Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 10259 del 20/05/2015


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Civile Sent. Sez. 3 Num. 10259 Anno 2015
Presidente: RUSSO LIBERTINO ALBERTO
Relatore: CARLEO GIOVANNI

SENTENZA

sul ricorso 29385-2011 proposto da:
VASTA

UGO

VSTGU039P25F004X,

GRASSO

ELVIRA

GRSLRV40H53D622P, elettivamente domiciliati in ROMA,
V.LE DELLE MILIZIE 34, presso lo studio dell’avvocato
ROCCO AGOSTINO, rappresentati e difesi dall’avvocato
GIOVANNI FRAGALA’ giusta procura speciale a margine

e
2015

del ricorso;
– ricorrenti –

370

contro

CREDITO SICILIANO SPA , facente parte del GRUPPO
BANCARIO CREDITO VALTELLINESE, in persona del dott.

1

Data pubblicazione: 20/05/2015

LEONARDO D’ANGELO, elettivamente domiciliato in ROMA,
VIA DELLA BALDUINA 7, presso lo studio dell’avvocato
CONCETTA TROVATO, rappresentato e difeso
dall’avvocato GIUSEPPE TESTA giusta procura speciale
a margine del controricorso;

avverso la sentenza n. 1195/2011 della CORTE
D’APPELLO di CATANIA, depositata il 27/09/2011,
R.G.N. 1209/2009;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica
udienza del 11/02/2015 dal Consigliere Dott. GIOVANNI
CARLEO;
udito l’Avvocato CONCETTA TROVATO per delega;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. CARMELO SGROI che ha concluso per
l’improcedibilità del ricorso, in subordine per il
rigetto;

2

– controricorrente

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con atto di citazione ritualmente notificato Vasta Ugo e Grasso
Elvira proponevano opposizione al decreto ingiuntivo, emesso su
istanza della Banca Popolare S. Venera (successivamente Credito
Siciliano s.p.a.) con cui era stato loro ordinato, quali

262.322.065 per rate di un mutuo ipotecario di L. 400.000.000
stipulato dalla Vasta. Deducevano la falsità della fideiussione
omnibus, che era stata sottoscritta in bianco al fine di
garantire gli affidamenti bancari e le linee di credito della
Fininvest Service s.r.1., di cui il Vasta era amministratore, e
nell’udienza del 16.01.2006 proponevano querela di falso in
ordine alla fideiussione suddetta, lamentando l’abusivo
riempimento da parte della banca opposta relativamente alla
indicazione del debitore principale che risultava essere Vasta
Dora (e non già la Fininvest Service s.r.1.) ed alla somma
garantita di L. 600.000.000. Avendo la banca opposta dichiarato
di volersi avvalere del documento in questione, veniva
autorizzata la presentazione della querela; quindi la causa
veniva rimessa al Tribunale di Catania, che dichiarava
l’improponibilità della querela di falso presentata da Vasta Ugo
e Grasso Elvira in quanto l’abusivo riempimento era avvenuto
contra pacta,

e compensava altresì le spese di lite. Avverso la

suindicata decisione, il Vasta e la Grasso proponevano appello,
deducendo che erroneamente il primo giudice aveva ritenuto la
improponibilità della querela di falso, poiché l’abusivo

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J/11

fideiussori di Vasta Dora, il pagamento della somma di L.

riempimento lamentato era qualificabile

sine pactis

e non

contra pacta, come invece era stato affermato dal Tribunale di
Catania. Chiedevano che, in riforma della sentenza impugnata,
venisse dichiarata la proponibilità della querela di falso e
ammessi i mezzi di prova formulati in primo grado e riproposti

l’appellata, la Corte di Appello di Catania con sentenza
depositata in data 27 settembre 2011 rigettava l’impugnazione e
provvedeva al governo delle spese. Avverso la detta sentenza i
soccombenti hanno proposto ricorso per cassazione articolato in
cinque motivi. Resiste il Credito Siciliano con controricorso,
illustrato da memoria.
MOTIVI DELLA DECISIONE

