Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 10283 del 29/04/2010

Cassazione civile sez. II, 29/04/2010, (ud. 23/03/2010, dep. 29/04/2010), n.10283

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCHETTINO Olindo – Presidente –

Dott. ODDO Massimo – Consigliere –

Dott. GOLDONI Umberto – Consigliere –

Dott. PICCIALLI Luigi – rel. Consigliere –

Dott. BUCCIANTE Ettore – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

D.T. (OMISSIS), elettivamente domiciliato

in ROMA, VIA APPIA NUOVA 251, presso lo studio dell’avvocato SARACINO

MARIA, rappresentato e difeso dall’avvocato FOLLIERI ROSARIO;

– ricorrente –

contro

L.R. (OMISSIS), N.G.

(OMISSIS), elettivamente domiciliati in ROMA, VIA BERGAMO 3,

presso lo studio dell’avvocato GIANNINI PATRIZIA, rappresentati e

difesi dagli avvocati NIGLIO LUCIO, DI VIRGILIO GIOVANNI MAURO;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n, 384/2004 della CORTE D’APPELLO di BARI,

depositata il 30/04/2004;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

23/03/2010 dal Consigliere Dott. LUIGI PICCIALLI;

udito l’Avvocato DI VIRGILIO Giovanni Mauro, difensore del resistente

che ha chiesto il rigetto del ricorso;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CENICCOLA Raffaele, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

 

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

L.R. e N.G., proprietari e promittenti venditori di un locale terraneo sito in (OMISSIS), con atto notificato il (OMISSIS) citarono al giudizio del Tribunale di Lucera il promissario acquirente D.T., al fine di sentir dichiarare risolto per inadempimento del medesimo, con conseguenti restituzione dell’immobile e risarcimento dei danni, il contratto preliminare stipulato con scrittura privata del (OMISSIS).

A sostegno della domanda gli attori esponevano che, nonostante il contratto prevedesse la risoluzione se entro due mesi non fossero state ottenute dal proprietario le autorizzazioni del Comune e del condominio allo svolgimento nel locale delle attività di gommista ed autolavaggio, impegno poi assuntosi dal promissario acquirente, questi aveva intrapreso e proseguito tali attività e tuttavia non era, nonostante vari inviti, mai comparso davanti al notaio per la stipulazione dell’atto di compravendita.

Costituitosi il convenuto, contestò l’avversa domanda e spiegò riconvenzionale per ottenere la “manutenzione” del contratto con la conseguente riduzione del prezzo, previa detrazione dei danni che assumeva aver subito, per inadempimento delle controparti.

Con sentenza pubblicata il 17.3.00 il G.O.A della sezione stralcio del tribunale adito, in accoglimento della domanda attrice e disattesa la riconvenzionale, dichiarò risolto il contratto per inadempimento del convenuto, che condannò al rilascio dell’immobile ed al rimborso degli oneri condominiali e del canone idrico agli attori, oltre alle spese del giudizio, ivi comprese quella dell’espletata consulenza tecnica di ufficio.

A seguito dell’appello del soccombente, cui avevano resistito gli appellati, proponendo gravame incidentale per la richiesta risarcitoria, con sentenza del 30.4.04 la Corte di Bari rigettava l’appello principale ed, in accoglimento di quello incidentale, condannava il D. anche al risarcimento dei danni, per la detenzione senza titolo del locale e per il ripristino dello stesso in misura di L. 65.600.022, con il carico delle spese del grado.

Tali, in sintesi, le ragioni della suddetta decisione: a) il D., rimanendo nel godimento del locale per oltre tredici anni, aveva chiaramente manifestato la propria intenzione di non volersi avvalere della clausola risolutiva espressa; b) il medesimo si era tuttavia reso inadempiente, omettendo di pagare il saldo del prezzo, pattuito in L. 120.000.000, di cui L. 20.000.000 versati in anticipo e da imputarsi a corrispettivo dell’affitto secondo i patti, nonchè di stipulare il contratto definitivo; c) non sussisteva ultrapetizione relativamente al disposto rimborso degli oneri condominiali e del canone idrico, ulteriore richiesta che era stata ammissibilmente proposta nel corso del giudizio di primo grado, nell’ambito di processo regolato dal “vecchio rito”; d) il giudice di primo grado aveva ingiustificatamente omesso di determinare l’importo dei danni, pur avendo riconosciuto il diritto degli attori al relativo risarcimento; e) quest’ultimo pertanto, secondo gli incontestati calcoli eseguiti dal C.T.U., andavano liquidati in L. 59.600.022 a titolo di virtuale canone locatizio, comprensivo degli aggiornamenti I.S.T.A.T. e degli interessi, nonchè in L. 6.000.000 per le spese occorrenti per il ripristino del locale.

