Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 10250 del 26/04/2017


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Cassazione civile, sez. trib., 26/04/2017, (ud. 07/02/2017, dep.26/04/2017),  n. 10250

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CAPPABIANCA Aurelio – Presidente –

Dott. VIRGILIO Biagio – Consigliere –

Dott. GRECO Antonio – Consigliere –

Dott. TRICOMI Laura – rel. Consigliere –

Dott. IANNELLO Emilio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 18062/2013 proposto da:

V.E., elettivamente domiciliato in ROMA VIA QUINTILIANO

9, presso lo studio dell’avvocato ROBERTO CAFARELLI, rappresentato e

difeso dagli avvocati PAOLO DE VINCENZO, MARIO LUCCI giusta delega a

margine;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 231/2012 della COMM. TRIB. REG. di NAPOLI,

depositata il 18/06/2012;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

07/02/2017 dal Consigliere Dott. LAURA TRICOMI;

udito per il controricorrente l’Avvocato MADDALO che si riporta al

controricorso;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SORRENTINO Federico, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. La Commissione Tributaria Regionale della Campania, con la sentenza n. 231/48/12, depositata il 18.06.2012 e non notificata, in riforma della decisione di primo grado, accoglieva l’appello dell’Amministrazione e confermava la legittimità dell’avviso di accertamento emesso nei confronti di V.E., di professione avvocato, per l’anno di imposta 2000, in applicazione degli studi di settore e sulla scorta di svariati accessi operati dall’Agenzia presso banche su conti correnti intestati anche alla moglie.

2. Per quanto interessa il presente giudizio, il secondo giudice, ritenuta la applicabilità della normativa sopravvenuta, osservava che ai sensi del novellato del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, comma 1, n. 2 e drt. 39, comma 1, sussisteva una presunzione legale in relazione alle risultanze dei movimenti bancari, che il contribuente avrebbe dovuto vincere con prova contraria che non aveva fornito.

3. Il contribuente ricorre per cassazione su più motivi e l’Agenzia delle entrate replica con controricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1.1. Con il primo motivo si denuncia la omessa, insufficiente e/o contraddittoria motivazione circa un fatto decisivo e controverso per il giudizio (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5).

1.2. Con il secondo motivo si denuncia la violazione e/o falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, n. 2, L. n. 413 el 1991, art. 18, D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, comma 1, n. 2 e art. 42, D.P.R. n. 633 del 1972, art. 51, D.P.R. n. 602 del 1973, art. 32, L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 3, art. 6, comma 1 e art. 12, art. 11 preleggi (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3).

1.3. Segue poi una lunga esposizione nel corso della quale il ricorrente ricorda di avere impugnato in primo grado l’accertamento fondato sulle indagini bancarie denunciando: l’illegittima applicazione retroattiva del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, come modificato dalla legge finanziaria per il 2005 (L. 30 dicembre 2004, n. 311, art. 1, comma 402) che aveva introdotto un incisivo potere di accertamento a carico dei professionisti; la sostanziale carenza di contraddittorio endoprocedimentale per essergli stati concessi “tempi brevissimi” (fol. 5 del ricorso) per la ricostruzione delle movimentazioni bancarie; la mancata verbalizzazione delle operazioni; la mancata allegazione del provvedimento di autorizzazione alle indagini bancarie; la circostanza che l’accertamento era stato fondato sia sui versamenti che sui prelevamenti, equiparando l’attività professionale a quella di impresa e ciò senza che l’Agenzia avesse tenuto conto dei costi necessari per produrre il reddito.

Sostiene quindi di avere riproposto tutte le doglianze in secondo grado, resistendo all’appello dell’Ufficio, anche se non le riproduce (fol. 9 del ricorso), e lamenta che non siano state prese in esame dalla Commissione regionale.

1.4. Deduce altresì – con quello che sembra un terzo motivo, in assenza di specifica rubrica (fol. 13 del ricorso) – la violazione da parte della CTR dell’art. 345 c.p.c., che vieta domande ed eccezioni nuove in appello da dichiararsi inammissibili d’ufficio, sostenendo che la Agenzia in primo grado aveva contrastato la denunciata irrettroattività del novellato art. 32 cit. invocandone la applicabilità retroattiva, mentre in secondo grado aveva diversamente argomentato sulla sostanziale identità della disciplina.