Prima di procedere all’esame delle ragioni di doglianza proposte
dai ricorrenti, mette conto di richiamare l’attenzione sulla
considerazione, secondo cui “nel giudizio di cassazione, qualora
risulti – in forza di eccezione sollevata dal controricorrente,
ovvero in base alle emergenze del diretto esame delle produzioni
delle parti o del fascicolo d’ufficio – che la sentenza
impugnata è stata notificata al ricorrente (ai fini del decorso
del termine breve per l’impugnazione di cui all’art. 325,
secondo comma, cod. proc. civ.), la Suprema Corte deve
preliminarmente accertare se costui abbia ottemperato all’onere,
previsto dall’art. 369, secondo comma, numero 2), cod. proc.
civ., di depositare la copia autentica della sentenza impugnata
e la relativa relata di notificazione entro il termine fissato

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in grado di appello. In esito al giudizio, in cui si costituiva

dal primo comma del medesimo art. 369 cod. proc. civ., verifica
cui essa è tenuta indipendentemente dal riscontro
dell’osservanza del termine per proporre impugnazione, atteso
che l’accertamento di una eventuale causa di improcedibilità del
ricorso, quale quella indicata, precede l’accertamento relativo

(Cass. n. 6706/2013, Sez.Un. n.9005/2009)
La premessa torna utile perché, nel caso di specie, ad onta
della notificazione della sentenza impugnata circostanza,
avvenuta in data 17 ottobre 2011, così come riconosciuto in
ricorso dai due ricorrenti – non risulta depositata la copia
autentica della sentenza con la relazione di notifica,
risultando invece allegate varie copie prive di relata. Ne
consegue che, indipendentemente dal riscontro della tempestività
o meno dell’esercizio del diritto di impugnazione rispetto al
termine breve decorrente da quella notificazione, questa Corte
deve rilevare che la parte ricorrente non ha ottemperato
all’onere, previsto dall’art. 369, secondo comma, numero 2),
cod. proc. civ., di deposito della copia notificata della

alla sussistenza di una causa di inammissibilità dello stesso”

sentenza e deve quindi dichiarare la improcedibilità del
ricorso.
Ad ogni modo, ove anche si fosse voluto prescindere dal rilievo
di improcedibilità, va osservato che le ragioni di censura,
avanzate dai ricorrenti, non meritavano comunque accoglimento.
Ed invero, quanto alla prima doglianza, svolta per violazione e
falsa applicazione degli artt.2702 cc e 221 cpc, con cui i

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/Ì/

ricorrenti hanno lamentato che

la Corte di Appello avrebbe

obliterato l’insegnamento giurisprudenziale secondo cui si
traduce in un’ipotesi di riempimento

sine pactis_rutilizzazione

abnorme del foglio firmato in bianco, quale quella verificatasi
nella specie, avvenuta per operazione altra e diversa da quella

conto di evidenziare che la censura appariva comunque
infondata. Invero, la denunzia dell’abusivo riempimento di un
foglio firmato in bianco, con sottoscrizione riconosciuta,
postula la proposizione del rimedio della querela di falso
soltanto quando il riempimento risulti avvenuto
sine pactis,

absque pactis o

ossia in assenza di autorizzazione, atteso che

soltanto in tale ipotesi si denunzia una falsità materiale che
concerne il collegamento tra dichiarazione e sottoscrizione, a
differenza di quanto accade nell’ipotesi del riempimento
pacta,

contra

in cui si verifica una mancata corrispondenza tra ciò che

risulta dichiarato e ciò che si voleva dichiarare, quale esito
di una disfunzione del processo di formazione della
dichiarazione. Pertanto, come ha già avuto modo di statuire
questa Corte, nel caso di sottoscrizione di documento in bianco,
colui che contesta il contenuto della scrittura è tenuto a
proporre la querela di falso soltanto se assume che il
riempimento sia avvenuto “absque pactis”, in quanto in tale
ipotesi il documento esce dalla sfera di controllo del
sottoscrittore completo e definitivo, sicché l’interpolazione
del testo investe il modo di essere oggettivo dell’atto, tanto

