Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 10282 del 29/04/2010

Cassazione civile sez. II, 29/04/2010, (ud. 23/03/2010, dep. 29/04/2010), n.10282

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCHETTINO Olindo – Presidente –

Dott. ODDO Massimo – rel. Consigliere –

Dott. GOLDONI Umberto – Consigliere –

Dott. PICCIALLI Luigi – Consigliere –

Dott. BUCCIANTE Ettore – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

I.S.G. – rappresentato e difeso in virtù di procura

speciale in calce al ricorso dall’avv. Santangeli Fabio del Foro di

Catania ed elettivamente domiciliato in Roma, alla via Francesco

Miceli Picardi, n. 4, presso Iraci Sareri Tony Frediano;

– ricorrente –

contro

A.G., A.A. ed Al.Al. –

rappresentati e difesi in virtù di procura speciale a margine del

controricorso dagli avv.ti Riso Francesco e Giovanni Gandolfo del

Foro di Catania ed elettivamente domiciliati in Roma, alla via A.

Depretis, n. 86, presso l’avv. Laura Opilio;

– controricorrenti –

avverso la sentenza della Corte d’Appello di Caltanissetta n. 153 del

24 giugno 2008 – non notificata.

Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 23

marzo 2010 dal Consigliere dott. Massimo Oddo;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CENICCOLA Raffaele, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

 

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con atto notificato l’8 agosto 1979, D., E., G., L. e P.M.C., F.M.T., P. ed G.A. e I.S.G., quest’ultimo in proprio e quale avente causa di E. e P.S. e di Salvatore Tizzoni, premesso di essere proprietari o comproprietari di una pluralità di immobili siti in (OMISSIS) tra la via (OMISSIS) ed il vicolo (OMISSIS), demoliti a seguito del sisma del 1967/68, convennero S.M. e G., Gi., gi., A., M.A., T., Al. e A.C., proprietari di un edificio ricostruito dopo il sisma sul fondo finitimo, davanti al Tribunale di Nicosia e domandarono la condanna dei convenuti alla rimozione delle parti dell’edificio realizzate su aree di essi attori ed altre demaniali od a distanza inferiore a quella legale ovvero creando indebite servitù e modificando l’originaria volumetria.

Si costituì il solo A.A., eccependo la non integrità del contraddittorio e resistendo alle domande, ed il Tribunale con sentenza non definitiva del 17 ottobre 2001 rigettò le domande degli attori aventi ad oggetto: l’arretramento dell’edificio dei convenuti;

la demolizione ed arretramento di tre terrazzini; la demolizione di una terza elevazione; la chiusura di sei finestre di veduta; la rimozione di tubazioni; e rimise la causa sul ruolo con separata ordinanza relativamente a quelle aventi ad oggetto il rilascio dell’area di risulta dalla distruzione di due grotte di proprietà degli attori P., F. e G. e l’eliminazione di sei finestre.

La decisione, gravata dall’ I.S., venne confermata il 16 giugno 2008 dalla Corte di appello di Caltanissetta, che rigettò l’impugnazione.

L’ I.S. è ricorso con otto motivi per la cassazione della sentenza e gli intimati G., A. ed Al.Al.

hanno resistito con controricorso.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo, il ricorso denuncia la nullità della sentenza impugnata, in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4, per falsa ed erronea applicazione dell’art. 158 c.p.c., con riferimento al difetto di costituzione del giudice che ha deciso la controversia in primo grado e formula, ex art. 366 bis c.p.c., i quesiti di diritto, se:

“ai fini della dimostrazione della circostanza che un giudice non abbia potuto fare parte del collegio giudicante sia necessario proporre querela di falso o se, invece, sia possibile fornire tale prova con inequivoca e non contestata documentazione processuale”;

“un collegio non integro al momento della decisione e/o pubblicazione della sentenza non renda il provvedimento inesistente o comunque nullo ex art. 158, c.p.c.”.

Il motivo è infondato nella prima parte e l’infondatezza assorbe l’esame della seconda parte.

La corte d’appello, sollecitata con il gravame a verificare la nullità/inesistenza della pronuncia di primo grado, “risultando pacifico” che era stata decisa soltanto dal presidente del collegio e dal relatore, perchè il terzo componente, presente all’udienza di discussione della causa, si era successivamente assentato dalla sede del tribunale e dal suo ufficio per motivi di salute e non era in tali luoghi presente nè nella data nella quale la controversia risultava decisa e nè in quella del deposito della decisione, ha correttamente affermato che l’unico strumento processuale per dedurre e dimostrare che la decisione era stata adottata da un collegio diverso da quello indicato nell’epigrafe della sentenza (ovvero solo da due dei tre giudici da essa risultanti) era la querela di falso ed ha escluso l’esaminabilità della censura in difetto di proposizione della querela.

