Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 10321 del 26/04/2017


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Cassazione civile, sez. lav., 26/04/2017, (ud. 11/01/2017, dep.26/04/2017),  n. 10321

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Presidente –

Dott. TORRICE Amelia – Consigliere –

Dott. TRIA Lucia – rel. Consigliere –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – Consigliere –

Dott. BOGHETICH Elena – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 3061-2011 proposto da:

D.C.S., C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA,

VIA ELEONORA DUSE 35, presso studio dell’avvocato FILIPPO SARCI’,

rappresentato e difeso dagli avvocati PIERPAOLO ANDREONI, GIOVANNI

DE NOTARIIS, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

COMUNE SAN SALVO, C.F. (OMISSIS), in persona del Sindaco pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA, VIA F. CONFALONIERI 5, presso lo

studio dell’avvocato ANDREA MANZI, rappresentato e difeso

dall’avvocato WALTER PUTATURO, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1321/2010 della CORTE D’APPELLO di L’AQUILA,

depositata il 09/11/2010 r.g.n. 173/2010;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

11/01/2017 dal Consigliere Dott. LUCIA TRIA;

udito l’Avvocato PIERPAOLO ANDREONI;

udito l’Avvocato FEDERICA MANZI per delega WALTER PUTATURO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CELENTANO Carmelo, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

La sentenza attualmente impugnata (depositata il 9 novembre 2010) respinge l’appello di D.C.S. avverso la sentenza n. 88/2009 del Tribunale di Vasto, di rigetto del ricorso proposto dal D.C. al fine di ottenere la dichiarazione di nullità degli atti del Comune di San Salvo di conferimento delle posizioni organizzative e delle relative indennità per l’anno 2005 o, in subordine, l’accertamento dell’illegittimità del mancato riconoscimento del diritto del ricorrente ad espletare le funzioni di responsabile dell’Area economico-finanziaria del Comune con la condanna del Comune stesso al risarcimento del danno cagionato dalla modifica delle mansioni, in particolare per la perdita dell’indennità corrispettiva a posizione organizzativa.

La Corte d’appello dell’Aquila, per quel che qui interessa, precisa che:

a) come riferito dallo stesso appellante, censure identiche a quelle in oggetto sono state proposte in ben quattro precedenti ricorsi, tutti respinti in primo e secondo grado, come risulta per i primi tre dalla sentenza n. 523/2006 e per l’ultimo dalla sentenza n. 1492/2007 della stessa Corte aquilana;

b) nel presente ricorso, così come in tutti i precedenti ricorsi, le censure muovono dall’asserita sussistenza del diritto del ricorrente, già Ragioniere Capo del Comune di San Salvo, ad ottenere le mansioni di responsabile dell’area economico-finanziaria del Comune stesso, prevista dalla nuova pianta organica dell’Ente, realizzata in applicazione del CCNL 31 marzo 1999 per il Comparto Regioni e Autonomie locali;

c) al riguardo devono essere integralmente confermate e richiamate le suindicate sentenze nelle quali, con ampie argomentazioni, è stato chiarito che, in corretta applicazione del suddetto CCNL, nella nuova pianta organica all’appellante erano state conferite mansioni di responsabile di staff, le quali non solo non erano inferiori a quelle precedentemente assegnate, ma neppure ponevano il ricorrente in posizione subordinata rispetto al pari grado F. e inoltre implicavano in ogni caso un trattamento economico comprendente l’indennità di posizione;

d) tale ultima indennità è stata sempre rifiutata dal De.Sa. al pari dello svolgimento delle nuove mansioni e ciò ha anche impedito la progressione orizzontale nell’ambito della categoria D, data la mancanza di una attività lavorativa da valutare, derivante dalla scelta dell’appellante di non svolgere alcuna attività dal 1997 al 2001;

e) la presente decisione va, pertanto, limitata all’esame delle censure che introducono argomenti nuovi, non esaminati nelle precedenti decisioni richiamate;

f) tra questi è, in primo luogo, inammissibile per genericità il motivo di censura relativo alla supposta incompetenza del Sindaco ad adottare gli incarichi di cui si discute, mentre è infondato il motivo di appello con il quale il D.C. attribuisce alla decisione del Consiglio di Stato n. 1419 del 2008 (recte: n. 4519 del 2008) il significato “rivoluzionario” di averlo reintegrato nella posizione apicale posseduta originariamente, quando tale pronuncia si è limitata a riconoscere l’interesse dell’appellante a contestare l’ordine di servizio del 2 giugno 1997, ma limitatamente al periodo anteriore alle delibere del 2001 e per la sola ragione della mancanza del previo parere obbligatorio del Segretario generale.

