Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 10286 del 26/04/2017

Cassazione civile, sez. II, 26/04/2017, (ud. 28/09/2016, dep.26/04/2017),  n. 10286

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BUCCIANTE Ettore – Presidente –

Dott. MIGLIUCCI Emilio – Consigliere –

Dott. D’ASCOLA Pasquale – rel. Consigliere –

Dott. COSENTINO Antonello – Consigliere –

Dott. SCARPA Antonino – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 6152-2012 proposto da:

C.E., (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA, VIA

BARNABA TORTOLINI 34, presso lo studio dell’avvocato IRMA CONTI, che

lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato MICHELE MASSELLA;

– ricorrente –

contro

M.E., C.G., M.G., elettivamente

domiciliati in ROMA, VIA COSSERIA 5, presso lo studio dell’avvocato

LAURA TRICERRI, che li rappresenta e difende unitamente all’avvocato

FIORENZA CRIVELLARO SALVA’;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 1928/2011 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA,

depositata il 01/09/2011;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

28/09/2016 dal Consigliere Dott. PASQUALE D’ASCOLA;

udito l’Avvocato MASSELLA Michele, difensore del ricorrente che ha

chiesto l’accoglimento del ricorso e della memoria;

udito l’Avvocato FRANZIN Ludovica, con delega depositata in udienza

dell’Avvocato TRICERRI Laura, difensore dei resistenti che ha

chiesto il rigetto del ricorso;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. DE

AUGUSTINIS Umberto, che ha concluso per l’inammissibilità in

subordine rigetto del ricorso.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1) La controversia ruota intorno alla scrittura privata 5 maggio 2000 con la quale C.E. e la sorella G. avevano sciolto la comunione di immobili siti in (OMISSIS), permutandosi reciprocamente alcuni beni. C.G. e i di lei figli G. ed M.E. hanno agito nel luglio 2001 per il riconoscimento dell’autenticità delle sottoscrizioni, allegando che erano proprietari della quota di un mezzo dei beni per successione da M.V. e che C.G. aveva agito per sè e i figli.

C.E. ha resistito eccependo che il negozio era annullabile, in quanto frutto di errore sulla comproprietà del terreno, già proprio per usucapione. Ha inoltre rilevato l’inefficacia del negozio per mancata partecipazione ad esso dei figli della contraente G..

Il tribunale di Verona nel 2008 ha accolto la domanda e condannato il convenuto all’adempimento delle obbligazioni accessorie.

La Corte di appello di Venezia ha rigettato l’appello con sentenza 1 settembre 2011.

C.E. ha proposto ricorso per cassazione, notificato il 2 marzo 2012. C.G. e i figli M. hanno resistito con controricorso.

Le parti hanno depositato memorie.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

2) Preliminarmente vanno respinte le eccezioni di inammissibilità del ricorso.

La procura rilasciata dal ricorrente all’avv. Massella è speciale, in quanto apposta a margine del ricorso (nella prima pagina) ed inequivocabilmente riferibile all’impugnazione in sede di legittimità, posto che si conclude con l’elezione di domicilio in Roma richiamata nel proemio dell’atto, restando irrilevanti le formule di rito che fanno riferimento a tutti i gradi del processo (Cass. n. 15538 del 23/07/2015).

Anche l’esposizione dei fatti di causa è presente alle pagine 1 e 2 del ricorso, poichè la premessa ivi contenuta, pur avendo, come vuole la norma, carattere sommario, consente di comprendere la materia del contendere.

3) Il tribunale ha ritenuto che la signora C. avesse agito validamente in rappresentanza anche dei propri figli, in forza della delega da essi rilasciata il 15.2. 2000 (recte 15. 12. 2000, cfr. ricorso pag. 6), da intendere come ratifica dell’operato.

La Corte di appello ha confermato la decisione sulla base di altra motivazione. Ha ritenuto che l’accordo divisionale si sia perfezionato grazie alla successiva adesione dei M., avvenuta valendosi della convenzione in sede di instaurazione del giudizio.

Ha negato che il convenuto abbia anteriormente revocato il proprio consenso. Ha respinto la pretesa del C. di aver usucapito l’immobile.

4) Con il primo motivo di ricorso quest’ultimo denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 102 e 354 c.p.c., in relazione alla mancata partecipazione al giudizio della madre S.M., deceduta nel (OMISSIS), cointestataria di uno degli immobili oggetto di causa, secondo quanto risulterebbe dalla ctu in atti.

Parte resistente ha controdedotto che la madre non sarebbe stata litisconsorte, in quanto usufruttuaria ex contractu del bene e non quale erede.

Il rilievo non è stato confutato nella memoria, la quale si limita a sostenere che la presenza dell’usufruttuario nel giudizio di divisione “appare opportuna”.

La censura è infondata per più profili.

Prima del rilievo formulato da parte resistente, va infatti considerato che il difetto di integrazione del contraddittorio nei confronti dell’usufruttuario postula l’esistenza in vita dell’usufruttuario, considerato che tale diritto si estingue con la morte del titolare (Cass. 17581/07).

Va inoltre osservato che parte ricorrente, la quale non ha sollevato la questione in grado di appello, non ha esposto alcuna circostanza che smentisca quanto consegue al decesso nel (OMISSIS) dell’usufruttuario, cioè il consolidamento della proprietà in capo ai litiganti condividenti, tra i quali vi sono i due figli stipulanti. Pertanto al momento della decisione in nessun grado di giudizio sussisteva omessa partecipazione al giudizio di un litisconsorte.

5) Il secondo motivo denuncia ultrapetizione e violazione degli artt. 346 e 112 c.p.c.