che aveva dato origine all’emissione del bianco segno, mette

da realizzare una vera e propria falsità materiale, che esclude
la provenienza del documento dal sottoscrittore; qualora,
invece, il sottoscrittore, che si riconosce come tale, si dolga
del riempimento della scrittura in modo difforme da quanto
pattuito, egli ha l’onere di provare la sua eccezione di abusivo

mandato “ad scribendum” in ragione della non corrispondenza tra
il dichiarato e ciò che si intendeva dichiarare, giacché
attraverso il patto di riempimento il sottoscrittore medesimo fa
preventivamente proprio il risultato espressivo prodotto dalla
formula che sarà adottata dal riempitore. (Cass.n.18898/2010).
Tutto ciò premesso, vale la pena di sottolineare che, come ha
già evidenziato la Corte di merito sulla base della
documentazione in atti, la prospettazione originaria dell’atto
di opposizione a d.i. proposta dagli appellanti, ribadita in
seno alla querela di falso, era nel senso che la fideiussione in
questione era stata sottoscritta in bianco dal Vasta e dalla
Grasso al fine di garantire gli affidamenti bancari e le linee
di credito concessi dalla Banca alla Fininvest Service. Con la
conseguenza che nessun dubbio era consentito in ordine al fatto
che il riempimento successivo effettuato, volto a garantire le
obbligazioni di Vasta Dora in ragione del contratto di mutuo
stipulato con il Credito Siciliano, avvenne

contra pacta e non

sine pactis.

Quanto alla seconda doglianza, articolata sotto il profilo della
violazione e/o falsa applicazione degli artt.2702 cc, 221 cpc, /4\

7

riempimento “contra pacta” e, quindi, di inadempimento del

con cui i ricorrenti hanno denunciato che la pronuncia sarebbe
erronea in quanto l’impossibilità di avere accesso alla querela
di falso comporterebbe un evidente

vulnus

al diritto ad una

piena tutela giurisdizionale, va osservato che tale censura era
inammissibile.

secondo cui la deduzione di una erronea ricognizione, da parte
del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata
da una norma di legge deve investire il contenuto della
decisione in sé, indicando in maniera specifica l’errore
commesso dal giudice del merito e le ragioni di tale errore. Ed
all’uopo, il ricorrente ha l’onere di specificare il o i
singoli passaggi

dell’iter motivazionale dal quale emergerebbe

l’errore di applicazione della norma, di cui si denuncia la
violazione.
Al contrario, al fine suddetto, nessun rilievo può essere
attribuito ai meri effetti derivanti dalla decisione, che si
viene ad impugnare, sul piano dei mezzi e dei contenuti
apprestati dall’ordinamento giuridico per la tutela del diritto
che risulterebbe essere stato leso.
Ne discendeva quindi l’inammissibilità della doglianza, non
potendosi prendere in considerazione il motivo di ricorso che
sia per nulla riferibile all’intrinseco contenuto della
decisione, in sé e per sé.
Parimenti inammissibili, sia pure per ragioni diverse, erano le
successive censure. Quanto alla terza, svolta per violazione

8

A

L’inammissibilità derivava infatti inammissibile dal rilievo

dell’art.345 cpc, va rilevato che, ad avviso dei ricorrenti, la
Corte territoriale avrebbe sbagliato nel ritenere nuova, e
quindi inammissibile in appello, la deduzione della violazione,
da parte della banca, del patto di custodia fiduciaria del
foglio firmato in bianco in quanto le doglianze in ordine

biancosegno detenuto ad altro titolo e ad altri fini, erano
state sollevate sin dall’inizio del giudizio ed i fatti allegati
erano stati delineati sin dal primo atto difensivo.
La censura era inammissibile, alla luce delle stesse ammissioni
dei ricorrenti i quali riconoscono in ricorso che le
affermazioni della Corte