2. Il ricorso di D.C.S., illustrato da memoria, domanda la cassazione della sentenza per tre motivi; resiste, con controricorso, il Comune di San Salvo.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1- Profili preliminari.

1. Preliminarmente va dichiarata l’infondatezza dell’eccezione di tardività del controricorso, cui il ricorrente fa cenno nella memoria depositata in prossimità dell’udienza, senza peraltro offrirne argomentazioni (v. p. 3 della memoria).

Deve essere comunque precisato che il ricorso è stato notificato il 31 gennaio 2011, pertanto il termine per il relativo deposito è venuto a scadere lunedì 21 febbraio 2011, primo giorno non festivo successivo alla scadenza naturale di domenica 20 febbraio 2011.

In base all’art. 370 c.p.c., comma 1, il controricorso deve essere notificato al ricorrente nel domicilio eletto entro venti giorni dalla scadenza del termine stabilito per il deposito del ricorso.

Nella specie il controricorso è stato avviato alla notifica a mezzo del servizio postale il 2 marzo 2011 e, quindi, tempestivamente.

Infatti, il relativo termine scadeva il 14 marzo 2011, in quanto il giorno della scadenza naturale era sabato 12 marzo 2011 e nella specie è applicabile “ratione temporis” la proroga dei termini processuali che scadono nella giornata di sabato di cui all’art. 155 c.p.c., comma 5, che riguarda sia i procedimenti instaurati successivamente al giorno 1 marzo 2006, sia quelli già pendenti a tale data, in base alla L. 18 giugno 2009, n. 69, art. 18 (per tutte: Cass. 25 giugno 2015, n. 13166; Cass. 19 dicembre 2014 n. 27048).

2 – Sintesi dei motivi di ricorso.

2. Il ricorso è articolato in tre motivi.

2.1. Con il primo motivo si denuncia violazione del principio fondamentale in tema di produzione del diritto di cui agli artt. 1 e 2 preleggi.

Si sostiene che la Corte d’appello avrebbe considerato “vincolante” il proprio precedente, neppure passato in giudicato, rappresentato dalla sentenza n. 523/2006 quando nel nostro ordinamento ai precedenti non viene mai attribuito tale valore, ad eccezione di quanto stabilito dall’art. 384 c.p.c. per il giudizio di rinvio.

2.2. Con il secondo motivo si denuncia violazione dell’art. 132 c.p.c., n. 4, e art. 118, disp. att. c.p.c. “Violazione del principio logico”.

Si assume che sarebbe illegittima la utilizzazione della motivazione “per relationem” contenuta nella sentenza impugnata, in quanto essa sarebbe stata effettuata senza confutare le specifiche censure formulate dal D.C. sia con i motivi di appello sia con i motivi del ricorso per cassazione proposto avverso la richiamata sentenza n. 523/2006 della Corte d’appello dell’Aquila.

2.3. Con il terzo motivo si denunciano: a) motivazione insufficiente e illogica; falso presupposto e travisamento dei fatti; b) omesso esame ed omessa motivazione su punti decisivi; c) violazione e falsa applicazione del’art. 11 del CCNL del 1999 nonchè del D.Lgs. n. 29 del 1993, artt. 19 e 27-bis.

In primo luogo, si ribadisce l’incompetenza del Sindaco a conferire le posizioni organizzative per l’anno 2005 – in particolare, la posizione di responsabile dell’Area Finanziario-Contabile per l’anno 2005 al ragioniere F., attribuita con provvedimento del 30 dicembre 2004 – sull’assunto secondo cui, a seguito dell’introduzione nell’organico dell’Ente della figura del Direttore Generale (avvenuta nel Comune di San Salvo con Delib. 10 gennaio 2002, n. 7), la relativa competenza era passata a quest’ultimo ex art. 9 CCNL del Comparto Enti locali – Parte Generale.

