Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 10297 del 29/04/2010

Cassazione civile sez. I, 29/04/2010, (ud. 03/03/2010, dep. 29/04/2010), n.10297

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PROTO Vincenzo – Presidente –

Dott. PICCININNI Carlo – Consigliere –

Dott. ZANICHELLI Vittorio – rel. Consigliere –

Dott. DOGLIOTTI Massimo – Consigliere –

Dott. DIDONE Antonio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

ORCHIDEA 2 s.r.l., fallita, in persona del curatore pro tempore, con

domicilio eletto in Roma, via Bissolati n. 76, presso l’Avv. Parvis

Carlo che la rappresenta e difende come da procura in calce al

ricorso;

– ricorrente –

contro

B.M. e D.B.M.R., con domicilio eletto in

Roma, via Marziale n. 36, presso l’Avv. Trovato Concetta M. Rita che

li rappresenta e difende unitamente all’Avv. Omelia Soncin, come da

procura a margine del controricorso;

– controricorrenti –

per la cassazione della sentenza della Corte d’appello di Torino n.

774/04 depositata il 12 maggio 2004.

Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

giorno 3 marzo 2010 dal Consigliere relatore Dott. Vittorio

Zanichelli;

sentite le richieste del P.M., in persona dei Sostituto Procuratore

Generale Dott. APICE Umberto che ha concluso per il rigetto del

ricorso;

uditi gli Avv.ti Vari, per delega, e Trovato.

 

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Il curatore del fallimento della Orchidea 2 s.r.l., dichiarato con sentenza del 14 gennaio 1997, ha citato avanti al Tribunale di Torino i signori B.M. e D.B.M.R. al fine di sentirli condannare al pagamento di L. 67.600.000 (Euro 34.912,49) quale credito risultante da fatture emesse dalla fallita a fronte del quale i convenuti avevano in precedenza esibito copia delle fatture stesse con timbro “pagato” e firma non appartenente al legale rappresentante della società.

li Tribunale di Torino ha accolto la domanda ritenendo, da un lato, che la quietanza, stante la posizione di terzietà del curatore fallimentare, assumeva valore probatorio liberamente apprezzabile dal giudice e che nella fattispecie la stessa non appariva sufficiente ad assolvere all’onere probatorio a fronte della ritenuta inverosimiglianza del dedotto pagamento in contanti e che, per altro verso, l’eventuale intervenuto pagamento a mani di tale C. E., che pacificamente non era il legale rappresentante della società ma che si sarebbe comportato come tale, non era giustificata dal dedotto incolpevole affidamento sia perchè la reale situazione avrebbe potuto essere accertata tramite una visura camerale sia perchè gli elementi portati a sostegno del richiamato stato soggettivo (sentenza di condanna del C. per bancarotta quale amministratore di fatto della fallita; preliminare di vendita a terzi sottoscritto dal predetto per Orchidea 2; assegni tratti nella stessa veste in favore di terzi) non attenevano direttamente a rapporti con i convenuti.

Sull’impugnazione dei soccombenti la Corte d’appello ha riformato integralmente la sentenza di primo grado e rigettato la domanda del fallimento ritenendo che dagli elementi in atti emergesse con evidenza che il C. si era comportato come amministratore di fatto della società ingenerando nei terzi, anche per la colpevole inerzia degli amministratori di diritto, la convinzione che, pur non rivestendo la veste di amministratore legale, potesse ugualmente incassare per conto della società e che pertanto le quietanze dovessero essere ritenute opponibili validamente alla medesima e quindi a fallimento subentrato nel rapporto di credito.

Per la cassazione della sentenza propone ricorso la curatela fallimentare affidandosi a cinque motivi con i quali contesta sia la rilevanza della qualificazione come amministratore di fatto di chi avrebbe ricevuto il pagamento e comunque l’esistenza di elementi idonei ad ingenerare tale convincimento in capo ai debitori (i primi due motivi) sia la ritenuta opponibilità al fallimento delle quietanze rilasciate dal fallito o da coloro i cui atti fossero a questi riferibili (gli ulteriori tre motivi).

Entrambe le parti hanno depositato memorie illustrative.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo di ricorso si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 1189 c.c. per avere la Corte d’appello ritenuto che la situazione di apparenza costituita dalla condotta di amministratore di fatto della società Orchidea 2 del C. fosse idonea a giustificare nei debitori il convincimento che il medesimo fosse autorizzato ad incassare somme per conto della società benchè tale affidamento non potesse considerarsi incolpevole dal momento che, essendo la creditrice una società di capitali, era agevole controllare i dati sull’identità e sui poteri degli amministratori in quanto soggetti a pubblicità legale.

