Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 1033 del 17/01/2018


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Civile Sent. Sez. L Num. 1033 Anno 2018
Presidente: BRONZINI GIUSEPPE
Relatore: NEGRI DELLA TORRE PAOLO

SENTENZA

sul ricorso 8389-2012 proposto da:
MICCICHE’ ANNA MARIA SILVIA C.F. MCCNMR46D45G273H,
elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE GORIZIA 22,
presso lo studio dell’avvocato CRISTIANO TOSCHI,
rappresentata e difesa dagli avvocati PIERFRANCESCO
CARMINE FASANO, ACHILLE GATTUCCIO, giusta delega in
2017

atti;
– ricorrente –

3478

contro

UNICREDIT S.P.A.
Sicilia S.p.A);

C.F.

00348170101

(già Banco di

Data pubblicazione: 17/01/2018

- intimata –

Nonché da:
UNICREDIT S.P.A.

C.F.

00348170101

(già Banco di

Sicilia S.p.A), in persona del legale rappresentante
pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA,

LIDIA SGOTTO CIABATTINI, rappresentata e difesa
dall’avvocato PAOLO TOSI, giusta delega in atti;
– controricorrente e ricorrente incidentale contro

MICCICHE’ ANNA MARIA SILVIA C.F. MCCNMR46D45G273H;
– intimata –

avverso la sentenza n. 2116/2011 della CORTE D’APPELLO
di PALERMO, depositata il 21/12/2011 R.G.N. 2052/2010;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica
udienza del 19/09/2017 dal Consigliere Dott. PAOLO
NEGRI DELLA TORRE;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. PAOLA MASTROBERARDINO che ha concluso
per il rigetto del ricorso principale, assorbimento
del ricorso incidentale;
udito l’Avvocato PIERFRANCESCO CARMINE BASANO;
udito l’Avvocato LIDIA SGOTTO CIABATTINI per delega
verbale Avvocato PAOLO TOSI.

PIAZZALE CLODIO 32, presso lo studio dell’avvocato

R.G. 8389/2012

Fatti di causa
Con sentenza n. 2116/2011, depositata il 21 dicembre 2011, la Corte di appello di
Palermo, pronunciando sul gravame proposto da Anna Maria Silvia Miccichè nei confronti
di UniCredit S.p.A. (già Banco di Sicilia S.p.A.), confermava la sentenza di primo grado,

risparmio fiscale derivante dalla tassazione dell’incentivazione all’esodo, prevista
dall’Accordo sindacale del 25/2/1998, con aliquota ridotta alla metà, ex art. 17, co. 4 bis,
T.U.I.R., rilevando come i contraenti di tale Accordo avessero definito l’ammontare che il
datore di lavoro avrebbe dovuto versare ai propri dipendenti in una somma di importo
pari a quella cui avrebbero avuto diritto se, alla data dell’esodo, fossero stati in possesso
del requisito contributivo per conseguire la pensione di vecchiaia: e cioè avessero i
contraenti stabilito una determinazione “al netto”, il cui effetto era quello di trasferire il
costo fiscale dell’operazione di incentivazione sul datore di lavoro, che, pertanto, avrebbe
provveduto all’adempimento dell’obbligazione tributaria a proprie spese, con applicazione
del regime previsto dalla legge.
La Corte escludeva inoltre qualsiasi rilevanza in causa della disciplina di cui alla Direttiva
1976/207/CEE e della sentenza della Corte di giustizia dell’Unione Europea 21 luglio 2005
nel procedimento C-207/04.
Ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza la Miccichè, affidandosi a tre motivi,
con richiesta pregiudiziale di rinvio alla Corte di giustizia dell’Unione.
UniCredit S.p.A. ha resistito con controricorso, con cui ha proposto ricorso incidentale
condizionato, affidato ad unico motivo.
La società ha depositato memoria illustrativa.

Ragioni della decisione

Il Collegio ha autorizzato, come da decreto del Primo Presidente in data 14 settembre
2016, la redazione della motivazione in forma semplificata.
Con il primo motivo, deducendo violazione e falsa applicazione dell’art. 17, comma 4 bis,
T.U. delle imposte sui redditi approvato con d.p.r. n. 917/1986, come modificato dall’art.
5 d.lgs. n. 314/1997 e dal d.lgs. n. 344/2003, in relazione all’art. 59 I. n. 449/1997,
richiamato nell’Accordo sindacale del 25 febbraio 1998, come interpretato dalla sentenza
della Corte di giustizia C-207/04 del 21 luglio 2005, la ricorrente censura la sentenza
impugnata nella parte in cui la Corte territoriale ha ritenuto non pertinente alla fattispecie
1