Avverso tale sentenza il D. ha proposto ricorso per Cassazione affidato a tre motivi di censura. Hanno resistito il L. e la N. con controricorso.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo di ricorso vengono dedotte violazione e falsa applicazione degli artt. 1460 e 1456 c.c., nonchè omessa e contraddittoria motivazione su punto decisivo.

I giudici di merito avrebbero indebitamente attribuito al D., che aveva sostenuto ingenti spese per le modifiche dell’immobile confidando nel mantenimento dell’impegno dei medesimi al conseguimento delle autorizzazioni, la rinunzia ad avvalersi della clausola risolutiva espressa. Questi, in realtà, pur a fronte dell’inadempienza delle controparti, si era soltanto astenuto dall’esercitare il suddetto diritto potestativo, nel contempo avvalendosi della facoltà di autotutela cui all’art. 1460 c.c., non adempiendo a sua volta l’obbligazione relativa al saldo del prezzo, alla cui riduzione, in considerazione dei danni subiti, aveva condizionato la propria disponibilità alla stipula del contratto definitivo, coerentemente chiedendo in giudizio la “manutenzione” nel contratto con la suddetta rideterminazione, che avrebbe dovuto tener conto delle non procurate autorizzazioni, comunale e condominiali, esponenti l’acquirente al pericolo di non poter svolgere la propria attività.

Il motivo non merita accoglimento, risolvendosi in una censura in fatto avverso una valutazione compiuta dai giudici di merito, che nel ritenere tacitamente rinunciata dal promissario acquirente la facoltà di sciogliersi dal contratto, in virtù della clausola relativa all’impegno assunto dai promittenti venditori di procurare le autorizzazione comunale e condominiale, all’esercizio delle attività cui il locale avrebbe dovuto essere destinato, hanno adeguatamente motivato il relativo accertamento con argomentazioni convincenti, esenti da vizi logici e coerenti al conforme indirizzo della giurisprudenza di questa Corte, secondo il quale la rinuncia tacita ad avvalersi del diritto potestativo di risoluzione, convenzionalmente previsto, ben può desumersi, con accertamento incensurabile riservato al giudice di merito, da comportamenti delle parti inequivoci e incompatibili con la volontà di sciogliersi dal contratto. La permanenza nel locale e la mancata ripetizione dell’acconto, dopo la scadenza del breve termine previsto nella clausola risolutiva, il versamento di successive rate del prezzo, l’esecuzione di lavori di trasformazione dell’immobile, la mancanza di alcuna esternazione dell’assunta riserva di avvalersi in seguito della facoltà di scioglimento da contratto (di cui non vi è cenno alcuno nel mezzo d’impugnazione), costituivano una serie di evidenti elementi inequivocamente convergenti nel senso della tacita rinunzia in questione, che correttamente pertanto è stata ravvisata dalla corte barese.

Conseguentemente, non essendosi le parti avvalse di tale facoltà, che così come riferita nella sentenza di merito, più che una clausola risolutiva espressa, ex art. 1456 c.c., correlata all’inadempimento colpevole di una delle stesse, risultava configurata a guisa di condizione risolutiva negativa, tale da caducare ex post gli effetti del negozio senza addebito all’una o all’altra parte, permanendo in vigore le altre obbligazioni assunte nel contratto preliminare, tra cui segnatamente quella di addivenire alla stipula del definitivo e, per quanto atteneva al promissario acquirente, di versare contestualmente il saldo, correttamente i giudici di merito hanno ritenuto sussistere l’inadempimento colpevole del D., rimasto inottemperante alla diffida intimatagli al fine del regolamento del rapporto, in un contesto nel quale l’esercizio del diritto di autotutela ex art. 1460 c.c., non risultava giustificato, in considerazione della tacita rinunzia ad esigere l’adempimento dell’impegno trasfuso nella clausola risolutoria.

Con il secondo motivo si deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 112, 183 e 184 c.p.c., tonsurandosi la conferma della condanna al rimborso di spese condominiali e legali connesse per circa 7.300.000 complessive, che pur nell’ambito di una controversia regolata dalle citate disposizioni processuali, nel testo previgente a quello modificato dalla “novella” L. n. 353 del 1990, avrebbero integrato domande oggettivamente nuove, esorbitanti dall’originaria pretesa risarcitoria, e pertanto non formulabili in corso di causa.