Il motivo non è fondato E’ ben vero che, come ricorda la ricorrente, è già stato ritenuto dalla Corte che il principio dell’apparenza del diritto e dell’affidamento non è invocabile nei casi in cui la legge prescrive speciali mezzi di pubblicità mediante i quali sia possibile controllare con l’ordinaria diligenza la consistenza effettiva dell’altrui potere, come accade in ipotesi di organi di società di capitali regolarmente costituiti, posto che l’omissione del controllo esclude la carenza di colpa nell’affidamento sulla situazione apparente (Cassazione civile, sez. 3, 19 gennaio 2004, n. 703), ma deve precisarsi che tale principio è invocabile laddove venga in discussione la posizione complessiva dell’apparente amministratore o specifici poteri allo stesso esclusivamente riservati. Diverso è il caso in cui, indipendentemente dalla titolarità del potere di rappresentanza dell’ente, il potere sulla cui esistenza si assume di aver fatto incolpevolmente affidamento possa sussistere prescindendo dalla sua regolamentazione statutaria e possa essere conferito per determinati atti e senza particolari formalità; in tal caso il principio dell’affidamento può essere invocato anche se il potere in discussione (nella specie quello di ricevere un pagamento con effetti liberatori per il debitore) deve essere riferito ad una società di capitali essendo stato ritenuto, in generale, che “L’art. 1189 c.c., che riconosce efficacia liberatoria al pagamento effettuato dai debitore in buona fede a chi appare legittimato a riceverlo, si applica, per identità di ratio, sia all’ipotesi di pagamento effettuato al creditore apparente, sia all’ipotesi in cui venga effettuato a persona che appaia autorizzata a riceverlo per conto del creditore effettivo, ove quest’ultimo abbia determinato o concorso a determinare l’errore del solvens” (Cassazione civile, sez. 3, 9 agosto 2007, n. 17484) e che “Il pagamento fatto al rappresentante apparente, al pari di quello fatto al creditore apparente, libera (…) il debitore di buona fede, ai sensi dell’art. 1189 c.c., ma a condizione che il debitore, che invoca il principio dell’apparenza giuridica, fornisca la prova non solo di avere confidato senza sua colpa nella situazione apparente, ma anche che il suo erroneo convincimento è stato determinato da un comportamento colposo del creditore, che abbia fatto sorgere nel “solvens” in buona fede una ragionevole presunzione sulla rispondenza alla realtà dei poteri rappresentativi dell'”accipiens” (Cassazione civile, sez. 3, 3 settembre 2005, n. 17742; conforme Cassazione civile , sez. 2, 25 febbraio 2002, n. 2732). Tali principi sono stati applicati dalla Corte d’appello che ha evidenziato da un lato la costante attività di amministratore di fatto del C. e dell’altro la inerzia gravemente colpevole dei legali rappresentanti della società che avevano consentito per lungo tempo una tale condotta.

Con il secondo motivo si deduce carenza di motivazione in ordine alla rilevanza delle circostanze che avrebbero indotto i debitori a confidare nella legittimazione del C. alla riscossione del denaro per conto della s.r.l. Orchidea 2.

Il motivo è infondato in quanto la Corte ha dato conto, sia pure sinteticamente, delle ragioni per le quali ha ritenuto provato l’incolpevole affidamento evidenziando non solo l’utilizzo da parte del C. del timbro della società per la sottoscrizione dei contratti di vendita di immobili pur recanti nell’intestazione il nome dell’effettivo legale rappresentante ma anche del suo costante coinvolgimento nelle vicende societarie, tanto da essere condannato per reati alle stesse connessi, e ha richiamato la documentazione allegata da entrambe le parti che, come risulta dallo stesso ricorso, è costituita da un compromesso sottoscritto per conto della Orchidea 2 e da assegni emessi nella stessa veste: come è evidente si tratta di elementi che non illogicamente o incongruamente possono essere posti a base del convincimento enunciato e ciò è sufficiente ad escludere la censurabilità della motivazione in questa sede.

Con il quarto motivo, che per ragioni di priorità logica deve essere ora esaminato, si deduce la violazione del giudicato interno che sarebbe costituito dalla pronuncia del tribunale in ordine all’inopponibilità delle quietanze al fallimento. Il motivo è inammissibile in quanto generico e quindi, in definitiva, non autosufficiente dal momento che la tesi nello stesso contenuta secondo la quale non sarebbe stata oggetto di specifica contestazione l’affermazione del tribunale secondo la quale le quietanze non costituivano confessione stragiudiziale opponibile al fallimento non è supportata da un testuale riferimento ai motivi di appello, così che la Corte non è posta in grado di valutare già in base all’esame del ricorso la fondatezza del rilievo.

