Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 10253 del 18/05/2016


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Civile Sent. Sez. L Num. 10253 Anno 2016
Presidente: NOBILE VITTORIO
Relatore: MANNA ANTONIO

SENTENZA

sul ricorso 11039-2012 proposto da:
BERGO ANNA C.E. BRCNNA52T59H573Y, CANAZZA MARILENA
C.F.

CNZMLN55A611-1620Z,

950

LUISELLA

GRNLLL68S65C967W,

BONVENTO

BARBARA

UNVEW74P4SDU5T,

EONIOLG

MARZIA

BNLMRZ4V,59A906V, tuULi
2016

GRANDI

domiciliati

in ROMA,

C.E.
C.E.

FIAZZA

CAVOUR, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI
CASSAZIONE, rappresentati e difesi dall’avvocato
NICOLA ZAMP1ERA, giusta delega in atti;
– ricorrenti contro

Data pubblicazione: 18/05/2016

MINISTERO DELL’ ISTRUZIONE, DELL’ UNIVERSITA’ E DELLA
• a NRICERCA C.F. 8018520595, in persona del Ministro pro
empore, domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12,
presso AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo
rappresenta e difendo ape legis;

avverso la sentenza n. 691/2011 della CORTE D’APPELLO
di VENEZIA, depositaLa il 05/12/2011 r.g.n. 450/2005;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica
udienza del 03/03/2016 dal Consigliere Dott. ANTONIO
MANNA;
udito l’Avvocato ZAMPIERI NICOLA;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. PAOLA MASTROBERARDINC, che ha concluso
per il rigetto del ricorso.

– controricorrente

R.G.v 11039/12

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

vI

Con sentenza depositata 5.12.11 la Corte d’appello di Venezia, in totale
riforma delle pronunce di accoglimento emesse in prime cure dal Tribunale di
Rovigo, rigettava le domande di Anna Bergo, Marilena Canazza, Marzia Boniolo,
Barbara Bonvento e Luisella Grandi che, transitate dal Ministero dell’Istruzione

ricevere l’indennità di amministrazione in un importo inferiore rispetto a quello
percepito, a parità di mansioni e qualifica, dal personale proveniente dall’ex
Ministero dell’Università e della Ricerca Scientifica e Tecnologica, pure transitato
al Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, che aveva accorpato i
due ministeri.
La Corte di merito ha osservato che il D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 45, che
enuncia il principio di parità di trattamento, vieta trattamenti individuali
migliorativi o peggiorativi rispetto a quelli previsti dal contratto collettivo, ma
non costituisce parametro per giudicare delle eventuali differenziazioni operate
in quella sede, restando quindi vietato non ogni trattamento differenziato per
singole categorie di lavoratori, ma solo quello contrastante con specifiche
previsioni normative. Inoltre – affermano ancora i giudici di merito – non sono
suscettibili di essere censurate in sede giurisdizionale le scelte operate dalla
contrattazione collettiva, mancando un parametro di giudizio cui rapportare tale
sindacato.
Per la cassazione della sentenza ricorrono Anna Bergo, Marilena Canazza,
Marzia Boniolo, Barbara Bonvento e Luisella Grandi affidandosi ad otto motivi.
Il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca resiste con
controricorso.
Inizialmente attivato il procedimento di cui agli artt. 380-bis e 375 c.p.c.,
all’esito dell’adunanza in camera di consiglio la causa è stata rimessa alla
pubblica udienza.
Le parti depositano memoria ex art. 378 c.p.c.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1- Con il primo motivo le ricorrenti denunciano omessa e insufficiente
motivazione circa un fatto decisivo per il giudizio nonché violazione dì plurime
disposizioni di legge, deducendo che l’amministrazione è tenuta ad erogare ai
dipendenti aventi identico inquadramento e svolgenti le stesse mansioni il
medesimo trattamento retributivo e, quindi, la stessa indennità di
amministrazione,

considerato

che

tale
1

voce

contrattuale,

già

a

al Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, avevano lamentato di

R.Q. n. 11039/12
/

partire dal 2001, non costituisce un trattamento accessorio, ma fa parte
integrante della retribuzione e viene erogata per dodici mensilità.
Con il secondo motivo le ricorrenti, denunciando plurime violazioni di legge,
rilevano l’arbitrarietà e l’irrazionalità della disparità di trattamento operata dal
Ministero, considerato che gli artt. 30 e ss. D.Lgs. n. 165/2001 sanciscono che,

