Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 10265 del 12/05/2014


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Civile Sent. Sez. 6 Num. 10265 Anno 2014
Presidente: PETITTI STEFANO
Relatore: PETITTI STEFANO

equa riparazione

SENTENZA

sentenza

CO!!

motivazione

semplif icata

sul ricorso proposto da:
STARÀ avv. Salvatore (STR SVT 41E14 1851R), rappresentato
e difeso da se medesimo ai sensi dell’art. 86 cod. proc.
civ., elettivamente domiciliato in Roma, via Duilio n. 22,
presso l’Agenzia Omnia Service s.r.1.;
ricorrente

contro
MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, in persona del Ministro

pro

tempore, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale
dello Stato, presso i cui uffici in Roma, via dei
Portoghesi n. 12, è domiciliato per legge;
– resistente –

Data pubblicazione: 12/05/2014

avverso il decreto della Corte d’appello di Roma
depositato in data 15 febbraio 2012.
Udita

la relazione della causa svolta nella pubblica

udienza del 18 marzo 2014 dal Presidente relatore Dott.

sentito l’Avvocato Salvatore Stara.
Ritenuto

che, con ricorso in riassunzione, depositato

in data 29 gennaio 2007 presso la Corte d’appello di Roma
alla quale il giudizio di equa riparazione,
originariamente introdotto davanti la Corte d’appello di
Cagliari, era stato rimesso per competenza, Stara
Salvatore chiedeva la condanna del Ministero della
giustizia al pagamento dei danni non patrimoniali
derivanti dalla irragionevole durata di un procedimento
penale da lui iniziato con denuncia nel 1998, e conclusosi
con sentenza della Corte di Cassazione penale nel 2005;
che l’adita Corte d’appello accoglieva l’eccezione di
decadenza sollevata in via preliminare
dall’amministrazione resistente, rilevando che la sentenza
conclusiva del procedimento era stata emessa in data 6
aprile 2005, mentre la domanda di riparazione era stata
proposta in data 3 marzo 2006, dunque oltre il termine
perentorio di sei mesi di cui all’art. 4 della legge n. 89
del 2001;

Stefano Petitti;

che per la cassazione di questo decreto Stara
Salvatore ha proposto ricorso sulla base di un unico
motivo;
che

l’intimato

Ministero

ha

resistito

con

Considerato

che il Collegio ha deliberato l’adozione

della motivazione semplificata nella redazione della
sentenza;
che non è di ostacolo alla trattazione del
procedimento la mancata presenza del Pubblico Ministero,
atteso che in tema di intervento del P.M. nel giudizio
civile di cassazione, per effetto delle modifiche
introdotte dagli artt. 75 e 81 del d.l. 21 giugno 2013, n.
69, conv. in legge 9 agosto 2013, n. 98, la partecipazione
del P.M. alle udienze che si tengono presso la sesta
sezione non è più obbligatoria, impregiudicata la facoltà
del P.M. di intervenirvi, ai sensi dell’art. 70, terzo
comma, cod. proc. civ., ove ravvisi un pubblico interesse
(Cass. del 20 gennaio 2014, n. 1089).
che con l’unico motivo di ricorso il ricorrente
denuncia: a) violazione e falsa applicazione dell’art. 112
cod. proc. civ., avendo la Corte territoriale ignorato
quanto dedotto dal ricorrente nella memoria difensiva alla
Corte d’appello di Roma; b) violazione e falsa
applicazione dell’art. 4 della legge n. 89 del 2001 e

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controricorso;

dell’art. 615, n. 3, cod. proc. pen., atteso che, essendo
stata la sentenza adottata in seguito a camera di
consiglio non partecipata, la mancata pubblicazione e,
dunque, la mancata effettiva conoscenza, escludevano la

citata; c) carenza, insufficienza e contraddittorietà
della motivazione, non essendo stata la sentenza del 2005
pronunciata in pubblica udienza come invece affermato nel
provvedimento della Corte d’appello romana;
che il ricorso

è

infondato, anche se

la

motivazione del decreto impugnato, condivisibile nella
statuizione di rigetto della domanda, deve essere
corretta;
che, infatti, pur se deve riconoscersi che le
deduzioni del ricorrente in ordine alla erroneità del
decreto impugnato quanto all’affermata decadenza, atteso
che la sentenza che ha definito il giudizio è stata emessa
non all’esito di pubblica udienza, ma di camera di
consiglio non partecipata, sicché non trovando
applicazione il principio per cui il termine di decadenza
di cui all’art. 4 della legge n. 89 del 2001 decorre, in
caso di procedimento penale, dalla data di lettura del
dispositivo in pubblica udienza (Cass. n. 14725 del 2013),
il ricorso introduttivo del presente giudizio non avrebbe

