danno come “pena privata””, o più esattamente come una “sanzione civile che consegue al reato di diffamazione a mezzo stampa e che è rafforzativa della sanzione penale”, di talchè “presuppone l’accertamento degli elementi costitutivi di tale reato, che può peraltro essere compiuto anche dal giudice civile” (così, in motivazione, Cass. Sez. 3, sent. 7 novembre 2000, n. 14485, Rv. 541462-01; nel senso della necessità della sussistenza di tutti gli elementi costituitivi del delitto di diffamazione, si veda anche, più di recente, Cass. Sez. 3, sent. 29 luglio 2015, n. 16054, Rv. 636182-01).

Orbene, nella specie, la sentenza impugnata ha chiaramente affermato che la responsabilità per la pubblicazione dei due articoli su un addebito di colpa (esito possibile alla stregua della previsione di cui all’art. 2043 c.c., giacchè “la tutela dell’onore e della reputazione della persona, contenuta nel vigente ordinamento, consente la qualificazione come illecito civile della diffamazione colposa”; così, in motivazione, Cass. Sez. 1, sent. 15 gennaio 2005, n. 729, Rv. 579322-01), facendo carico, come si è detto, alla D.G., di non aver verificato l’attendibilità dell’informazione attinta dalle due relazioni ministeriali. E’ mancato, dunque, “l’accertamento di tutti gli elementi costitutivi” del reato ex art. 595 c.p. (e, segnatamente, dell’elemento del dolo), donde, allora, l’impossibilità di applicare, anche (solo) nei confronti della giornalista, la “sanzione civile” prevista dalla norma suddetta.

Nè ricorre il vizio di omessa pronuncia, dovendo nella specie ravvisarsi un caso di pronuncia implicita.

Difatti, deve escludersi “il vizio di omessa pronuncia, nonostante la mancata decisione su un punto specifico, quando la decisione adottata comporti una statuizione implicita di rigetto sul medesimo” (tra le tante, Cass. Sez. 5, ord. 6 dicembre 2017, n. 29191, Rv. 646290-01). Del resto, il giudice “non è tenuto ad occuparsi espressamente e singolarmente di ogni allegazione, prospettazione ed argomentazione delle parti, risultando necessario e sufficiente, in base all’art. 132 c.p.c., n. 4), che esponga, in maniera concisa, gli elementi in fatto ed in diritto posti a fondamento della sua decisione, e dovendo ritenersi per implicito disattesi tutti gli argomenti, le tesi e i rilievi che, seppure non espressamente esaminati, siano incompatibili con la soluzione adottata e con l'”iter” argomentativo seguito”, di talchè “il vizio di omessa pronuncia”, configurabile allorchè risulti del tutto omesso il provvedimento del giudice indispensabile per la soluzione del caso concreto, “non ricorre nel caso in cui, seppure manchi una specifica argomentazione, la decisione adottata in contrasto con la pretesa fatta valere dalla parte ne comporti il rigetto” (da ultimo, Cass. Sez. 2, ord. 25 giugno 2020, n. 12652, Rv. 658279-01).

8. Quanto alle spese del presente giudizio, le stesse vanno integralmente compensate tra le parti, in ragione della loro reciproca soccombenza.

9. A carico sia dei ricorrenti principali che del ricorrente incidentale sussiste l’obbligo di versare, se dovuto, un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater.

PQM

La Corte rigetta il ricorso principale e quello incidentale, compensando integralmente tra le parti le spese del presente giudizio di legittimità.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, la Corte dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti principale e del ricorrente incidentale, se dovuto, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, all’esito di adunanza camerale della Sezione Terza Civile della Corte di Cassazione, il 2 dicembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 20 aprile 2021

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