Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 10346 del 20/05/2015


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Civile Sent. Sez. 5 Num. 10346 Anno 2015
Presidente: MERONE ANTONIO
Relatore: TERRUSI FRANCESCO

SENTENZA

sul ricorso 15398-2009 proposto da:
CONDOMINIO VIA VAL DI SOLE 22/3/7 MILANO, domiciliato
in ROMA PIAZZA CAVOUR presso la cancelleria della
CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e

difeso

dall’Avvocato ANDREA CORRADO giusta delega a margine;
– ricorrente –

2015
728

contro
COMUNE DI MILANO in persona del Sindaco pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA LUNGOTEVERE MARZIO
3, presso lo studio dell’avvocato RAFFAELE IZZO, che

lo rappresenta e difende unitamente agli avvocati
ANTONELLA FRASCHINI, RUGGERO MERONI, MARIA RITA

Data pubblicazione: 20/05/2015

SURANO

giusta delega in calce;
– controricorrente

avverso la sentenza n. 24/2008 della

COMM.TRIB.REG.

di MILANO, depositata il 13/05/2008;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica

FRANCESCO TERRUSI;

udito per il controricorrente l’Avvocato RESTA che ha
chiesto il rigetto;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. IMMACOLATA ZENO che ha concluso per il
rigetto del ricorso.

udienza del 18/02/2015 dal Consigliere Dott.

g

15398-09

Svolgimento del processo
Il condominio di via Val di Sole di Milano ricorre
per cassazione contro la sentenza con la quale la

Canone di
depurazione delle
acque— rimborso
— allacciamento —
irrilevanza —
decadenza termine

commissione tributaria regionale della Lombardia,
respingendo l’appello del condominio medesimo, ha

un’istanza di rimborso del canone di depurazione delle
acque relativo all’anno 1999. La commissione tributaria ha
motivato la decisione assumendo che il canone era dovuto
indipendentemente dall’istituzione del servizio o
dall’esistenza dell’allacciamento alla fognatura, e
indipendentemente dall’avere l’utente fruito del servizio
detto; e inoltre che il condominio era comunque decaduto
dal diritto al rimborso, per infruttuoso decorso del
termine di due anni previsto dall’art. 21, 2 ° co., del
d.lgs. n. 546 del 1992.
Il ricorrente articola quattro motivi di ricorso in
relazione a ciascuno dei due capi della decisione e
reclama, in subordine, il diritto al rimborso per via
dell’intervenuta declaratoria di illegittimità
costituzionale dell’art. 14 della 1. n. 36 del 1994.
Il comune replica con controricorso e memoria.
Motivi della decisione
I. – Il ricorrente formula censure sia avverso il
capo della sentenza d’appello che ha sancito la debenza
del tributo per l’anno 1999, sia avverso il capo della

confermato il silenzio serbato dal comune di Milano su

sentenza medesima che ha sancito la decadenza del diritto
al rimborso.
Dal primo punto di vista deduce: (a) violazione
dell’art. 112 c.p.c. per non avere il giudice d’appello
esaminato uno degli argomenti ivi sostenuti, e
segnatamente l’argomento secondo il quale la successione

delle leggi nel tempo aveva comportato che la disciplina
applicabile al caso fosse non quella di cui alla versione
originaria dell’art. 14 della 1. n. 36 del 1994, ma quella
di cui agli artt. 16 e 17 della 1. n. 316 del 1974; (b)
falsa ed erronea applicazione dell’art. 15 delle prel.,
per non avere il giudice a quo individuato correttamente
la disciplina rilevante in materia; (c) falsa ed erronea
applicazione dell’art. 14 della 1. n. 36 del 1994, per
avere il giudice a quo erroneamente ritenuto che la norma
rilevante fosse quella in versione originaria; (d) falsa
ed erronea applicazione degli artt. 16 e 17 della 1. n.
319 del 1976, per avere il medesimo giudice erroneamente
omesso di rilevare che la fattispecie andava appunto
decisa in base alle dette norme.
Dal secondo punto di vista deduce: (e) violazione
dell’art. 112 c.p.c. per non avere il giudice d’appello
esaminato uno degli argomenti ivi sostenuti, e in
particolare l’argomento secondo il quale la successione di
leggi nel tempo aveva comportato l’applicabilità alla
fattispecie della disciplina in un primo momento abrogata
e poi richiamata in vigore; (f) falsa ed erronea
applicazione dell’art. 15 delle prel., per non avere il