circa la novità della deduzione

relativa alla violazione, da parte della banca, del patto di
custodia fiduciaria del foglio firmato in bianco – ” non si sono
tradotte, per vero, in seno al dispositivo di sentenza, in
alcuna declaratoria di inammissibilità di nessuno degli
articolati motivi di appello” (pagg.12 e 13 del ricorso).
Ora, ciascun motivo di doglianza deve contrapporsi direttamente
ad una statuizione

di accoglimento o di rigetto e deve

investire uno specifico capo della decisione

mentre non è

idoneo a svolgere la sua specifica funzione ove si limiti a
contrapporsi a mere argomentazioni svolte dal giudice del
merito. Ne derivava pertanto l’inammissibilità della censura in
quanto priva di specifica attinenza al “decisum” della sentenza
impugnata. Ed invero, l’eccentricità di un motivo di doglianza
rispetto alle ragioni della decisione si traduce in ragione di

9

all’abusivo utilizzo, da parte dell’istituto di credito, di un

inammissibilità dello stesso.
Era parimenti inammissibile la quarta doglianza, svolta per
violazione dell’art.356 cpc, con cui è stato dedotto che la
Corte avrebbe errato nel non ammettere i mezzi istruttori, la
cui richiesta era stata articolata nell’atto di appello.

orientamento di questa Corte, il ricorso per cassazione – in
ragione del principio di cosiddetta “autosufficienza” – deve
contenere in se’ tutti gli elementi necessari a costituire le
ragioni per cui si chiede la cassazione della sentenza di
merito. Pertanto, il ricorrente per cassazione, il quale lamenti
la mancata ammissione di una prova orale, ha l’onere di indicare
in modo adeguato e specifico la prova non ammessa dal giudice,
riportando i capitoli della prova per testi non ammessi, dato
che, per il citato principio dell’autosufficienza del ricorso
per cassazione, il controllo deve essere consentito alla Corte
sulla base delle sole deduzioni contenute nell’atto, alle cui
lacune non e’ possibile sopperire con indagini integrative.
Quanto all’ultima censura per violazione dell’art.91 cpc, con
cui i ricorrenti hanno censurato il capo della pronuncia sulle
spese in ragione dell’erroneità della decisione sul merito
dell’appello, la doglianza era inammissibile in quanto, come
riconosciuto dagli stessi ricorrenti, non era volta a censurare
il capo della decisione sulle spese, in sé e per sé, ma in
quanto condanna consequenziale ed accessoria alla pretesa
erroneità della decisione sul merito della causa. Ed è appena il

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A riguardo, va osservato che, secondo il consolidato

caso di osservare che il motivo di doglianza deve investire il
capo della decisione in sè, contrapponendosi in maniera
specifica ad esso ed evidenziando i

singola statuizione censurata, vizi propri di essa che non siano
il generico riflesso della decisione impugnata nel suo
complesso. Ne derivava l’inammissibilità anche dell’ultima
doglianza.
Alla stregua di tutte le pregresse considerazioni, le doglianze
avanzate dai ricorrenti,
avrebbero, in definitiva,

ove esaminate nel merito, non
potuto portare all’accoglimento del

ricorso.
Ad ogni modo, considerato che il rilievo di improcedibilità del
ricorso appare logicamente e giuridicamente assorbente sul piano
decisionale, ne deriva che il ricorso in esame va dichiarato
improcedibile. Segue la condanna del ricorrente alla rifusione
delle spese di questo giudizio di legittimità, liquidate come in
dispositivo.
P.Q.M.

La Corte dichiara improcedibile il ricorso. Condanna i
ricorrenti in solido al pagamento delle spese del giudizio di
legittimità che liquida in complessivi E 6.200,00 di cui C
6.000,00 per compensi, oltre accessori di legge e spese
generali, ed C 200,00 per esborsi.
Così deciso in Roma in camera di Consiglio in data 11.2.2015

.

vizi intrinseci alla

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