Si aggiunge che non sarebbe stata neppure rispettata la specifica disciplina procedimentalizzata prevista dall’art. 11 del CCNL cit., specialmente per la violazione del criterio della competenza professionale.

A tale ultimo proposito il ricorrente deduce l’esistenza di una azione persecutoria intentata ai suoi danni benchè egli non avesse manifestato alcun contrasto nei confronti del Comune, essendosi limitato ad adire l’autorità giudiziaria per far valere i propri diritti.

Richiama gli artt. 6, 8 e 22 del Regolamento degli uffici e servizi del Comune, approvato con Delib. G.M. 6 febbraio 2001, n. 45 che, a suo dire, avrebbe previsto il conferimento degli incarichi in argomento sulla base di precisi criteri ed esperienze professionali che non sarebbero stati rispettati, nella specie.

Si sostiene poi che la Corte territoriale avrebbe omesso di motivare sul fatto che la nuova Area – creata in applicazione del CCNL del 1999 – denominata Finanziario-Contabile comprendeva attività cui in precedenza era stato preposto il solo ricorrente, operando in maniera lusinghiera, mentre nei confronti del F., erano state emesse valutazioni negative, come era dato evincere da relazioni di Revisori dei conti, relative a più anni successivi alla sua nomina (dal 1999 al 2001).

Da ultimo il ricorrente sostiene che la sentenza del Consiglio di Stato n. 4519 del 2008 avrebbe accertato l’illegittimità del subito spostamento dalle mansioni apicali.

Di qui il conseguente demansionamento e il preteso diritto al risarcimento sia del danno professionale ed economico, da parametrare alle retribuzione e da determinare in circa Euro 124.362, sia del danno morale ed esistenziale da determinare, sulla base della documentazione sanitaria allegata a supporto della relativa domanda, orientativamente in una somma pari ad Euro 50.000 o in altra da stabilire anche in via equitativa.

3 – Esame delle censure.

3. Il ricorso non è da accogliere, per le ragioni di seguito esposte.

4. Deve essere preliminarmente precisato che sulle sentenze della Corte d’appello dell’Aquila n. 523/2006 e n. 1492/200 – richiamate nella sentenza attualmente impugnata e riguardanti la medesima vicenda – questa Corte ha, “medio tempore”, avuto modo di pronunciarsi, rispettivamente con le sentenze 20 gennaio 2011, n. 1226 e 21 marzo 2011, n. 6366, entrambe di rigetto di due ricorsi di Sante D.C. analoghi a quello presente.

La prima di tali sentenze è stata depositata prima della stesura del presente ricorso (recante la data del 28 gennaio 2011). Comunque di entrambe le sentenze il ricorrente fa menzione nella memoria depositata ex art. 378 c.p.c..

A tali precedenti il Collegio intende dare continuità, condividendoli.

5. A ciò consegue l’infondatezza del primo motivo dell’attuale ricorso, nel quale si reitera, con medesime argomentazioni, la censura già formulata nel ricorso esaminato dalla citata sentenza di questa Corte n. 6366 del 2011, secondo cui la Corte territoriale avrebbe attribuito alle proprie precedenti pronunce un efficacia vincolante, assumendo che non sarebbe stato possibile discostarsi dalla interpretazione delle norme e dalla valutazione del materiale probatorio ivi contenuta.

5.1. Come già affermato nella citata sentenza n. 6366 del 2011 – dalla quale non vi è motivo di discostarsi, non essendo offerte ragioni che possano giustificare tale scelta – questa censura muove da un’erronea valutazione della rilevanza attribuita dalla Corte territoriale alle proprie precedenti sentenze richiamate.

Infatti, mentre il ricorrente sostiene che il contestato richiamo sarebbe stato effettuato nella idea di attribuire assoluta vincolatività ai precedenti stessi che sarebbero stati considerati come fonte di diritto, invece dalla lettura della sentenza impugnata risulta con chiarezza che il suddetto richiamo è stato fatto in applicazione delle regole di coerenza logica in base alle quali si deve dare rilievo ai precedenti giudiziali che abbiano affrontato questioni analoghe a quelle “sub judice” e, quindi, a maggior ragione questioni relative alla stessa vicenda lavorativa dell’istante sostanzialmente riproposte in successivi giudizi, come accade nella specie.