Con il terzo motivo si deduce violazione dell’art. 2735 c.c. e art. 43, L. Fall., censurandosi l’affermazione della Corte d’appello secondo cui, una volta accertato che colui che aveva sottoscritto le quietanze poteva essere considerato creditore apparente le stesse erano da ritenersi opponibili validamente alla società e quindi automaticamente al fallimento subentrato nel rapporto di credito sottostante.

La censura è fondata. Secondo l’iter argomentativo del giudice del merito la circostanza che colui che aveva sottoscritto le quietanze relative alle fatture il cui importo era preteso dal fallimento poteva essere considerato creditore apparente e quindi, deve ritenersi, di conseguenza giustificato l’affidamento dei debitori nel suo potere di ricevere il pagamento di quanto dovuto alla società creditrice comporta che, essendo tale pagamento “opponibile” alla società, deve considerarsi tale anche nei confronti della curatela fallimentare, succeduta nel rapporto.

Poichè nessun altro elemento che comprovi l’avvenuto pagamento e stato dedotto in causa deve presumersi che la Corte d’appello abbia ritenuto provata la circostanza sulla sola base delle quietanze versate in atti in quanto costituenti confessione stragiudiziale dell’avvenuto pagamento dell’obbligazione, come tale revocabile solo per errore o violenza, ai sensi dell’art. 2732 c.c. (giurisprudenza costante; ex multis Cassazione civile, sez. 2, 31 ottobre 2008, n. 26325), con la conseguenza che lo stesso valore di confessione stragiudiziale che aveva nei confronti della società manterrebbe anche nei confronti del fallimento che alla prima era succeduto nella stessa posizione sostanziale e processuale.

L’assunto è tuttavia non corretto dal momento che è principio acquisito quello secondo cui “La quietanza, rilasciata dal creditore al debitore all’atto del pagamento, ha natura di confessione stragiudiziale su questo fatto estintivo dell’obbligazione secondo la previsione dell’art. 2735 c.c., e, come tale, solleva il debitore dal relativo onere probatorio, vincolando il giudice circa la verità del fatto stesso, se e nei limiti in cui sia fatta valere nella controversia in cui siano parti, anche in senso processuale, gli stessi soggetti rispettivamente autore e destinatario di quella dichiarazione di scienza. Pertanto, nel giudizio promosso dal curatore del fallimento (…) del creditore per ottenere l’adempimento dell’obbligatone, deve negarsi che il debitore possa opporre la suddetta quietanza, quale confessione stragiudiziale del pagamento, atteso che il curatore, pur ponendosi, nell’esercizio di un diritto del fallito, nella stessa posizione di quest’ultimo, è una parte processuale diversa dal fallito medesimo. Da tanto consegue che, nel predetto giudizio, l’indicata quietanza è priva d’effetti vincolanti ed assume soltanto il valore di un documento probatorio dell’avvenuto pagamento, apprezzabile dai giudice al pari di qualsiasi altra prova desumibile dal processo” (Cassazione civile, sez. 1, 1 marzo 2005, n. 4288; nello stesso senso Sez. 2, 16 settembre 2002, n. 13513, e Sez. 1, 8 marzo 2000, n. 2628).

Dell’enunciato principio la Corte di merito non ha tenuto conto, facendo discendere come conseguenza ineluttabile dell’opponibilità delle quietanze al creditore originario lo stesso effetto nei confronti del fallimento, omettendo così completamente di motivare in ordine agli elementi che avrebbero dovuto invece supportare un giudizio di veridicità del contenuto delle dichiarazioni in questione.

L’accoglimento del terzo motivo comporta l’assorbimento del quinto, fondato su di una interpretazione della motivazione della sentenza impugnata alternativa a quella valutata esaminando il terzo motivo.

L’impugnata sentenza deve dunque essere cassata e la causa rinviata per l’ulteriore esame e anche per le spese di questa fase alla stessa Corte d’appello in diversa composizione.

P.Q.M.

la Corte accoglie il terzo motivo di ricorso, rigetta il primo e il secondo, dichiara inammissibile il quarto e assorbito il quinto, cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia la causa, anche per le spese, alla Corte d’appello di Torino in diversa composizione.

Così deciso in Roma, il 3 marzo 2010.

Depositato in Cancelleria il 29 aprile 2010

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