2

giudice a

quo

individuato correttamente la disciplina

rilevante in materia; (g) falsa ed erronea applicazione
dell’art. 21, 2 ° co., del d.lgs. n. 546 del 1992 per avere
il giudice a quo erroneamente ritenuto applicabile al caso
di specie siffatta norma; (h) falsa ed erronea
applicazione dell’art. 50 del t.u. n. 1175 del 1931, per

avere il giudice omesso di rilevare l’applicabilità,
invece, della norma indicata.
II. – Devono essere prioritariamente esaminate le
censure

6ITIG

volte a sostenere la nullità della sentenza

per violazione dell’art. 112 c.p.c. Trattasi dei motivi
sopra riportati sub (a) ed (e).
I motivi sono inammissibili.
Il ricorso è soggetto,

ratione temporls,

all’art.

366-bis c.p.c. e, secondo un indirizzo interpretativo del
tutto consolidato, alla base dell’art. 366-bis c.p.c. è
rinvenibile la ratio di porre la corte suprema in
condizione di rilevare con precisione e immediatezza la
questione da risolvere. In virtù di simile

ratio

il

quesito di diritto non può consistere in una semplice
domanda di accoglimento del motivo, né in un mero
interpello della corte in ordine alla fondatezza di una
censura così come illustrata. Il quesito deve costituire
la chiave di lettura delle ragioni illustrate nel motivo e
deve porre la corte di cassazione in condizione di
rispondere con l’enunciazione di una regula luris (id est,
di principio di diritto) suscettibile di ricevere
applicazione nel caso concreto e in casi ulteriori

3

rispetto a quello sottoposto. Dovendo dal quesito emergere
l’errore di diritto che si assume compiuto dal giudice nel
caso concreto, i fondamenti del caso medesimo devono
essere nel quesito enunciati, per lo meno nei dati
essenziali.
A fronte di tale complesso di principi, le censure
(a) ed (e) sono invece concluse da quesiti astratti,

sub

praticamente incentrati sull’assunto “che a norma
dell’art. 112 c.p.c. il giudice è tenuto ad esaminare
tutti gli argomenti proposti dalla parte”; il che, oltre
che infondato, in quanto, ai sensi dell’art. 112 c.p.c.,
il giudice è tenuto a pronunciarsi sulle domande della
parte, non necessariamente sui singoli suoi argomenti,
traduce una prospettazione del tutto generica, dalla cui
risposta non sortirebbe alcun effetto in ordine alla
soluzione della controversia.
III. – Vanno poi in ordine logico esaminate le
censure ulteriormente articolate dal ricorrente in
relazione al capo della sentenza di merito che ha ritenuto
la parte decaduta dall’azione di rimborso.
A tal riguardo è possibile evincere l’esistenza di un
unico sostanziale quesito, per quanto frazionato nella
sommatoria di interrogativi redatti a conclusione dei
motivi di cui ai punti (f), (g) e (h). Il giudice del
merito ha ritenuto la parte decaduta dall’azione di
rimborso in base allo specifico regime di cui all’art. 21
del d.lgs. n. 546 del 1992. Mentre il quesito
complessivamente chiede alla corte di affermare: – “che

4

per effetto dell’art. 15 delle preleggi, a seguito
dell’approvazione del d.lgs. 11-5-1999, n. 152, commi 5 e
6 dell’art. 62, nel periodo in esame sono tornate ad avere
applicazione in tema di accertamento e di riscossione (e
dunque anche per quanto riguarda il termine decadenziale
per chiedere il rimborso) le norme proprie dei tributi

comunali, ed in particolare l’art. 50 t.u. 1175/1931, che
stabilivano in tre anni il termine in questione”; – “che
l’art. 21 (..) non trovava applicazione nel caso di
specie”; – “che il caso di specie (..) doveva essere
deciso facendo applicazione dell’art. 50 t.u. 1175-1931”.
Il quesito, considerato giustappunto unitariamente,
nel complesso di frasi tra loro correlate, consente di
cogliere la discrasia che si intende sostenere tra la
criticata ratio decídendi e il principio giuridico che il
ricorrente vorrebbe fosse posto a fondamento di una
decisione diversa.
Dunque è ammissibile.
Tuttavia la tesi sulla quale il quesito si base non
possiede fondamento.
Per dimostrarlo giova dire che è certo vero che fino
all’anno 2000 i canoni di depurazione e fognatura avevano
natura di tributi locali. Ed è altrettanto vero che questa
corte ha già affermato che l’accertamento di tali tributi
doveva avvenire nelle forme e nei termini di cui agli art.
273 e seg. del r.d. 14 settembre 1931 n. 1175, osservando
il termine triennale di decadenza di cui all’art. 290 (v.
per tutte Cass. n. 4881-05). Ma, anche così premettendo,