essere garantito il mantenimento del tra ttamento economico mediante assegni
ad personam che devono essere riassorbiti in occasione dei miglioramenti di
trattamento economico complessivo riconosciuti a seguito del passaggio al
nuovo ente. Conseguentemente, l’amministrazione non solo non poteva
attribuire con il CCNL del Comparto Ministeri del 2003 ulteriori aumenti
dell’indennità di amministrazione al personale proveniente dal Ministero
dell’Università e della Ricerca Scientifica e Tecnologica, ma doveva riassorbire
l’eventuale maggior importo erogato “con i complessivi aumenti contrattuali
introdotti dal nuovo CCNL, oppure innalzare l’indennità composta agli altri
dipendenti del medesimo ministero”.
Con il terzo motivo ci si duole di violazione dell’art. 115 c.p.c., nonché di vizio
di motivazione, perché il diverso trattamento economico è privo di
giustificazione obiettiva e ragionevole, non essendo ammissibile che dipendenti
svolgenti le medesime mansioni vengano retribuiti in maniera diversa. Peraltro
la Corte territoriale, aggiungono le ricorrenti, non ha deciso la causa in base alle
allegazioni delle parti e delle prove offerte dalle parti medesime, avendo
affermato che la disparità di trattamento tra i dipendenti provenienti da diversi
Ministeri poteva essere giustificata da eventuali differenti carriere, da differenti
esperienze professionali ovvero dal diverso numero dei lavoratori.
Con il quarto motivo le ricorrenti rilevano che la corresponsione
dell’indennità di amministrazione in misura diversa a dipendenti che svolgono le
medesimi mansioni è in contrasto con i principi di uguaglianza (art. 3), della
retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro svolto (art. 36), di
libertà dell’iniziativa economica privata (art. 41) e di buon andamento ed
imparzialità della pubblica amministrazione (art. 97).
Con il quinto motivo, denunciando violazione dell’art. 17 del CCNL del
Comparto dei Ministeri del 16 maggio 2001 nonché vizio di motivazione, le
ricorrenti assumono che, diversamente da quanto affermato dalla Corte di
merito, secondo cui l’indennità di amministrazione costituirebbe un elemento
accessorio della retribuzione, tale indennità ha carattere di generalità ed ha
2

in caso di passaggio da una amministrazione ad un’altra, ai dipendenti deve

n. 11039/12

natura fissa e ricorrente. Nell’opinare diversamente, aggiungono, la Corte
territoriale è incorsa nella violazione del contratto collettivo di comparto e nel
vizio di motivazione.
Con il sesto motivo, denunciando plurime violazioni di legge e della normativa
comunitaria, le ricorrenti rilevano che la sentenza impugnata, nel non ravvisare
la dedotta disparità di trattamento, ha violato il principio di non discriminazione.
In . particolare, deducono, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha sancito
che il divieto di discriminazione sancito dalla direttiva 2000/78 altro non è che
espressione specifica del principio generale di uguaglianza, che rappresenta uno
dei principi fondamentali del diritto dell’Unione, il cui carattere fondamentale è
sancito dall’art. 20 della Carta di Nizza.
Con il settimo motivo le ricorrenti deducono che la sentenza impugnata ha
anche violato i principi di cui agli artt. 10 e 117 Cost.; precisano a riguardo che
la Corte Costituzionale ha da tempo rimarcato che il principio di uguaglianza e
parità di trattamento costituisce attuazione dei principi contenuti in vari atti e
convenzione internazionali, secondo cui ogni individuo ha diritto a uguale
retribuzione per uguale lavoro. Richiamano tali atti e rilevano che la Corte di
merito avrebbe dovuto interpretare la norma di cui al D.Lgs. n. 165 del 2001,
art. 45, in conformità a quei principi.
Con l’ottavo motivo le ricorrenti lamentano che la sentenza impugnata ha
violato i precetti costituzionali in materia di imparzialità e buon andamento
dell’amministrazione, atteso che, diversamente da quanto affermato dalla
sentenza impugnata, la parificazione dell’indennità di amministrazione non
comporta alcun aumento di spesa per lo Stato, ma “i/ solo utilizzo di una
piccolissima parte del fondo di amministrazione (destinato a finanziare il salario
accessorio)”.