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decorrenza del termine di cui all’art. 4 della legge

potuto essere dichiarato inammissibile per tardività,
all’accoglimento del ricorso osta un ulteriore rilievo;
che invero, dalla stessa prospettazione del
ricorrente, emerge che il giudizio penale conclusosi con

esposti con i quali egli aveva denunciato vari magistrati
del Consiglio di giustizia amministrativa della Regione
siciliana;
che, tuttavia, nel procedimento penale scaturito dai
detti esposti, il ricorrente non ha mai assunto la qualità
di parte, costituendosi parte civile;
che, come affermato da questa Corte, «in tema di equa
riparazione ai sensi della legge 24 marzo 2001, n. 89, per
la persona offesa dal reato in quanto tale e per il
querelante, che non si siano costituiti parte civile, il
procedimento penale non può essere definito come una
“propria causa”; ad essi, pertanto, non può essere
direttamente e personalmente riconosciuto il diritto alla
ragionevole durata del processo, di cui all’art. 6,
paragrafo l, della Convenzione per la salvaguardia dei
diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ai fini
dell’equa riparazione prevista dalla citata legge n. 89
del 2001. Ne deriva che la persona offesa dal reato, che
al fine di conseguire il risarcimento del danno si sia
costituita parte civile nel processo penale instaurato dal

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la citata sentenza di questa Corte è scaturito da due

P.M. contro l’autore di detto reato, ha diritto alla
ragionevole durata del processo, con le connesse
conseguenze indennitarie in caso di violazione, soltanto a
partire dal momento della costituzione di parte civile,

persona offesa dal reato abbia, comunque, dovuto attendere
lo sviluppo del procedimento per potersi costituire parte
civile» (Cass. n. 19032 del 2005; Cass. n. 10303 del 2010;
Cass. n. 5294 del 2012; nello stesso senso, v. anche Cass.
n. 13889 del 2003; Cass. n. 11480 del 2003; Cass. n. 4138
del 2003; Cass. n. 1405 del 2003; Cass. n. 996 del 2003);
che il Collegio condivide tale principio, al quale
intende dare continuità, rilevando che le argomentazioni
svolte dal ricorrente in sede di discussione in udienza
pubblica non appaiono idonee ad indurre ad una diversa
conclusione;
che, invero, come questa Corte ha già avuto modo di
chiarire si dal 2003 (v. segnatamente, Cass. n. 13389 del
2003), l’esercizio dell’azione civile in sede penale,
realizzato mediante lo strumento della costituzione di
parte civile, benché consenta di far confluire detta
azione nell’ambito del processo penale, tuttavia non
implica l’incorporazione della causa civile in quella
penale e non travolge la differenza che esiste tra le
parti dell’una e dell’altra causa;

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senza che possa darsi alcun rilievo al fatto che essa

che la causa penale concerne unicamente la pretesa
punitiva dello Stato nei confronti di chi si assume essere
autore di un fatto costituente reato, mentre quella civile
ha per oggetto il diritto del privato al risarcimento del

che tale distinzione è rilevante, ai fini dell’equa
riparazione prevista dalla legge n. 89 del 2001, perché il
diritto ad essere indennizzato per la irragionevole durata
di un giudizio compete a chi di quel giudizio possa
considerarsi parte: cioè a chi, essendo titolare di una
posizione giuridica su cui la decisione giurisdizionale è
direttamente destinata ad incidere, ha un interesse
giuridicamente qualificato (non indiretto, o solo di mero
fatto) ad ottenere tale decisione in tempi ragionevoli;
che, dunque, la persona offesa dal reato, quand’anche
abbia svolto il ruolo di querelante, non può dirsi parte
del giudizio penale; e che, viceversa, tale qualità
compete al danneggiato che si sia costituito parte civile
in relazione alla causa per risarcimento di danni che in
tal modo si è innestata nel tronco del processo penale;
che, invero, alla questione se alla persona offesa,
solo in quanto tale, possa essere riconosciuta la veste di
parte nel processo penale, nelle citate pronunce di questa
Corte si è data risposta negativa;

