Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 10269 del 26/04/2017


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Cassazione civile, sez. trib., 26/04/2017, (ud. 08/02/2017, dep.26/04/2017),  n. 10269

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CAPPABIANCA Aurelio – Presidente –

Dott. LOCATELLI Giuseppe – Consigliere –

Dott. TRICOMI Laura – Consigliere –

Dott. ESPOSITO Antonio Francesco – Consigliere –

Dott. IANNELLO Emilio – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 22059/2010 R.G. proposto da:

M.S., rappresentato e difeso dall’Avv. Gabriele

Cantaro, con domicilio eletto in Roma, via Augusto Aubry, n. 2 int.

23, presso lo studio dell’Avv. Felice Cantaro;

– ricorrente –

contro

Agenzia delle entrate, rappresentata e difesa dall’Avvocatura

Generale dello Stato, con domicilio eletto in Roma, via dei

Portoghesi, n. 12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della

Sicilia, sezione staccata di Caltanissetta, n. 132/21/09 depositata

il 15 giugno 2009;

Udita la relazione svolta nella pubblica udienza dell’8 febbraio 2017

dal Consigliere Emilio Iannello;

udito l’Avvocato dello Stato Fabrizio Urbani Neri;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore

generale FUZIO Riccardo, che ha concluso chiedendo il rigetto.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Con sentenza depositata in data 15/6/2009 la C.T.R. della Sicilia, sezione staccata di Caltanissetta, rigettava l’appello proposto da M.S. ritenendo legittimo l’avviso di accertamento con cui l’Ufficio delle entrate di Enna, a seguito di verifica, aveva rettificato il reddito d’impresa ai fini Irpef, Irap e Iva, per l’anno d’imposta 2002, sulla base di rimanenze finali e provvigioni percepite e non dichiarate.

Avverso tale decisione propone ricorso per cassazione il contribuente sulla base di quattro motivi, cui resiste l’Agenzia delle entrate depositando controricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo di ricorso il contribuente deduce violazione della L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 7 in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere la C.T.R. rigettato la riproposta eccezione di nullità dell’atto impositivo perchè motivato per relationem con acritico rinvio al p.v.c. redatto dai funzionari verificatori, peraltro con riferimento ad altro anno d’imposta, e senza farne allegazione.

2. Con il secondo motivo il ricorrente denuncia “omessa o insufficiente motivazione su un punto decisivo della controversia”, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per avere la Commissione regionale omesso di esaminare la doglianza da esso formulata nell’atto d’appello in merito alla interpretazione e applicazione da parte del giudice di primo grado del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 59.

3. Con il terzo motivo il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione di detta ultima disposizione, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere la C.T.R. ritenuto legittima la ricostruzione delle rimanenze finali relative all’anno 2002, operata dall’ufficio attraverso una semplice operazione di equivalenza con le esistenze iniziali del 2003, senza rispettare i criteri dettati dalla norma citata e senza considerare i maggiori costi corrispondenti ai presunti maggiori ricavi.

4. Con il quarto motivo il ricorrente deduce infine violazione e falsa applicazione dell’art. 109, comma 1 t.u.i.r. (recte art. 75 t.u.i.r. nel testo previgente, applicabile ratione temporis) in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (sic), per avere la Commissione regionale ritenuto legittimo l’accertamento anche nella parte in cui è fondato su maggiori provvigioni percepite, desunte dalle dichiarazioni dei sostituti d’imposta, in mancanza di alcuna verifica che tali compensi andassero in realtà imputati, secondo il principio di competenza, ad esercizio diverso da quello di pagamento.

5. Il primo motivo è inammissibile.

Infatti la doglianza, pur prospettata come violazione di norme di diritto, si risolve in una censura di merito all’accertamento di fatto compiuto dalla Commissione tributaria regionale, senza la deduzione di specifici vizi di motivazione. Inoltre il quesito di diritto che illustra la censura, formulato ai sensi dell’art. 366-bis c.p.c.(applicabile alla fattispecie ratione temporis, in quanto la sentenza impugnata è stata pubblicata il 15 giugno 2009), si risolve nell’interpello della Corte in ordine alla fondatezza della censura così come illustrata dalla ricorrente, ma non contiene la sintetica indicazione della regola di diritto applicata dal giudice di merito e della diversa regola di diritto che, ad avviso della ricorrente stessa, si sarebbe dovuta applicare al caso di specie (v. ex aliis Cass. Sez. U. 05/02/2008, n. 2658; Cass. 17/07/2008, n. 19769; Cass. 30/09/2008, n. 4339).

La censura si appalesa comunque anche infondata.

Secondo pacifico indirizzo, infatti, non ricorre la violazione delle norme invocate ove copia del p.v.c., richiamato dall’avviso di accertamento, sia stata sottoscritta e consegnata al rappresentante legale della società contribuente (come nella specie è pacifico sia avvenuto) (v. ex multis Cass. 14/01/2015, n. 407; Cass. 02/07/2008, n. 18073).