Questo costituisce anche corretta applicazione dei principi del giusto processo di cui all’art. 111 Cost., che anche laddove non vengano configurate le ipotesi dell’abuso dello strumento processuale e/o della patente violazione del principio del “ne bis in idem” posto dall’art. 39 c.p.c. – vedi, per tutte: Cass. 3 aprile 2014, n. 7813 e Cass. 11 marzo 2016, n. 4867 – comunque comportano il rispetto, formale e sostanziale, del canone della economia processuale, che è determinante per la concretizzazione del principio del giusto processo di cui all’art. 6 della CEDU, anche sotto il profilo dell’esposizione dello Stato (oltre che delle parti) ad oneri e spese processuali superflui (vedi, per tutte: Cass. 18 febbraio 2015, n. 3244).

5.2. Al riguardo va anzi ricordato che, secondo un condiviso e consolidato orientamento di questa Corte, benchè nel nostro sistema processuale non esista una norma che imponga la regola dello “stare decisis”, essa costituisce tuttavia un valore immanente nell’ordinamento, quanto meno con riferimento ad una interpretazione consolidata del giudice di legittimità, dal quale non è consentito discostarsi senza una valida ragione giustificativa. Pertanto, se in un ricorso per cassazione si contesti la interpretazione data dal giudice di merito ad una disposizione di legge o di un contratto collettivo è necessario che si dia conto degli argomenti già spesi in precedenza rispetto ad identiche censure e in relazione al medesimo iter motivazionale, in più conformi sentenze della stessa Corte di cassazione, pubblicate prima del deposito del ricorso (Cass. 13 maggio 2003, n. 7355; Cass. 15 ottobre 2007, n. 21553).

5.3. Nella specie si riscontra tale ultima carenza, in quanto nel ricorso non si tiene minimamente conto della sentenza di questa Corte n. 1226 del 2011 cit., benchè essa sia stata depositata il 20 gennaio 2011 e quindi prima della stesura del presente ricorso (recante la data del 28 gennaio 2011). Comunque, anche nella memoria depositata ex art. 378 c.p.c. il ricorrente si limita a menzionare le due indicate sentenze di questa Corte, senza però dare conto degli argomenti in essi spesi con un iter motivazionale analogo rispetto a censure riguardanti la medesima vicenda in parte sostanzialmente identiche e in parte analoghe alle attuali.

A ciò va aggiunto che comunque il primo motivo del presente ricorso si rivela complessivamente privo di fondamento, pure laddove viene richiamato il vincolo di osservanza per il giudice del rinvio del principio di diritto sancito in una pronunzia di legittimità, trattandosi di una fattispecie assolutamente non paragonabile con quella che viene qui in considerazione, come del pari rilevato nelle precedenti sentenze richiamate.

6. Anche il secondo motivo non è fondato.

Con tale motivo si contestano le modalità di utilizzazione, da parte della Corte territoriale, dello strumento della motivazione per relationem.

6.1. Al riguardo deve osservarsi in termini generali che il richiamo, rinvio o riferimento ad altre decisioni giurisdizionali può incidere in modo diverso sulla struttura, sul contenuto e sulla stessa validità della decisione che tale richiamo (rinvio o riferimento) effettua.

Nella sentenza attualmente impugnata la Corte territoriale ha fatto riferimento alle due proprie precedenti decisioni cit. ai fini di economia processuale senza che ciò abbia reso impossibile o difficoltoso il controllo della sua motivazione, così rispettando gli indirizzi consolidati e condivisi di questa Corte, secondo cui:

a) è legittima la motivazione “per relationem” della sentenza pronunciata in sede di gravame, purchè il giudice d’appello, facendo proprie le argomentazioni del primo giudice, esprima, sia pure in modo sintetico, le ragioni della conferma della pronuncia in relazione ai motivi di impugnazione proposti, in modo che il percorso argomentativo desumibile attraverso la parte motiva delle due sentenze risulti appagante e corretto. Deve viceversa essere cassata la sentenza d’appello allorquando la laconicità della motivazione adottata, formulata in termini di mera adesione, non consenta in alcun modo di ritenere che all’affermazione di condivisione del giudizio di primo grado il giudice di appello sia pervenuto attraverso l’esame e la valutazione di infondatezza dei motivi di gravame (Cass. 11 giugno 2008, n. 15483; Cass. 20 maggio 2011, n. 11138; Cass. 12 agosto 2010, n. 18625);