2- Gli otto motivi di ricorso – da esaminarsi congiuntamente perché connessi non sono fondati, ritenendo questa Corte Suprema di dare continuità al proprio
consolidato indirizzo interpretativo formatosi su analoghe controversie.
Secondo tale orientamento, in tema di pubblico impiego privatizzato, il
principio espresso dal D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 45, secondo il quale
le amministrazioni pubbliche garantiscono ai propri dipendenti parità di
trattamento contrattuale, opera nell’ambito del sistema di inquadramento
previsto dalla contrattazione collettiva e vieta trattamenti migliorativi o
peggiorativi a titolo individuale, ma non costituisce parametro per giudicare le
3

R.

Rfl n. 11039112

differenziazioni operate in quella sede, restando quindi vietato non ogni
trattamento differenziato per singole categorie di lavoratori, ma solo quello
contrastante con specifiche previsioni normative, in quanto la disparità trova
titolo non in scelte datoriali unilaterali lesive, come tali, della dignità del
lavoratore, ma in pattuizioni dell’autonomia negoziale delle parti collettive, le

regola sufficiente a tutelare il lavoratore in relazione alle specificità delle
situazioni concrete (cfr., ex alits, Cass. n. 12483/15; Cass. n. 1037/14; Cass. n.
6842/14; Cass. n. 14331/14; Cass. n. 4962/12; Cass. n. 4971/12; Cass. n.
5726/09; Cass. n. 6027/09; Cass. n. 12336/09).
Sono state così cassate le decisioni di merito che avevano ritenuto contrario al
principio di parità il mantenimento di differenze nell’indennità di
amministrazione corrisposta ai dipendenti provenienti dai soppressi Ministeri,
affermandosi che, in relazione alla confluenza di dipendenti provenienti da altri
plessi organizzativi, la previsione di misure differenziate
dell’indennità di amministrazione non può considerarsi discriminatoria, in
particolare in relazione al principio di parità di trattamento di cui al D.Lgs. n.
165 del 2001, art. 45, che non esclude la possibilità della contrattazione
collettiva di attribuire rilievo anche alle pregresse vicende dei rapporti di lavoro.
Invero, è pregiudicata la pari dignità lavorativa se un determinato trattamento
economico deriva da autonome scelte in cui si estrinseca il potere del datore di
lavoro. Ma, quando la disparità trova titolo non in queste scelte, ma nelle
pattuizioni dell’autonomia collettiva e in queste non si riscontrano finalità
illecite, bensì mere valutazioni comparative, non ricorre più il conflitto del
lavoratore con il datore di lavoro, trattandosi di valutazioni operate dalle parti
sociali, le quali operano su un piano tendenzialmente paritario e
sufficientemente istituzionalizzato.
Deve escludersi che il mancato accoglimento delle domande comporti la
violazione dei precetti costituzionali e del principio di non discriminazione
richiamati in ricorso.
AI riguardo le argomentazioni svolte dalle ricorrenti muovono dal presupposto
che il D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 45, imponga alle amministrazioni pubbliche
di garantire comunque ed in ogni caso ai propri dipendenti parità di trattamento
economico, vietando trattamenti ingiustificatamente differenziati e
discriminatori. Ma tale prospettazione, come sopra evidenziato, è stata
disattesa da questa Corte, la quale ha precisato che il D.Lgs. n. 165 del 2001,
4

quali operano su un piano tendenzialmente paritario e istituzionalizzato, di

R.G.’n. 11039/12

art. 45, che enuncia il principio di parità di trattamento, vieta trattamenti
individuali migliorativi o peggiorativi rispetto a quelli previsti dal contratto
collettivo, ma non costituisce parametro per giudicare le differenziazioni
operate in quella sede, restando quindi vietato, non ogni trattamento
differenziato per singole categorie di lavoratori, ma solo quello contrastante con