1.5. Introduce quindi quello che sembra un quarto motivo (fol. 13/14 del ricorso), denunciando che la CTR non si sarebbe pronunciata sulla questione controversa della irretroattività o meno della nuova disciplina, oggetto dell’appello dell’Agenzia, incorrendo nel vizio di omessa pronuncia e/di omessa motivazione, ovvero nel vizio di violazione dell’art. 11 disp. att. c.c., ove si dovesse ritenere che la pronuncia vi sia stata in forma implicita.

1.6. Ancora, con quello che sembra essere un quinto motivo (fol. 17 del ricorso) dopo aver riprodotto le sue domande che – in assenza di una puntuale specificazione – per la loro formulazione incentrata sull’atto impugnato e non già sui motivi di appello della controparte o sulla sentenza di primo grado, sembrano essere quelle del primo grado (fol. 16 del ricorso), ne lamenta l’omesso esame e l’omessa pronuncia, in violazione dell’art. 112 c.p.c. (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4).

2.1. I motivi, che si presentano come multipli e sovrapposti, sono tutti infondati o inammissibili, tranne che per la questione concernente l’applicazione delle presunzioni ai movimenti bancari di prelevamento, la cui censura merita accoglimento alla luce dello jus superveniens seguito alla sentenza della Corte Costituzionale n. 288 del 2014.

3.1. I motivi primo e quarto, che possono essere trattati congiuntamente, sono inammissibili laddove svolgono censure per vizio motivazionale, in quanto risultano connotati da assertività sulle concrete emergenze in fatto che avrebbero dovuto essere oggetto del mezzo impugnatorio.

3.2. Infatti, come questa Corte ha già avuto modo di affermare, “Il motivo di ricorso con cui, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, come modificato dal D.Lgs. n. 40 del 2006, art. 2, si denuncia omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione, deve specificamente indicare il “fatto” controverso o decisivo in relazione al quale la motivazione si assume carente, dovendosi intendere per “fatto” non una “questione” o un “punto” della sentenza, ma un fatto vero e proprio e, quindi, un fatto principale, ex art. 2697 c.c. (cioè un fatto costitutivo, modificativo, impeditivo o estintivo) od anche un fatto secondario (cioè un fatto dedotto in funzione di prova di un fatto principale), purchè controverso e decisivo” (Cass. nn. 21152 del 08/10/2014, 17761 del 08/09/2016) e, nel caso in esame, manca la specifica indicazione del fatto controverso, così inteso.

4.1. Si deve quindi passare all’esame delle plurime censure per violazione di legge – articolate tutte sotto il secondo motivo riguardanti:

A) l’illegittima applicazione retroattiva del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, come modificato dalla legge finanziaria per il 2005 (L. 30 dicembre 2004, n. 311, art. 1, comma 402) che aveva introdotto un incisivo potere di accertamento a carico dei professionisti;

B) la sostanziale carenza di contraddittorio endoprocedimentale per essergli stati concessi “tempi brevissimi” (fol. 5 del ricorso) per la ricostruzione delle movimentazioni bancarie;

C) la mancata verbalizzazione di operazioni;

D) la mancata allegazione del provvedimento di autorizzazione alle indagini bancarie;

E) la circostanza che l’accertamento era stato fondato sia sui versamenti che sui prelevamenti, equiparando l’attività professionale a quella di impresa e ciò senza che l’Agenzia avesse tenuto conto dei costi necessari per produrre il reddito.

4.2. E’ utile premettere che, come questa Corte ha già avuto modo di affermare, qualora l’accertamento effettuato dall’ufficio finanziario si fondi su verifiche di conti correnti bancari, l’onere probatorio dell’Amministrazione è soddisfatto, secondo il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, attraverso i dati e gli elementi risultanti dai conti predetti, determinandosi un’inversione dell’onere della prova a carico del contribuente, il quale deve dimostrare, con una prova non generica ma analitica per ogni versamento bancario, che gli elementi desumibili dalla movimentazione bancaria non sono riferibili ad operazioni imponibili e sono prive di rilevanza fiscale (Cass. nn. 22179/2008, 18081/2010, 15857/2016, 4829/2015); ciò vale anche in tema di IVA, al fine di superare la presunzione di imponibilità delle operazioni confluite nelle movimentazioni bancarie posta a carico del contribuente dal D.P.R. n. 633 del 1972, art. 51, comma 2, n. 2 (Cass. sent. n. 21303/2013).