Costituisce, invero, un principio costantemente ribadito dal giudice di legittimità ed al quale va data continuità, che, quando vi sia coincidenza tra la composizione del collegio giudicante risultante dal verbale di discussione della causa, redatto dal cancelliere, e quella indicata nell’intestazione della sentenza, sottoscritta dal presidente del collegio e dall’estensore, le risultanze di detti atti, che giusta il disposto dell’art. 2700 c.c., fanno fede quanto alla composizione del collegio fino a querela di falso, possono essere superate unicamente con il positivo esperimento della querela di falso (cfr. da ultimo: cass. civ., sez. 3^, sent. 2 agosto 2002, n. 11541), nell’ambito del cui pro cedimento la parte interessata e libera di far valere ogni elemento di prova, anche se di natura presuntiva.

Con il secondo motivo, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, per illogicità ed insufficienza della motivazione circa l’imprescindibilità della proposizione della querela di falso ex art. 221 c.p.c., non avendo rilevato che sia nella data della deliberazione che il quella del deposito della decisione il terzo componente del collegio era carente di potestas iudicandi, in quanto collocato fuori ruolo dalla magistratura. Il motivo è inammissibile, da un lato, perchè sotto il profilo del vizio di motivazione denuncia la violazione di una norma processuale senza la formulazione del quesito di diritto imposto dall’art. 366 bis c.p.c., e, dall’altro, perchè solleva per la prima volta una questione il cui esame impone un accertamento di fatto (collocazione fuori ruolo) che nel giudizio di cassazione è precluso dalla tassatività dei motivi di ricorso previsti dall’art. 360 c.p.c..

Con il terzo motivo, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, per erroneità, illogicità ed insufficienza della motivazione sul punto relativo all’occupazione abusiva di porzioni di suolo di proprietà dell’appellante estese almeno mt. 0,55, avendo apoditticamente attribuito esclusivo rilievo alla ricostruzione operata dal collegio dei c.t.u., e omesso di valutare le risultanze di un progetto prodotto dagli attori, la deposizione di due testi, la c.t.p. e la relazione che accompagnava un plastico ed affermato che il modus procedendi dei consulenti non era stato oggetto di specifica censura, nonostante più volte in corso di causa e nella comparsa conclusionale la parte avesse dedotto che i consulenti non avevano il potere di accertare una situazione diversa da quella risultante da atti pubblici e dalle deposizioni testimoniali. Il motivo è in parte inammissibile ed in altra infondato. E’ inammissibile laddove, omettendo di trascrivere le risultanze del progetto, le deposizioni testimoniali, le parti rilevanti della c.t.p. e la relazione di accompagnamento al plastico, non consente alcuna valutazione delle censure e non soddisfa il requisito di autosufficienza del ricorso.

E’ infondato nella parte in cui assume l’immotivata adesione della sentenza alla c.t.u. e l’erronea esclusione della contestazione delle operazioni peritali, giacchè la decisione ha esplicitamente negato il carattere tecnico delle censure rivolte all’operato dei consulenti ed ha adeguatamente e logicamente dato conto dell’adesione alla loro conclusione che “gli A. hanno sostanzialmente occupato l’area originaria di pertinenza”, sottolineando la correttezza del criterio da essi adottato di individuare il perimetro degli immobili quale esistente anteriormente alla demolizione e di comparare tale perimetro con quel lo occupato dalla nuova costruzione.

Con il quarto motivo, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, per erroneità ed insufficienza della motivazione circa il punto della violazione della L. n. 21 del 1970, art. 19, avendo accolto la tesi del collegio dei c.t.u., secondo la quale nel realizzare una terza elevazione i convenuti non avevano violato il divieto di apportare nella ricostruzione modificazioni sostanziali all’originaria volumetria dell’edificio, benchè la superficie lasciata a terrapieno e non utilizzata di mq. 86, appartenesse in gran parte all’appellante, ed avendo rigettato la domanda di risarcimento per equivalente del danno cagionato dalla violazione, benchè inclusa in quella di riduzione in pristino.

Il motivo è inammissibile.

Il rispetto del volume e della superficie calpestabile preesistente allo evento sismico, imposto dalla L. n. 21 del 1970, art. 19, in caso di ripristino degli immobili in sito, è stato riconosciuto dalla sentenza in base al rilievo della c.t.u. che la traslazione al terzo piano di parte della superficie lorda aveva ridistribuito le anteriori potenzialità aerali senza alterare le originarie volumetrie.

L’assunto che la parte di superficie lasciata a terrapieno e traslata al terzo piano apparteneva all’appellante non attinge, dunque, la ratio decidendi, costituita non dalla proprietà del suolo ma dalla inclusione di esso nel sedime dell’edificio demolito, e, in ogni caso, prospetta una circostanza, la cui valutazione, non risultando esaminata nella sentenza e non essendo specificato il ricorso se ed in quali termini fosse stata allegata nel giudizio di merito, è preclusa in sede di legittimità, al pari di quella da essa dipendente di un rapporto di continenza tra la domanda di riduzione in pristino e quella di risarcimento del danno.