che aveva escluso il diritto della lavoratrice ad ottenere la somma corrispondente al

esaminata la questione relativa all’interpretazione della Direttiva 1976/207/CEE, recante
attuazione del principio della parità di trattamento fra gli uomini e le donne per quanto
riguarda l’accesso al lavoro, alla formazione e alla promozione professionale e le
condizioni di lavoro, e la decisione di cui alla sentenza cit. 21 luglio 2005, in particolare
rilevando che il riconoscimento del diritto all’agevolazione fiscale non può operare – come
illogicamente ritenuto dalla sentenza – solo “in astratto”, senza alcuna ricaduta sul caso
concreto, posto che una “manipolazione” in sede negoziale (della quale, secondo la
sentenza, dovrebbe esclusivamente discutersi) non può avere l’effetto di eliminare tale

subito una discriminazione a favore del proprio datore di lavoro, che aveva trattenuto il
50% dell’aliquota prevista per il t.f.r., ed anche rispetto ai colleghi di sesso maschile, ai
quali il diritto all’agevolazione fiscale era stato riconosciuto mediante rimborso a seguito
di ricorso al giudice tributario e proprio in applicazione della giurisprudenza comunitaria.
Con il medesimo motivo la ricorrente censura inoltre la sentenza di appello per violazione
dell’art. 23 Cost., non avendo la Corte considerato che la riscossione dei tributi, in quanto
manifestazione del potere impositivo dello Stato, deve essere realizzata in modo che non
si verifichino arbitrii da parte degli enti pubblici e dei soggetti operanti come sostituti di
imposta.
Con il secondo motivo, deducendo nuovamente violazione e falsa applicazione dell’art.
17, comma 4 bis, T.U.I.R., nonché vizio di motivazione, la ricorrente censura la sentenza
nella parte in cui la Corte di appello ha rilevato che “con l’accordo del 25/2/1998 il Banco
di Sicilia” si era “impegnato a corrispondere a ciascun esodante una somma, al netto
delle imposte, corrispondente all’importo del trattamento pensionistico netto che sarebbe
spettato al lavoratore aggiungendo figurativamente all’anzianità previdenziale già
maturata quella necessaria per l’accesso al trattamento medesimo”, secondo quanto
emergeva “inequivocabilmente dal tenore letterale della pattuizione, laddove lega la
pari all’importo netto

determinazione dell’emolumento alla misura

della pensione,

esprimendo, quindi, non solo la equivalenza, ma anche la omogeneità (importo netto) al
parametro di riferimento”: in tal modo, peraltro, erroneamente parificando, ad avviso
della ricorrente, il trattamento pensionistico e l’incentivo all’esodo e conseguentemente
rendendo inoperante ed inefficace la normativa agevolata prevista per il solo incentivo
all’esodo.
Con il terzo motivo, deducendo vizio di motivazione, la ricorrente censura la sentenza per
avere fornito una interpretazione opposta (rispetto ad altre pronunce della stessa Corte
territoriale) delle informazioni rese in diverso giudizio dalle organizzazioni sindacali, che
avevano sottoscritto l’Accordo in data 25/2/1998, e per avere erroneamente applicato la
disciplina fiscale in materia di sostituto di imposta.
Il primo e il secondo motivo, che possono essere esaminati congiuntamente, attesa la
loro connessione, sono infondati.
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diritto, in quanto attribuito da una disposizione di legge: la ricorrente avrebbe invece

Le questioni, che con i medesimi vengono poste, risultano infatti già affrontate e risolte
dalle Sezioni Unite nella sentenza n. 17079/2011, pronunciata in fattispecie direttamente
sovrapponibile alla presente, la quale ha affermato che “in tema di incentivi per l’esodo
anticipato dal lavoro, l’accordo collettivo che, mediante la previsione della misura ‘al
netto’ di trattamenti incentivanti la risoluzione anticipata dei rapporti di lavoro (destinati
a sopperire per un certo periodo alla mancanza della normale retribuzione o della
pensione), compensi la diversità di disciplina fiscale correlata all’età del lavoratore al
momento dell’esodo non si pone in contrasto con l’art. 3 Cost. atteso che, nell’ambito dei

di parità di trattamento. Tale pattuizione, inoltre, è ammissibile, trovando giustificazione,
nell’interesse alla funzionalità ed economicità dell’impresa, nell’intento di favorire un più
consistente esodo di lavoratori e, nell’interesse generale dei lavoratori, in quello di
assicurare un trattamento economico adeguato per tutti gli interessati, senza che si
ponga in contraddizione – implicando il suddetto accordo la determinazione