4.3. Ciò posto, la questione riepilogata sub A) è infondata e va disattesa. Ed invero, anche con riferimento al testo del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, antecedente l’entrata in vigore della novella del 2004 (temporalmente applicabile alla fattispecie in esame), è del tutto pacifico nella giurisprudenza di questa Corte che la norma in questione, e la presunzione in essa contenuta, seppure letteralmente riferibile ai soli “ricavi”, sia da intendersi applicabile anche al reddito da lavoro autonomo, e non solo al reddito di impresa (Cass. 4601/02, 430/08, 11750/08). Di qui la piena utilizzabilità, da parte dell’Ufficio finanziario, nella vicenda oggetto del presente giudizio, della presunzione di ascrivibilità ad operazioni imponibili dei dati raccolti in sede di accesso ai conti correnti bancari del ricorrente.

4.4. Anche la questione riepilogata sub B) è infondata. La legittimità dell’utilizzo dei dati, desunti dalla verifica operata dall’ufficio sui conti correnti bancari del contribuente, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, non è condizionata, infatti, dalla previa instaurazione del contraddittorio con il medesimo. Tale attività preventiva costituisce, per vero, una mera facoltà per l’amministrazione, e non certo un obbligo, come è del tutto pacifico nella giurisprudenza di questa Corte (cfr. Cass. 14675/06, 4601/06, 25142/09) sicchè dal mancato esercizio di tale facoltà non deriva alcuna illegittimità della rettifica operata in base ai relativi accertamenti (Cass. nn. 25770/2015, 446/2013).

4.5. Le questioni riepilogate sub C) e sub D) sono inammissibili per carenza di autosufficienza, poichè la mancata trascrizione dell’avviso impugnato, nella parte di rilievo, del pertinente motivo di impugnazione originario e delle correlative controdeduzioni in appello non consente di valutare la tempestiva proposizione della questione, l’effettivo contenuto della doglianza e la sua rilevanza.

4.6.1. La censura riepilogata sub E) è fondata nei termini precisati a seguito della sentenza della Corte Costituzionale n. 288 del 2014, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, comma 1, n. 2), secondo periodo, D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, limitatamente alle parole “o compensi”, ed ha ridefinito il perimetro applicativo della norma relativa ai prelevamenti, a seconda che riguardi un imprenditore ovvero, come nel presente caso, un lavoratore autonomo.

4.6.2. La Corte Costituzionale ha così statuito “E’ costituzionalmente illegittimo, per violazione degli artt. 3 e 53 Cast., D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 32, comma 1, n. 2), secondo periodo (Disposizioni comuni in materia di accertamento delle imposte sui redditi), come modificato dalla L. 30 dicembre 2004, n. 311, art. 1, comma 402, lett. a), n. 1), limitatamente alle parole “o compensi”. La norma – oltre a disporre che i dati ed elementi trasmessi su richiesta, rilevati direttamente ovvero nei controlli relativi alle imposte sulla produzione o consumo, sono posti a base delle rettifiche e degli accertamenti previsti del medesimo D.P.R. n. 600 del 1973, artt. 38, 39, 40 e 41, salvo che il contribuente dimostri che ne ha tenuto conto nella determinazione dei redditi o che essi non hanno rilevanza a tal fine – prevede che i prelevamenti o gli importi riscossi nell’ambito delle predette operazioni sono posti come ricavi o compensi a base delle rettifiche e degli accertamenti (e sono quindi assoggettabili a tassazione), se il contribuente non ne indica i soggetti beneficiari e semprechè non risultino dalle scritture contabili. L’ambito operativo di tale presunzione, originariamente limitato unicamente agli imprenditori, è stato poi esteso ai lavoratori autonomi dalla L. n. 311 del 2004, art. 1 (inserendo anche i “compensi”). Proprio tale ultima estensione è lesiva del principio di ragionevolezza nonchè della capacità contributiva, essendo arbitrario ipotizzare che i prelievi ingiustificati da conti correnti bancari effettuati da un lavoratore autonomo siano destinati ad un investimento nell’ambito della propria attività professionale e che questo a sua volta sia produttivo di un reddito. Infatti la figura del lavoratore autonomo, pur essendo per molti versi affine a quella dell’imprenditore sia nel diritto interno sia nel diritto comunitario, presenta specificità tali da far ritenere arbitraria l’omogeneità di trattamento. In particolare, l’attività svolta dai lavoratori autonomi si caratterizza per la preminenza dell’apporto del lavoro proprio e la marginalità dell’apparato organizzativo, che è quasi del tutto assente nei casi in cui è più accentuata la natura intellettuale dell’attività svolta, come per le professioni liberali. Inoltre, la non ragionevolezza della presunzione è avvalorata dal fatto che gli eventuali prelevamenti vengono ad inserirsi in un sistema di contabilità semplificata di cui generalmente e legittimamente si avvale la categoria. Infine, la norma non può trovare giustificazione nell’esigenza di combattere l’evasione fiscale rilevante nel settore in quanto essa trova una risposta nella recente produzione normativa sulla tracciabilità dei movimenti finanziari che oltre ad essere uno strumento di lotta al riciclaggio di capitali di provenienza illecita, persegue il dichiarato fine di contrastare l’evasione o l’elusione fiscale attraverso la limitazione dei pagamenti effettuati in contanti che si possono prestare ad operazioni “in nero”.