Né trova giuridico fondamento la tesi secondo cui il contratto collettivo è
tenuto ad assicurare parità di trattamento. Il legislatore ha infatti affidato in via
esclusiva ai contratti collettivi il potere di definire i trattamenti retributivi dei
dipendenti delle pubbliche amministrazioni, lasciando piena autonomia alle parti
sociali di prevedere anche trattamenti differenziati in determinate situazioni,
afferenti alla peculiarità del rapporto, ai diversi percorsi formativi, alle
specifiche esperienze maturate e alla carriere professionali dei lavoratori,
nell’ambito delle diverse dinamiche negoziali.
In tale ottica, non vi è irragionevole disparità di trattamento se la retribuzione
inferiore risponde ai parametri costituzionali della proporzionalità alla quantità e
qualità del lavoro (art. 36 Cost.), considerato peraltro che il legislatore, nel
disporre che i trattamenti economici più favorevoli in godimento sono riassorbiti
con le modalità e nelle misure previste dai contratti collettivi (cfr. D.Lgs. n. 165
del 2001, art. 2, comma 3), ha affidato alle parti sociali di definire anche le
modalità, le misure e i tempi della perequazione, in modo da assicurare ai
dipendenti un trattamento economico uniforme.
Né è ipotizzatale nella specie, come affermato da questa Corte (cfr. Cass. n.
10105/13 e Cass. n. 16800/14) un contrasto della pattuizione collettiva con il
(meno esteso) principio di non discriminazione, inidoneo a vietare ogni
trattamento differenziato nei confronti delle singole categorie di lavoratori,
rilevando sotto tale profilo solo le specifiche previsioni normative contenute
nell’ordinamento. Nel corso degli anni non ne sono mancati esempi, come
avvenuto con gli artt. 15 e 16 Stat., la L. n. 604 del 1966, art. 4, la L. n. 903
del 1977, artt. 1 e 37 la L. n. 125 del 1991, art. 4 (poi modificato dal D.Lgs. n.
196 del 2000, art. 8, ed ora trasfuso nell’art. 36 e segg. codice delle pari
opportunità tra uomo e donna, vale a dire nel D.Lgs. 11 aprile 2006, n. 198), il
D.Lgs. n. 215 del 2003 e il D.Lgs. n. 216 del 2003, che hanno dato attuazione
alle direttive 2000/43/CE e 2000/78/CE, l’art. 21 della Carta dei diritti
fondamentali dell’Unione Europea, la Dichiarazione universale dei diritti
dell’uomo (approvata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 10.12.48),
5

specifiche previsioni normative.

. . 11039E2
4001111

le Convenzioni 0.I.L. nn. 111 e 117 (ratificate, rispettivamente, con L. 6
febbraio 1963, n. 405 e con L. 13 luglio 1966, n. 657), l’art. 7 del Patto
internazionale relativo ai diritti economici, sociali e culturali (ratificato con L. 25
ottobre 1977, n. 881), il patto di New York 16-19.12.66, l’art. 69 del Trattato
istitutivo della CECA, reso esecutivo in Italia con L. 25 giugno 1952, n. 766,

ottobre 1957, n. 1203, la Carta sociale Europea, approvata il 18.6.61, e resa
esecutiva con L. 3 luglio 1965, n. 929.
Trattasi, come è di chiara evidenza, di ipotesi ben delimitate, inidonee ad
enucleare un divieto di ogni trattamento differenziato nei termini prospettati dai
ricorrenti con il richiamo alle disposizioni costituzionali, comunitarie e
sovra nazionali.
Quanto alle censure relative ai vizi di motivazione, ne va rilevata
l’inammissibilità, atteso che il vizio di motivazione spendibile mediante ricorso
per cassazione ex art. 360 co. 1° n. 5 c.p.c. concerne solo la motivazione in
fatto, giacché quella in diritto può sempre essere corretta o meglio esplicitata,
sia in appello che in cassazione (in quest’ultimo caso ex art. 384 ult. cc . c.p.c.),
senza che la sentenza impugnata ne debba in alcun modo soffrire.
In altre parole, rispetto alla questione di diritto ciò che conta è che la
soluzione adottata sia corretta ancorché malamente spiegata o non spiegata
affatto; se invece risulta erronea, nessuna motivazione (per quanto
dialetticamente suggestiva e ben costruita) la può trasformare in esatta e il
vizio da cui risulterà affetta la pronuncia sarà non già di motivazione, bensì di
inosservanza o violazione di legge o falsa od erronea sua applicazione.

3- In conclusione, il ricorso è da rigettarsi.
Le spese del giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo, seguono la
soccombenza.
P.Q.M.
La Corte
rigetta il ricorso e condanna le ricorrenti a pagare le spese del giudizio
legittimità liquidate in euro 4.000,00, oltre spese prenotate a debito.
Roma, così deciso nella camera di consiglio del 3.3.16.

l’art. 119 del Trattato istitutivo della CEE del 25.3.57, reso esecutivo con L. 14

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