5

non può sostenersi esistente alcuna simmetria tra il
termine di accertamento e di riscossione del tributo e il
termine di decadenza dell’azione di rimborso. E questo
perché in linea generale non è vero che la previsione di
un termine per l’accertamento abbia a comportare di per sé
la previsione di un corrispondente termine decadenziale

per l’esercizio del diritto al rimborso.
Il ricorrente richiama a sostegno della propria tesi
l’art. 50 del r.d. cit.
Questa norma, nella parte che interessa, disponeva:
“Il contribuente ha diritto al rimborso delle somme
indebitamente pagate, purché ne faccia domanda alla
amministrazione nel termine di 3 anni dalla data del
pagamento e la domanda sia corredata dall’originale
bolletta di pagamento. Trascorso il triennio, l’azione
rimane estinta”.
Sennonché la norma era parte della sezione riferita
esclusivamente alle imposte comunali di consumo, e come
tale (e come le altre della medesima sezione) ha cessato
di avere applicazione con decorrenza l ° gennaio 1973, ai
sensi dell’art. 90, l ° co., n. 15, del d.p.r. -26 ottobre
1972, n. 633. Donde è stata abrogata senza che rilevi, di
contro, la perdurante vigenza dell’art. 290 nel periodo di
cui si controverte.
L’art. 290, infine pure lui abrogato dall’art. 24 del
d.l. 25 giugno 2008 n. 112, con decorrenza dal
centottantesimo giorno successivo alla data di entrata in

6

Il

vigore di questo d.1., non riguardava affatto il rimborso,
ma unicamente il termine per l’accertamento.
Ne consegue che correttamente la commissione
tributaria regionale ha ritenuto soggetta la domanda del
contribuente al termine decadenziale di cui all’art. 21
del d.lgs. n. 546 del 1992. Difetti nella normativa

applicabile durante il periodo di rilevanza tributaria del
canone di depurazione e fognatura non era rinvenibile
l’espressa indicazione di alcun termine entro il quale il
contribuente potesse richiedere il rimborso di somme
versate e non dovute a tale titolo. Discende il rigetto
delle censure dal ricorrente prospettate in ordine al capo
della sentenza d’appello che ha ritenuto la decadenza del
contribuente dalla domanda di rimborso.
IV. – Ciò comporta l’inammissibilità dei motivi
residui – sopra riportati sub (b),

(c) e (d) – afferenti

l’altro capo della decisione involgente l’affermata
inesistenza del diritto al rimborso in sé e per sé
considerato. Invero allo scrutinio di tali motivi – anche
al netto della intervenuta declaratoria di
incostituzionalità dell’art. 14, 1 ° co., della 1. n. 36
del 1994 nella parte previdente la debenza della quota
tariffaria anche nel caso di inesistenza o di inattività
degli impianti centralizzati di depurazione (v. c. cost.
n. 335-08) – il ricorrente non ha interesse. La decisione
di rigetto dell’azione di rimborso resterebbe comunque
infine sorretta dalla concorrente esaminata

ratio,

7

MENTE DA REGISTRAZIONE
AI SENSI DEL D.P.R. 26/4/19S6
N. 131 TAB. ALL. B. – N. 5
htiATER1A TRIBUTARIA
rivelatasi esatta, circa l’avvenuta decadenza della
domanda di restituzione.
V. – Il ricorso è rigettato.
La mancanza di specifici precedenti della corte in
ordine alla questione controversia giustifica la

p.q.m.
La Corte rigetta il ricorso e compensa le spese
processuali.
Deciso in Roma, nella camera di consiglio della
quinta sezione civile, addì 18 febbraio 20 5.
1 P
Il onsigliere stensore
\4A-,W,J
i‘kkAM.k.Le

dente

compensazione delle spese processuali.

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