Con il quinto motivo, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4, per violazione dell’art. 112 c.p.c., non essendosi pronunciata sulla domanda di eliminazione della servitù di stillicidio ex art. 908 c.c., conseguente al convogliamento delle acque piovane dal tetto dell’immobile dei convenuti su quello dell’appellante, e formula il quesito di diritto:

“se il giudice di secondo grado non debba pronunciare sentenza di condanna all’eliminazione di una servitù di scolo di fatto, non legittimata giuridicamente, nè da un atto privato, nè da specifica pronuncia giudiziale costitutiva”.

Il motivo è infondato.

Come evidenziato nello stesso ricorso, gli attori avevano lamentato che nel ricostruire l’edificio i convenuti avevano realizzato una falda del tetto che convogliava le acque piovane sulla proprietà confinante, e l’infondatezza della loro azione negatoria è stata, in primo grado, rimarcata con il rilievo che la ricostruzione non aveva comportato sostanziali differenze nel preesistente convogliamento delle acque tra le proprietà limitrofe espressamente confermata, in secondo grado, dalla sentenza impugnata anche in base all’ulteriore considerazione che la controversia non aveva investito la legittimità della situazione di fatto preesistente.

Con il sesto motivo, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, per insufficiente, contradditoria motivazione circa la servitù di stillicidio ex art. 908 c.c., non avendo i convenuti formulato alcuna domanda diretta ad accertare il proprio diritto a mantenere la preesistente situazione.

Il motivo è inammissibile per la sua novità, non risultando nè dalla sentenza e nè dal ricorso che nel giudizio di merito sia stata sollevata la questione relativa al diritto dei convenuti a convogliare sul fondo degli attori le acque piovane già raccolte dall’edificio demolito.

Con il settimo motivo, il relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4, per violazione dell’art. 112 c.p.c., avendo riportato nella parte introduttiva le doglianze relative alla ex novo costruzione di tre terrazzini sul lato del terrapieno in violazione dell’art. 905 c.c., senza pronunciarsi su di esse e formula il quesito:

“se, omettendo di pronunciare in ordine alla domanda di demolizione dei tre terrazzini e di un grande balcone, non abbia violato il disposto dell’art. 112 c.p.c.”.

Il motivo è in parte inammissibile ed in altra infondato.

E’ inammissibile laddove nel quesito fa riferimento ad un grande balcone costruito in violazione delle distanze legali senza indicare se e quando la realizzazione del balcone sia stata tempestivamente introdotta nel giudizio.

E’ infondato nel resto.

Il giudice di primo grado aveva rigettato la domanda di demolizione dei terrazzini dell’edificio ricostruito, dei quali gli attori avevano lamentato l’esecuzione in violazione delle distanze legali in quanto il loro estremo era collocato sul confine del loro edificio, osservando che la c.t.u. aveva accertato che gli stessi preesistevano alla ricostruzione.

La decisione sul punto è stata implicitamente confermata dalla sentenza impugnata, la quale ha sottolineato la propria completa adesione agli accertamenti operati dai consulenti tecnici, e la mancata indicazione nel ricorso di quali argomenti fossero stati addotti dall’appellante per contestarne specificamente le conclusioni sulla mancato alterazione delle vedute già in precedenza esercitate non consente di ritenere che la genericità della motivazione adottata si risolva in una omessa pronuncia su di essi.

Con l’ottavo motivo, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4, per violazione dell’art. 112 c.p.c., non essendosi la sentenza pronunciata sul punto relativo alla metratura degli ingrottati e formula il quesito: “se omettendo di pronunciare in ordine alla domanda di accertamento della metratura degli ingrottati di proprietà dell’ I. non abbia violato il disposto dell’art. 112 c.p.c.”. Il motivo è inammissibile.

La Corte di appello sollecitata con il gravame al riesame della questione concernente il diritto di proprietà delle grotte, ha ritenuto la questione preclusa dai limiti del decisum dalla sentenza non definitiva appellata, essendo il giudice di secondo grado funzionalmente incompetente a conoscere le questioni la cui decisione il giudice di primo grado abbia riservato alla pronuncia definitiva.

Mancando una specifica censura, la definitività della decisione sul punto esclude l’interesse alla denuncia dell’omessa pronuncia su un motivo che il giudice di secondo grado per la ragione da lui esposta non poteva esaminare.

All’inammissibilità od infondatezza dei motivi seguono il rigetto del ricorso e la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del giudizio, liquidate in dispositivo, nonchè l’enunciazione ex art. 384 c.p.c., del principio di diritto:

“Quando vi sia coincidenza tra la composizione del collegio giudicante risultante dal verbale di discussione della causa, redatto dal cancelliere, e quella indicata nell’intestazione della sentenza, sottoscritta dal presidente del collegio e dall’estensore, le risultanze di detti atti, che giusta il disposto dell’art. 2700 c.c., fanno fede quanto alla composizione del collegio fino a querela di falso, possono essere superate unicamente con il positivo esperimento della querela di falso”.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio che liquida in Euro 5.200,00, di cui Euro 200,00 per spese vive, oltre spese generali, iva, cpa ed altri accessori di legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 23 marzo 2010.

Depositato in Cancelleria il 29 aprile 2010

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