4.6.3. Ne consegue che deve darsi applicazione al principio secondo il quale in tema di accertamento, resta invariata la presunzione legale posta dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, con riferimento ai soli versamenti effettuati su un conto corrente dal professionista o lavoratore autonomo, sicchè questi è onerato di provare in modo analitico l’estraneità di tali movimenti ai fatti imponibili, mentre è venuta meno, all’esito della sentenza della Corte costituzionale n. 228 del 2014, l’equiparazione logica tra attività imprenditoriale e professionale relativamente ai prelevamenti sui conti correnti (Cass. nn. 16697 del 09/08/2016, 19029 del 27/09/2016).

Il giudice del rinvio ne dovrà tenere conto in relazione alla fattispecie concreta sottoposta al suo esame.

4.6.4. Va invece disattesa la censura sub E) riferita alla mancata considerazione dei costi connessi al maggior reddito ricostruito dall’Agenzia. Invero, come costantemente accertato, nel processo tributario, è il contribuente a dover assolvere l’onere, a suo carico, di provare il fatto costitutivo del diritto alla deduzione dei costi o alla detrazione dell’IVA mediante la produzione delle fatture, l’Amministrazione finanziaria ne può dimostrarne l’inattendibilità anche mediante presunzioni, sicchè il giudice di merito deve prendere in considerazione il complessivo quadro probatorio al fine di verificare l’esistenza o meno delle operazioni fatturate, ivi compresi i fatti secondari indicati (Cass. n. 2935 del 13/02/2015).

5.1. Non si ravvisa, invece, la violazione dell’art. 345 c.p.c., denunciata con il terzo motivo, atteso che non si evince, da quanto dedotto in ricorso, alcun mutamento di posizione da parte dell’Agenzia con domande o eccezioni nuove, poichè questa risulta avere sempre sostenuto l’applicabilità della norma novellata alla concreta fattispecie, anche se con argomenti ulteriori o diversi.

6.1. Vanno infine respinti per infondatezza i motivi quarto e quinto concernenti denunce di omessa pronuncia, in quanto le statuizioni adottate dalla CTR risultano chiare nella loro formulazione ed implicitamente reiettive delle ulteriori prospettazioni della parte privata con cui sono inconciliabili.

7.1. In conclusione il ricorso va accolto sul secondo motivo, limitatamente alla violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, comma 1, numero 2), secondo periodo, D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, come risultante a seguito della sentenza della Corte Costituzionale n. 288 del 2014, che ne ha dichiarato l’illegittimità costituzionale limitatamente alle parole “o compensi”, così escludendo, per i lavoratori autonomi, i prelevamenti dal perimetro applicativo della norma; tutte le altre doglianze vanno respinte perchè inammissibili o infondate, come meglio sopra precisato. La sentenza impugnata va cassata nei limiti dell’accoglimento e, non potendo essere decisa nel merito, va rinviata alla CTR della Campania in diversa composizione per il riesame e per le statuizioni sulle spese del giudizio di legittimità.

PQM

accoglie il ricorso sul secondo motivo nei limiti di cui in motivazione e rigetta nel resto;

cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Commissione tributaria regionale della Campania in altra composizione per il riesame e per la statuizione anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, a seguito di riconvocazione, il 23 febbraio 2017.

Depositato in Cancelleria il 26 aprile 2017

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