b) in particolare, la motivazione della sentenza per relationem è ammissibile, atteso che l’art. 118 disp. att. c.p.c., nel testo novellato dalla L. n. 69 del 2009, consente di rendere i motivi della decisione attraverso una succinta esposizione dei fatti rilevanti della causa e delle ragioni giuridiche della decisione, anche con riferimento ai precedenti conformi; in particolare, è consentita la motivazione della sentenza mediante rinvio ad un precedente del medesimo ufficio, sempre che, al fine di rendere comunque possibile ed agevole il controllo della motivazione, si dia conto dell’identità contenutistica della situazione di fatto e di diritto tra il caso deciso dal precedente e quello oggetto di decisione (Cass. 22 maggio 2012, n. 8053; Cass. 11 febbraio 2011, n. 3367);

c) nei suddetti termini la motivazione per relationem, non solo è legittima, ma risponde alle indicazioni del legislatore di motivare le sentenze con una “concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione” (art. 132 c.p.c., n. 4), mediante la “succinta esposizione dei fatti rilevanti della causa e delle ragioni giuridiche della decisione, anche con riferimento a precedenti conformi” (così l’art. 118 disp. att. c.p.c.), visto che, con queste norme, il legislatore chiede al giudice la sintesi, tanto attraverso il tratto conciso (art. 132 c.p.c.) e succinto (art. 118 disp. att. c.p.c.) della motivazione, che attraverso la tecnica del richiamo di eventuali provvedimenti conformi (art. 118 cit.), dello stesso ufficio o di altri giudici (Cass. 2 agosto 2012, n. 13886).

6.2. L’infondatezza delle censure risulta con evidenza dal fatto che la Corte aquilana non si è limitata a richiamare argomenti e giudizi espressi nelle precedenti controversie ma ha spiegato, in modo chiaro ed esauriente, le ragioni della condivisione delle richiamate pronunce ed ha altresì specificato che tale richiamo è stato dovuto al fatto che le censure ivi esaminate, al pari della maggior parte di quelle da esaminare, muovevano dal medesimo presupposto rappresentato dall’asserita sussistenza del diritto del ricorrente, già Ragioniere Capo del Comune di San Salvo, ad ottenere le mansioni di responsabile dell’area economico-finanziaria del Comune stesso, prevista dalla nuova pianta organica comunale, realizzata in applicazione del CCNL 31 marzo 1999 per il Comparto Regioni e Autonomie locali.

Pertanto, la Corte ha ben illustrato come sussistessero ragioni insuperabili, puntualmente esplicate, inidonee a determinare sul punto una decisione in senso difforme rispetto ai precedenti.

La Corte d’appello ha peraltro soggiunto di avvalersi – in modo ragionato, come si è detto – del suddetto richiamo soltanto in relazione ai motivi di impugnazione relativi alle questioni già esaminate nelle precedenti sentenze, esaminando partitamente e con ampie argomentazioni le censure considerate nuove.

7. Il terzo motivo è inammissibile, per plurime concorrenti ragioni.

7.1. In primo luogo va precisato che, nonostante il formale richiamo alla violazione di norme di legge e di CCNL, contenuto nell’ultima parte dell’intestazione del motivo, tutte le censure si risolvono nella denuncia di vizi di motivazione della sentenza impugnata per errata valutazione del materiale probatorio acquisito, ai fini della ricostruzione dei fatti e quindi finiscono con l’esprimere un mero, quanto inammissibile, dissenso rispetto alle motivate valutazioni di merito delle risultanze probatorie di causa effettuate dalla Corte d’appello, anzichè sotto il profilo della scorrettezza giuridica e della incoerenza logica delle argomentazioni svolte dal Giudice del merito, unici vizi denunciabili in questa sede in base all’art. 360 c.p.c., n. 5, nel testo applicabile nella specie, “ratione temporis”, antecedente la sostituzione ad opera del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54 convertito, con modificazioni, dalla L. 7 agosto 2012, n. 134.

