Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 10341 del 20/04/2021

Cassazione civile sez. III, 20/04/2021, (ud. 06/10/2020, dep. 20/04/2021), n.10341

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente –

Dott. DI FLORIO Antonella – Consigliere –

Dott. RUBINO Lina – rel. Consigliere –

Dott. VINCENTI Enzo – Consigliere –

Dott. ROSSETTI Marco – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 32412/2019 proposto da:

Y.Y.M., elettivamente domiciliato in Sarzana, via 8 Marzo

n. 3, presso lo studio dell’avv. FEDERICO LERA, che lo rappresenta e

difende per procura speciale in atti;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, (OMISSIS);

– intimato –

avverso la sentenza n. 968/2019 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE,

depositata il 19/04/2019;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

06/10/2020 dal Consigliere Dott. LINA RUBINO.

 

Fatto

RILEVATO

che:

Y.Y.M., cittadino del (OMISSIS), ha notificato ricorso articolato in due motivi in data 17 ottobre 2019 avverso la sentenza n. 968 del 2019 della Corte d’appello di Firenze, pubblicata e comunicata in data 19 aprile 2019.

Il Ministero dell’interno ha depositato tardivamente una comunicazione con la quale si è dichiarato disponibile alla partecipazione alla discussione orale.

Il ricorso è stato avviato alla trattazione in adunanza camerale non partecipata.

La domanda del ricorrente, di riconoscimento dello status di rifugiato e in subordine della protezione sussidiaria e della protezione umanitaria, è stata respinta dalla Commissione territoriale, e poi in sede giurisdizionale dal Tribunale e dalla corte d’appello di Firenze.

Questa la sua storia, come esposta nel ricorso: viveva nella parte occidentale del Ghana, al confine della Costa d’Avorio, era costretto a fuggire perchè il padre, a seguito delle pressioni subite ad opera di un ricco potente locale, che aveva anche corrisposto al padre un compenso, voleva che lui si prestasse ad assoggettarsi ai desideri omosessuali di questi, e lo aveva minacciato anche con le armi perchè si sottoponesse alla volontà paterna e alle voglie del signorotto locale. Fuggiva senza neppure tentare di rivolgersi alla polizia per avere protezione, per la differenza di classe tra vittima e carnefice che giocava a tutto vantaggio di quest’ultima e per la corruzione delle forze di polizia ghanesi.

Sia il tribunale che poi la corte d’appello ritenevano la vicenda poco verosimile e comunque sostanzialmente irrilevante perchè esclusivamente afferente alla mera sfera privata.

Il ricorrente, con il primo motivo di censura, deduce la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. b) e c), in combinato disposto con il D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, per non aver la corte di provenienza applicato correttamente la normativa in materia di protezione sussidiaria, in relazione alla situazione del paese di provenienza del ricorrente e alla sua vicenda personale.

In riferimento alle ipotesi di cui del D.Lgs. n. 251 del 2007, lett. a) e b), la sentenza ritiene il racconto poco credibile in riferimento alla minaccia di morte asserita mente ricevuta da parte del padre, e afferma che tutta la storia narrata, della cui veridicità dubita, atterrebbe alla sfera meramente privata perchè il ricorrente non ha neppure subito un’ effettiva aggressione nè ha tentato di rivolgersi alla polizia verificando che questa non lo avrebbe protetto ma al contrario avrebbe potuto perseguirlo per omosessualità. Con il secondo motivo, il ricorrente denuncia la violazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, in relazione alla protezione umanitaria richiesta.

La Corte d’appello di Firenze richiama, nella decisione qui impugnata, Cass. n. 4890 del 2019 e ne ricava, secondo una affermazione ricorrente nelle pronunce provenienti da quella corte territoriale, che l’integrazione non dovrebbe essere ricondotta nell’alveo delle “situazioni di vulnerabilità”, rilevanti ai fini della protezione umanitaria. E ciò perchè la vulnerabilità sarebbe ontologicamente ricollegata alla situazione originaria dello straniero, sussistente al momento del suo arrivo in Italia, mentre l’integrazione è un fenomeno che può intervenire solo dopo l’arrivo e la permanenza in Italia. Il ricorrente segnala come il richiamo effettuato dalla Corte d’appello alla giurisprudenza di legittimità non sia corretto: nella decisione n. 4890 del 2019 invero, il Giudice supremo avrebbe inteso affermare che, comunque, le condizioni per il riconoscimento della protezione umanitaria devono essere attuali nel momento in cui il Giudice compie l’istruttoria: così, l’integrazione in Italia, pur non essendo riconducibile ad una situazione di vulnerabilità dello straniero ab origine, è un parametro con cui la decisione deve confrontarsi. Il primo motivo è fondato e va accolto. Il suo accoglimento comporta l’assorbimento del secondo motivo, atteso che la corte d’appello dovrà rinnovare l’intero giudizio per accertare, dapprima, la sussistenza dei presupposti per il riconoscimento delle protezioni maggiori e, qualora lo escluda, procedere alla verifica della sussistenza dei presupposti per la protezione umanitaria.