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danno eventualmente cagionatogli da quel medesimo reato;

che se è vero che diverse disposizioni del codice di
procedura penale attribuiscono alla persona offesa anche
un ruolo attivo nel processo penale, al punto che si è
parlato di un’accusa privata, in posizione accessoria a

di sollecitazione e controllo sull’operato di
quest’ultima, tuttavia resta il fatto che il processo
penale, di per sé, non è volto ad accertare nessuna
posizione di diritto o di soggezione facente capo alla
persona offesa, la quale non può dunque essere assimilata
ad una delle parti private di cui si occupano altre
disposizioni del medesimo codice;
che, infatti, il processo penale è pur sempre
finalizzato unicamente all’esercizio dell’azione penale,
di cui è solo titolare il pubblico ministero, onde i
poteri e le facoltà che sono autonomamente riconosciuti
alla persona offesa sin dalle indagini preliminari si
risolvono in una mera anticipazione di quanto ad essa
spetterà una volta che, ricorrendone le condizioni, ella
abbia eventualmente formalizzato la costituzione di parte
civile;
che le garanzie apprestate in favore della persona
offesa nella fase delle indagini preliminari come
espressamente riconosciuto anche da Corte cost. 28
dicembre 1990, n. 559 – sono cioè caratterizzate da un

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quella pubblica e, per certi aspetti, con funzioni anche

rapporto di complementarietà con quelle che le
spetteranno, se, essendo anche danneggiata dal reato, essa
si costituirà poi parte civile per far valere nell’ambito
del processo penale la sola specifica pretesa da lei

che, in altre parole, con terminologia più vicina a
quella adoperata dal paragrafo l dell’art. 6 della
Convenzione europea, per la persona offesa, in quanto
tale, il procedimento penale non può essere definito come
una “propria causa”, in relazione alla quale le possa
perciò essere direttamente e personalmente riconosciuto il
diritto alla ragionevole durata di tale causa;
che

la persona offesa è,

sì,

il

titolare

dell’interesse tutelato dalla norma penale violata, ma la
causa penale ha pur sempre unicamente ad oggetto
l’accertamento della fondatezza della pretesa punitiva
dello Stato, e non di una situazione giuridica che a detta
persona offesa faccia capo, attivamente o passivamente,
fin quando essa non si sia eventualmente costituita in
quel processo parte civile, introducendo così una diversa
ed ulteriore azione che allora diviene ma quella
soltanto – la “sua causa”;
che la persona offesa da un reato, che al fine di
conseguire il risarcimento del danno si sia costituita
parte civile nel processo penale instaurato dal pubblico

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azionabile dinanzi al giudice;

ministero contro l’autore di detto reato, ha dunque
certamente diritto alla ragionevole durata del processo, a
partire dal momento della costituzione di parte civile;
essa non ha però un autonomo diritto a che il reo sia

della decisione di assoluzione o di condanna dell’imputato
in sé sola considerata; ha diritto unicamente alla solerte
pronuncia che lo stesso giudice penale è chiamato ad
emettere sulla pretesa risarcitoria che ha azionato in
quel processo nella veste di parte civile;
che in ciò non è ravvisabile alcun sospetto di
illegittimità costituzionale per disparità di trattamento
– che non sia conseguente alla libera scelta della stessa
parte di adoperare l’uno o l’altro possibile strumento
processuale – nei riguardi del danneggiato che intenda
invece far valere la propria pretesa risarcitoria
direttamente in sede civile, il quale, nei medesimi
termini, ha diritto alla ragionevole durata del giudizio
del quale è parte; né è possibile ravvisare una violazione
dell’art. 24 Cost., non risultando in alcun modo compresso
il diritto della persona offesa di costituirsi, quando
possibile, parte civile nel procedimento penale scaturito
dalla sua iniziativa; né, infine, è ravvisabile una
violazione dell’art. 6, paragrafo l, della Convenzione
europea, poiché,

comoNchiarito,

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il procedimento penale

sottoposto a pena e neppure, dunque, alla tempestività

diventa la causa propria anche della persona offesa solo
dal momento in cui la stessa faccia valere in sede penale
il diritto al risarcimento dei danni subiti per effetto
della commissione del reato oggetto della denuncia;

quale ha dichiarato inammissibile la domanda di equa
riparazione proposta dall’odierno ricorrente, deve essere
corretta nei sensi ora indicati, non essendo riconoscibile
l’equa riparazione per la irragionevole durata del
procedimento penale alla persona offesa che non si sia
costituita parte civile nel medesimo procedimento;
che il ricorso deve quindi essere rigettato;
che, in applicazione del principio della soccombenza,
il ricorrente deve essere condannato al pagamento delle
spese del giudizio di legittimità, come liquidate in
dispositivo.
PER QUESTI MOTIVI
La Corte rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al
pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che
liquida in euro 292,50 per compensi, oltre alle spese
prenotate a debito.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della
Sesta sezione civile – 2 della Corte suprema di
cassazione, il 18 marzo 2014.

che, dunque, la motivazione del decreto impugnato, il

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