Al riguardo va ricordato che, in base alla suindicata disposizione, la deduzione con il ricorso per cassazione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata non conferisce al Giudice di legittimità il potere di riesaminare il merito della vicenda processuale, bensì la sola facoltà di controllo della correttezza giuridica e della coerenza logica delle argomentazioni svolte dal Giudice del merito, non essendo consentito alla Corte di cassazione di procedere ad una autonoma valutazione delle risultanze probatorie, sicchè le censure concernenti il vizio di motivazione non possono risolversi nel sollecitare una lettura delle risultanze processuali diversa da quella accolta dal Giudice del merito (vedi, tra le tante: Cass. 20 gennaio 2015, n. 855; Cass. 18 ottobre 2011, n. 21486; Cass. 20 aprile 2011, n. 9043; Cass. 13 gennaio 2011, n. 313; Cass. 3 gennaio 2011, n. 37; Cass. 3 ottobre 2007, n. 20731; Cass. 21 agosto 2006, n. 18214; Cass. 16 febbraio 2006, n. 3436; Cass. 27 aprile 2005, n. 8718).

Infatti, la prospettazione da parte del ricorrente di un coordinamento dei dati acquisiti al processo asseritamente migliore o più appagante rispetto a quello adottato nella sentenza impugnata, riguarda aspetti del giudizio interni all’ambito di discrezionalità di valutazione degli elementi di prova e dell’apprezzamento dei fatti che è proprio del giudice del merito, in base al principio del libero convincimento del giudice, sicchè la violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. – apprezzabile ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nella anzidetta versione, nei limiti del vizio di motivazione come ivi configurato – deve emergere direttamente dalla lettura della sentenza, non già dal riesame degli atti di causa, inammissibile in sede di legittimità (Cass. 26 marzo 2010, n. 7394; Cass. 6 marzo 2008, n. 6064; Cass. 20 giugno 2006, n. 14267; Cass. 12 febbraio 2004, n. 2707; Cass. 13 luglio 2004, n. 12912; Cass. 20 dicembre 2007, n. 26965; Cass. 18 settembre 2009, n. 20112).

7.2. Nella specie le valutazioni delle risultanze probatorie operate dal Giudice di appello appaiono congruamente motivate e l’iter logico-argomentativo che sorregge la decisione, con riguardo alla esclusione del demansionamento risulta chiaramente individuabile, non presentando alcun profilo di manifesta illogicità o insanabile contraddizione, sicchè la sentenza non merita alcuna delle censure formulate dal ricorrente.

La Corte territoriale, infatti, con una motivazione congrua e priva di salti logici basata su una corretta applicazione della normativa di settore, ha puntualmente precisato che il D.C. non ha subito alcun demansionamento per effetto della riorganizzazione dei diversi settori dell’amministrazione del Comune di San Salvo, deliberata per dare attuazione al CCNL del 1999 citato.

7.2. A ciò può aggiungersi che le censure stesse risultano anche prospettate senza il dovuto rispetto del principio di specificità dei motivi di ricorso per cassazione, in base al quale il ricorrente qualora proponga delle censure attinenti all’esame o alla valutazione di documenti o atti processuali è tenuto ad assolvere il duplice onere di cui all’art. 366 c.p.c., n. 6 e all’art. 369 c.p.c., n. 4, (vedi, per tutte: Cass. SU 11 aprile 2012, n. 5698; Cass. SU 3 novembre 2011, n. 22726).

In particolare, è “jus receptum” che, in base al suindicato principio – che va inteso alla luce del canone generale “della strumentalità delle forme processuali” – il ricorrente che denunci il difetto o l’erroneità nella valutazione di un documento o di risultanze probatorie o processuali, ha l’onere di indicare nel ricorso specificamente le circostanze oggetto della prova o il contenuto del documento trascurato od erroneamente interpretato dal giudice di merito (trascrivendone il contenuto essenziale), fornendo al contempo alla Corte elementi sicuri per consentirne l’individuazione e il reperimento negli atti processuali, potendosi così ritenere assolto il duplice onere, rispettivamente previsto dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, (a pena di inammissibilità) e dall’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4 (a pena di improcedibilità del ricorso), nel rispetto del relativo scopo, che è quello di porre il Giudice di legittimità in condizione di verificare la sussistenza del vizio denunciato senza compiere generali verifiche degli atti e soprattutto sulla base di un ricorso che sia chiaro e sintetico (vedi, per tutte: Cass. SU 11 aprile 2012, n. 5698; Cass. SU 3 novembre 2011, n. 22726; Cass. 14 settembre 2012, n. 15477; Cass. 8 aprile 2013, n. 8569).