La corte d’appello compie un grossolano errore di sottovalutazione, che integra una precisa violazione di legge, laddove, a fronte di una vicenda in cui un soggetto espone di essere stato sottoposto a minacce e a coartazione della sua volontà, per sottoporsi a rapporti omosessuali indesiderati, in un paese in cui l’omosessualità peraltro non è nè tutelata nè tollerata, ma perseguita penalmente, e svaluta il rilievo della vicenda – atteso che la coazione a sottomettersi alle altrui avances sessuali proveniva proprio dal padre del ricorrente – riconducendola ad una banale discussione familiare (“le vicende narrate hanno normali contenuti familiari e domestici”).

La violazione è duplice.

Va premesso che sulla credibilità del ricorrente dovrà essere la corte d’appello a giudicare, nel rispetto della procedimentalizzazione del giudizio di credibilità imposta dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, commi 3 e 5, da compiersi non sulla base della mera mancanza di riscontri obiettivi di quanto narrato dal richiedente, ma secondo la griglia predeterminata di criteri fornita appunto dall’art. 3, comma 5, la necessità di rispettare i quali e di darne conto in motivazione emerge anche dall’interpretazione consolidata della giurisprudenza di legittimità.

Ciò detto, dalla prospettazione del ricorrente emerge l’esposizione del soggetto al rischio, in sè, di essere sottoposto ad abusi sessuali, che rientra nel concetto di pericolo di un danno grave alla persona per possibile sottoposizione ad un trattamento inumano o degradante.

Inoltre, la statuizione impugnata si pone in violazione anche del pur citato del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 2, comma 1, che prevede la tutela del rifugio, tra l’altro, in favore di chi si trovi esposto al rischio di persecuzione in ragione dell’appartenenza ad un determinato gruppo sociale, a ciò potendo essere pacificamente ricondotto, in un paese che persegue l’omosessualità come reato, anche chi sia costretto a subire pratiche omosessuali, che si espone al rischio – aggiuntivo rispetto all’abuso di essere etichettato come omosessuale al di fuori dalla sua volontà e di essere sottoposto al rischio di persecuzione in quanto omosessuale.

La corte d’appello dovrà quindi rinnovare l’accertamento sulla credibilità del soggetto tenendo in conto che, ove la storia narrata fosse verosimile, valutazione da condurre nel rispetto del procedimento probatorio dettato dall’art. 3, commi 3 e 5 del medesimo D.Lgs., la stessa non possa essere derubricata a banale lite familiare attesi i valori in gioco e la rilevanza di essi, sia sotto il profilo della diretta violazione del diritto all’integrità personale e del rispetto della persona, e quindi della sussistenza del rischio di un danno grave per essere esposto a trattamenti inumani o degradanti per tali dovendo intendersi gli abusi sessuali di qualsiasi tipo, sia dell’esposizione al rischio di persecuzione e discriminazione per l’appartenenza anche putativa ad un determinato gruppo sociale (segnatamente gruppo socialmente rilevante i cui membri hanno come caratteristica comune un determinato orientamento sessuale), doppiamente odiosa perchè scaturente da un comportamento sessuale non liberamente e consapevolmente adottato ma imposto e subito. Come ha puntualmente rilevato la pronuncia di Cass., 29 dicembre 2016, n. 27437, “quella derivante dall’orientamento sessuale del richiedente è una ragione di persecuzione idonea a giustificare il riconoscimento dello status di rifugiato”, secondo quanto viene del resto a certificare in modo esplicito e formale il disposto del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 8 comma 1 lett. d), (diretta emanazione del principio di asilo, di cui all’art. 10 del testo costituzionale), “che espressamente contempla anche tale orientamento quale fattore di individuazione di un “particolare gruppo sociale”, che costituisce appunto ragione di persecuzione idonea a giustificare il riconoscimento dello status di rifugiato”; v. in questo senso anche Cass. n. 2458 del 2020.

Il primo motivo va pertanto accolto, con assorbimento del secondo, la sentenza cassata con rinvio alla Corte d’Appello di Firenze che si atterrà ai principi di diritto sopra enunciati e deciderà anche sulle spese del presente giudizio.

P.Q.M.

Accoglie il primo motivo, assorbito il secondo, cassa e rinvia alla Corte d’Appello di Firenze in diversa composizione anche per le spese.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Corte di Cassazione, il 6 ottobre 2020.

Depositato in Cancelleria il 20 aprile 2021

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