Nè la denunciata violazione può discendere dal fatto che l’avviso di accertamento non si faccia carico di esplicitare le ragioni per cui l’Ufficio ritiene di aderire ai rilievi dei verificatori, posto che tali ragioni si ricavano già per l’appunto dall’atto richiamato e l’adesione è di per sè sufficiente a soddisfare lo scopo della norma, che è quello di rendere intellegibili al contribuente le ragioni in fatto e in diritto dell’atto impositivo o sanzionatorio.

6. E’ inammissibile anche il secondo motivo, non potendo configurarsi vizio di motivazione in relazione a questioni di mero diritto, quale quella di cui il ricorrente lamenta l’omessa valutazione da parte del giudice del merito. Ciò in quanto, come noto, il giudice di legittimità è investito, a norma dell’art. 384 c.p.c., del potere di integrare e correggere la motivazione della sentenza impugnata, con la conseguenza che, se chiamato a valutare la conformità a diritto della decisione impugnata, la sua valutazione ben può prescindere dalla motivazione che, in punto di diritto, sia contenuta nella sentenza impugnata, restando del tutto irrilevante anche l’eventuale mancanza di questa, quando il giudice del merito sia, comunque, pervenuto ad una esatta soluzione del problema giuridico sottoposto al suo esame (Cass. 17/11/1999, n. 12753).

7. Ciò è quanto è avvenuto nella fattispecie, appalesandosi infondata anche la censura di violazione di legge dedotta con il terzo motivo.

Deve, infatti, ritenersi corretta l’equiparazione tra esistenze iniziali dell’esercizio successivo e rimanenze finali di quello cui si riferisce la pretesa impositiva, trattandosi di equivalenza posta direttamente dalla legge (art. 59, comma 6 t.u.i.r., nel testo – applicabile alla fattispecie ratione temporis – anteriore alla riforma del 2004), in virtù della quale del tutto legittimamente può dalle prime (esistenze iniziali di un dato anno) risalirsi alle seconde (rimanenze finali dell’anno precedente), restando conseguentemente assorbita e del tutto ininfluente la verifica del rispetto dei criteri dettati per il calcolo delle rimanenze finali; questa, infatti, avrebbe potuto assumere rilievo solo ove fosse mancato il primo dato certo (esistenze iniziali), nel caso di specie peraltro ricavato dalla contabilità dello stesso contribuente.

Correttamente la C.T.R. ha altresì escluso la sussistenza di costi deducibili “proporzionalmente correlabili ai maggiori ricavi accertati”, per non averne il ricorrente “fatta e/o richiesta” alcuna specificazione.

Occorre al riguardo rammentare che la norma di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d), legittima la presunzione, da parte dell’amministrazione finanziaria, di un reddito maggiore di quello dichiarato dal contribuente sulla base di elementi indiziari dotati dei caratteri della gravità, precisione e concordanza richiesti dall’art. 2729 c.c.. In presenza di tale presupposto la norma non impone altro onere all’amministrazione ma piuttosto faculta (e onera) il contribuente a offrire la prova contraria, in particolare, quella dell’esistenza di costi ed oneri deducibili concorrenti alla determinazione del reddito d’impresa, ivi compresa la loro inerenza e la loro diretta imputazione ad attività produttive di ricavi. Inoltre, poichè nei poteri dell’amministrazione finanziaria in sede di accertamento rientra la valutazione della congruità dei costi e dei ricavi esposti nel bilancio e nelle dichiarazioni, con negazione della deducibilità di parte di un costo sproporzionato ai ricavi o all’oggetto dell’impresa, l’onere della prova dell’inerenza dei costi, gravante sul contribuente, ha ad oggetto anche la congruità dei medesimi (v. Cass. 25/02/2010, n. 4554; Cass. 30/07/2002, n. 11240).

8. E’ infine inammissibile il quarto motivo di ricorso.

La censura invero – oltre ad essere corredata da quesito di diritto inadeguato in quanto formulato in maniera del tutto generica attraverso la proposizione di un astratto quesito giuridico, con il quale, piuttosto che individuarsi la diversa o incompatibile regula iuris che sarebbe stata applicata in sentenza e l’errore in cui pertanto essa sarebbe incorsa, si muove una censura direttamente nei confronti dell’avviso di accertamento – è formulata in termini generici e meramente ipotetici, non essendo nemmeno dal ricorrente precisamente indicato a quale esercizio, e per quali ragioni, avrebbero dovuto essere diversamente imputate le provvigioni di che trattasi secondo il criterio di competenza.

Varrà, comunque, rammentare al riguardo che, secondo principio consolidato nella giurisprudenza di questa Corte, spetta al contribuente, in relazione al principio di vicinanza della prova, allegare e dimostrare gli elementi che debbono in ipotesi condurre, secondo il principio di competenza, ad una imputazione delle componenti positive negative di reddito diversa da quella operata dall’ufficio (cfr. Cass. 30/07/2014, n. 17298; Cass. 16/09/2011, n. 18930; Cass. 24/06/2011, n. 13943).

9. Deve pertanto pervenirsi al rigetto del ricorso, con la conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, liquidate come da dispositivo.

PQM

rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 2.800 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.

Così deciso in Roma, il 8 febbraio 2017.

Depositato in Cancelleria il 26 aprile 2017

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