7.3. Nella specie la violazione del suddetto principio è riscontrabile specialmente con riguardo al richiamato Regolamento comunale ed alla delibera con la quale è stato approvato.

Infatti, per “diritto vivente” laddove con il ricorso per cassazione si sollevino censure che comportino l’esame di delibere comunali, provvedimenti dei Sindaci e regolamenti comunali, è necessario – in conformità con il suddetto principio di specificità dei motivi del ricorso stesso che il testo di tali atti sia trascritto nel ricorso, almeno per le parti che rilevano ai fini delle censure proposte e che siano, inoltre, dedotti i criteri di ermeneutica asseritamente violati, con l’indicazione delle modalità attraverso le quali il giudice di merito se ne sia discostato, non potendo la relativa censura limitarsi ad una mera prospettazione di un risultato interpretativo diverso da quello accolto nella sentenza (vedi, per tutte: Cass. 23 gennaio 2014, n. 1391; Cass. 27 gennaio 2009, n. 1893 e Cass. 29 agosto 2006, n. 18661).

Lo stesso vale per tutti gli altri atti, documenti e prove, di cui il ricorrente contesta inammissibilmente la valutazione effettuata dalla Corte territoriale senza riportarne neppure i contenuti e ciò in palese violazione del suddetto principio.

7.4. Tale regime si applica anche ad un eventuale giudicato esterno dedotto nel giudizio di cassazione, nel senso che il giudicato esterno è rilevabile in tale giudizio alla duplice condizione che: a) il giudicato risulti dagli atti comunque prodotti nel giudizio di merito; b) la parte che deduca il suddetto giudicato indichi il momento e le circostanze processuali in cui i predetti atti siano stati prodotti e trascriva nel ricorso o nel controricorso la parte della sentenza passata in giudicato che ritiene rilevante.

Ciò in quanto la suindicata rilevabilità deve essere effettuata nel rispetto dell’onere di completezza e autosufficienza del ricorso (e del controricorso) per cassazione (vedi, per tutti: Cass. SU 27 gennaio 2004, n. 1416).

Di conseguenza è irrituale – e porta all’inammissibilità della censura – la trascrizione della parte del giudicato che viene in considerazione che sia effettuata per la prima volta nella memoria depositata ex art. 378 c.p.c., avendo tale memoria una funzione meramente illustrativa delle censure già ritualmente proposte negli atti difensivi (Cass. 11 febbraio 2015, n. 2617; Cass. 7 agosto 2015, n. 16569; Cass. 18 dicembre 2013 n. 28247; Cass. 26 giugn 2006, n. 14710; Cass. 4 novembre 2005, n. 21379; Cass. 26 aprile 2005, n. 8662; Cass. 10 ottobre 2000, n. 13483).

7.5. Nella specie tale ultima evenienza si è verificata con riguardo alla pronuncia del Consiglio di Stato 19 settembre 2008, n. 4519, perchè il D.C. ha contestato – anche nel corso della discussione orale in udienza – l’interpretazione offerta dalla Corte d’appello a tale decisione, ma soltanto nella memoria ex art. 378 c.p.c. ha provveduto per la prima volta a trascrivere il contenuto essenziale di tale sentenza, così violando il principio di specificità dei motivi di ricorso per cassazione, di cui si è detto.

4 – Conclusioni.

8. In sintesi la sentenza impugnata si sottrae a tutte le censure che le sono state mosse. Pertanto il ricorso deve essere rigettato. Le spese del presente giudizio di cassazione liquidate nella misura indicata in dispositivo – seguono la soccombenza.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di cassazione, liquidate in Euro 200,00 (duecento/00) per esborsi ed Euro 5000,00 (cinquemila/00) per compensi professionali, oltre spese generali nella misura del 15% e accessori come per legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione lavoro, il 11 gennaio 2017.

Depositato in Cancelleria il 26 aprile 2017

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