per

relationem dell’ammontare effettivo o lordo della prestazione – con la disciplina sulla
misura degli oneri fiscali a carico dei lavoratori e sulle modalità della loro riscossione
mediante ritenute alla fonte da parte del datore di lavoro” (conf. Cass. n. 9464/2015).
In particolare, esaminando la questione relativa all’interpretazione e applicazione della
disciplina comunitaria, la sentenza richiamata precisa come non possa ritenersi rilevante
la circostanza che la Corte di giustizia dell’Unione Europea, con la sentenza del 21 luglio
2005 nel proc. C-207/04, abbia ritenuto in contrasto con la Direttiva 1976/207/CE,
relativa alla parità tra uomini e donne in materia di accesso e condizioni di lavoro e
operante anche riguardo alle condizioni inerenti al licenziamento, una norma che
consenta, a titolo di incentivo all’esodo, il beneficio della tassazione con aliquota ridotta
delle somme erogate in occasione della interruzione del rapporto di lavoro, con
riferimento ad età diverse per le donne e gli uomini, come nel caso della legislazione
italiana vigente all’epoca dei fatti di causa: deve infatti osservarsi – prosegue la Corte “che dalla sentenza comunitaria, anche tenendo conto della qualificazione della normativa
fiscale in questione come incidente, ai fini della direttiva, sulle condizioni inerenti al
licenziamento, non emerge alcun vincolo per la contrattazione collettiva a non
configurare discipline che valgano a compensare, sul piano privatistico, disparità di
disciplina fiscale correlate all’età dei lavoratori”; ed è poi “palesemente irrilevante anche
l’adombrata ipotesi” – quale formulata anche nel ricorso ora in esame (p. 32) – “che in
linea di fatto qualche lavoratore di sesso maschile di età compresa tra i 50 e i 55 anni
abbia potuto conseguire, sulla base di un giudizio tributario e invocando la richiamata
sentenza comunitaria, la restituzione dall’amministrazione finanziaria di una quota delle
ritenute fiscali piene operate dal datore di lavoro”.
Il secondo motivo di ricorso presenta, d’altra parte, preliminari profili di inammissibilità,
posto che esso, pur sottoponendo a critica la parte della sentenza impugnata in cui la
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rapporti di lavoro di diritto privato, la disciplina contrattuale non è vincolata dal principio

Corte di appello ha fatto oggetto di interpretazione l’Accordo del 25 febbraio 1998, non
contiene alcun riferimento alle regole legali di ermeneutica (art. 1362 e ss.) né trascrive
il testo integrale dell’accordo medesimo, in violazione del principio di autosufficienza del
ricorso (cfr., fra le molte, Cass. n. 4178/2007).
Parimenti inammissibile risulta il terzo motivo.
E’ invero consolidato il principio di diritto per il quale, nel giudizio di legittimità, il
ricorrente che deduca l’erronea valutazione di documenti o altre risultanze probatorie ha

prove trascurate o non correttamente valutate nonché di indicare le ragioni del carattere
decisivo delle stesse (cfr., fra le molte, Cass. n. 15751/2003).
Il motivo in esame risulta altresì inammissibile nella parte in cui censura la sentenza di
appello per avere erroneamente applicato le norme in materia di sostituto di imposta e in
particolare per non aver considerato che qualsiasi emolumento previsto contrattualmente
(nella specie dall’Accordo aziendale del 25/2/1998) entra nel patrimonio del lavoratore al
lordo delle ritenute contributive e fiscali (e solo successivamente viene portato al netto
nella misura spettante), poiché esso muove da una premessa di segno contrario rispetto
alla lettura – non specificamente e adeguatamente censurata, come già notato in
relazione al secondo motivo – data dal giudice di merito all’accordo in questione.
Il ricorso principale deve, pertanto, essere respinto.
Ne consegue l’assorbimento del ricorso incidentale condizionato, con cui la società ha
censurato la sentenza di appello ex art. 360 n. 4 per violazione dell’art. 112 c.p.c. sul
rilievo della omessa pronuncia sul capo di impugnazione incidentale relativo all’eccezione
di decadenza ex art. 2113 c.c.
Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.

p.q.m.

La Corte rigetta il ricorso principale, assorbito il ricorso incidentale condizionato;
condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità,
liquidate in euro 200,00 per esborsi e in euro 5.000,00 per compensi professionali, oltre
rimborso spese generali al 15% e accessori di legge.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del 19 settembre 2017.

Il Consigliere estensore

CORTE SUPREMA DIOASSAZRAIR
N Sezione

Il Presidente

l’onere ex art. 366, comma 1°, n. 6 c.p.c. di specificare, trascrivendole integralmente, le

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