Parte ricorrente sostiene che controparte ( M.) nel costituirsi aveva solo chiesto il rigetto dell’appello, il quale investiva la tesi della ratifica dell’atto sottoscritto da C.G., perimetro oltre il quale la Corte non avrebbe potuto esprimersi.

La censura è infondata.

La comparsa datata 12 maggio 2009 depositata dagli appellati C.- M. indicava espressamente a pag. 2/3 l’argomento su cui è stata imperniata la sentenza di appello, cioè l’effetto di “adesione o di ratifica” del contratto che ha la citazione, sottoscritta dalla parte, con cui si chieda l’esecuzione del contratto concluso dal rappresentante senza potere (conf. Cass. 5919/16).

La questione, in quanto rilevabile d’ufficio e risultante da un atto dello stesso processo (la citazione), è stata dunque legittimamente trattata dalla Corte di appello, sia in forza del potere proprio di rilevazione che delle difese svolte dagli appellati.

6) Il terzo motivo denuncia vizi di motivazione “con riguardo alla prova di revoca del consenso da parte del sig. C.E.”.

Il ricorrente afferma che vi sarebbe stata revoca e sostiene che la prova di ciò sarebbe data dalla circostanza che in citazione si diceva che C. si era rifiutato di firmare. Invoca inoltre una lettera dell’avv. Massella, indirizzata al ctp dello stesso C. in cui si faceva “menzione della ipotesi di usucapione e quindi della nullità della convenzione”.

La censura non è fondata.

Essa non si misura con la ratio della decisione impugnata, secondo la quale per revocare il consenso all’accordo manifestato nella scrittura e ratificato con la citazione, sarebbe stata necessaria una “dichiarazione espressa ed inequivoca”.

La Corte, con motivazione adeguata e logica, ha negato che tali caratteri fossero rinvenibili nel semplice comportamento costituito dal non recarsi alla firma dell’atto in sede notarile, con il rifiuto implicito di stipulare.

Del tutto inidoneo allo scopo è poi il comportamento interno alla difesa di parte C. costituito dalla mera “ipotesi” di far valere l’usucapione, esternata tra l’avvocato del ricorrente e il consulente. Non se ne può certo desumere l’estrinsecazione verso controparte di una formale revoca del consenso all’accordo.

7) Anche l’ultimo motivo, che denuncia vizi di motivazione con riguardo alla prova della usucapione, è infondato.

Parte ricorrente aveva dedotto che vi era stata “non contestazione” del proprio possesso e ciò era stato negato dalla Corte di appello.

Il ricorso censura la frase della sentenza (pag. 9) in cui si dice che il possesso esclusivo di C. era stato contestato dai M. nella memoria ex art. 183, comma 5, laddove gli attori avevano affermato che la stessa convenzione del 2000 costituiva un esplicito riconoscimento della qualità di comproprietario che escludeva l’animus di possedere come “dominus”; che tale rilievo costituiva contestazione sufficiente.

La tesi di parte ricorrente è che la sentenza sarebbe contraddittoria, perchè da un lato avrebbe ritenuto la convenzione inefficace in quanto non sottoscritta da tutti i comproprietari, dall’altro l’avrebbe ritenuta prova utile ad escludere l’usucapione.

La censura è del tutto priva di fondamento.

Va in primo luogo evidenziato che essa è posta in modo incompleto, perchè non riporta compiutamente gli atti di causa rilevanti sul punto, atti che la Corte di Cassazione non può spontaneamente esaminare perchè il motivo de quo, a differenza dei primi due, non attiene a vizio processuale, ma a preteso vizio in iudicando.

Esaminando la censura per come posta, è subito da rilevare che è perfettamente logico ravvisare contestazione dell’altrui possesso esclusivo nella frase, riportata in sentenza, secondo cui la firma della convenzione da parte di C. costituiva atto in contraddizione con il ritenersi proprietario usucapiente dell’intero compendio.

Un soggetto che si ritenga tale non addiverrebbe mai ad accordo divisionale con la sorella, comportamento che è in contraddizione plateale con il possesso contro il comproprietario che dovrebbe contraddistinguere l’usucapione.

Va poi detto che non vi è alcuna illogicità giuridica nelle affermazioni della Corte di appello.

La mancata firma di uno degli aventi diritto titolati a partecipare a un atto divisionale rileva infatti per la declaratoria di inefficacia di esso, ma non toglie nulla alla rilevanza probatoria, ad altri fini, del comportamento e della manifestazione di volontà espressi da uno dei sottoscrittori. Trattasi di manifestazione che inequivocabilmente può dimostrare che questi non si riteneva unico proprietario del bene da dividere e che può quindi contraddire in radice, come ha ritenuto la Corte lagunare con insindacabile apprezzamento di merito, la pretesa di aver usucapito quello stesso bene con i necessari atti di interversione e esclusività del possesso che devono caratterizzare la condotta del comproprietario che si stia impadronendo di un bene.

Se si considerano anche le altre rationes esposte in sentenza (pag. 8) a confutazione dell’esistenza di prova del possesso ininterrotto, discende da quanto esposto il completo rigetto del ricorso.

Di qui la condanna alla refusione delle spese di lite, liquidate in dispositivo, in relazione al valore della controversia.

PQM

La Corte rigetta il ricorso.

Condanna parte ricorrente alla refusione delle spese di lite liquidate in Euro 4.000 per compenso, 200 per esborsi, oltre accessori di legge, rimborso delle spese generali (15%).

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della sezione seconda civile, il 28 settembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 26 aprile 2017

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