Neppure tale motivo merita accoglimento, non trovando supporto nella citata pronunzia di legittimità (Cass. 9237/97). Il principio in tal sede affermato, secondo cui “la domanda di risarcimento del danno da inadempimento contrattuale, indeterminata nel quantum, per includere tutti i danni subiti a causa dell’inadempimento, resta concretamente definita in relazione alle singole ragioni giuridiche nelle quali si articola la causa petendi, e quindi alla specificazione dei singoli danni subiti”, non sembra ostativo all’inclusione di tali pretese nell’ambito di quella risarcitoria, che in termini ampiamente comprensivi era stata formulata dagli attori all’inizio della causa, indicando a fondamento della domanda l’indebita protrazione della detenzione dell’immobile da parte del promissario acquirente inadempiente (causa petendi), e quale petitum tutti i danni, vale a dire i pregiudizi economici subiti di conseguenza dai promittenti venditori. Su tali premesse nessuna ulteriore e diversa causa petendi risulta introdotta nel giudizio, essendosi trattato di un mero ampliamento quantititativo del petitum, nel quale, in aggiunta al lucro cessante correlato al mancato godimento dell’immobile, è stato successivamente incluso anche il danno emergente, costituito dagli esborsi subiti per il pagamento di oneri che sarebbero stati a carico del fruitore di taluni servizi condominiali e delle spese legali per il relativo recupero. Con il terzo motivo si deduce “violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., nonchè contraddittoria motivazione”, censurandosi l’accoglimento dell’appello incidentale, comportante la condanna del D. al pagamento della somma di L. 59.600.022, sull’assunto che il primo giudice, pur avendo accertato tale danno, avrebbe omesso la relativa condanna. In realtà nella sentenza di primo grado neppure una pronunzia dichiarativa sarebbe riscontrabile, essendosi il giudice semplicemente limitato ad esporre l’esito al riguardo della consulenza tecnica di ufficio;

sicchè mancando su tali voci sia una parte motivarla una statuizione finale nel dispositivo, la decisione sarebbe stata limitata alla sola condanna relativa al rimborso di cui al precedente motivo di ricorso.

Anche tale motivo deve essere respinto.

All’esito dell’esame della sentenza di primo grado, consentito dalla natura processuale della censura, da cui si rileva che, pur avendo il g.o.a lucerino effettivamente omesso in dispositivo di pronunziare la condanna risarcitoria in questione, aveva tuttavia in motivazione proceduto all’analitica determinazione di tutti gli elementi funzionali alla stessi, recependo i dati rinvenienti dalla consulenza tecnica di ufficiosa cui esposizione, utilizzata anche per la liquidazione dei virtuali canoni maturati successivamente all’indagine peritale, non avrebbe avuto alcun significato e finalità nell’economia della decisione. Tanto risulta confermato dall’inserimento di tale determinazione tra quella parte della motivazione in cui vengono evidenziati il comportamento inadempiente del D. e l’inevitabilità della conseguente azione dei L.- N.”per vedere riconosciuti i loro diritti” e quella conclusiva, dove si stigmatizza ulteriormente l’operato del convenuto, per aver continuato a detenere l’immobile, eseguendo nello stesso “lavori non autorizzati dai proprietari, nè assentiti” e procurando ai medesimi esborsi non dovuti per “consumo acqua”, scarico di “liquami”, spese di giustizia etc..

Trattandosi di inequivoca dichiarazione di illiceità accomunante tutti quei comportamenti, correttamente i giudici di appello vi hanno individuato, una implicita pronunzia dichiarativa, non solo sull’an, ma anche sul quantum debeatur, della fondatezza della domanda risarcitoria attrice, pertanto accogliendo l’appello incidentale con il quale era stata richiesta anche la consequenziale statuizione di condanna al ristoro per il mancato godimento dell’immobile e le abusive modifiche apportatevi, che pur era stata richiesta al primo giudice e che non avrebbe potuto essere omessa, tanto più che, in cospetto di un preciso accertamento ad hoc, non ricorrevano le condizioni di cui all’art. 278 c.p.c..

Il ricorso va in definitiva respinto, con condanna del soccombente alle spese del giudizio.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al rimborso, in favore dei resistenti, delle spese del giudizio, che liquida in complessivi Euro 2.700, 00 di cui Euro 200, 00 per esborsi.

Così deciso in Roma, il 23 marzo 2010.

Depositato in Cancelleria il 29 aprile 2010

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