Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 10245 del 29/05/2020

Cassazione civile sez. trib., 29/05/2020, (ud. 27/01/2020, dep. 29/05/2020), n.10245

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SORRENTINO Federico – Presidente –

Dott. NAPOLITANO Lucio – Consigliere –

Dott. CATALDI Michele – Consigliere –

Dott. CONDELLO Pasqualina A.P. – rel. Consigliere –

Dott. FRAULINI Paolo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 5196/12 R.G. proposto da:

B.S., rappresentata e difesa, giusta delega a margine del

ricorso, dagli avv.ti Gaetano Ragucci e Marco Squicquero, con

domicilio eletto presso lo studio in Roma, via Pompeo Magno, n. 2/b;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore,

rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, con

domicilio eletto in Roma, via dei Portoghesi, n. 12;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della

Lombardia n. 85/11/11 depositata in data 1 luglio 2011;

udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 27 gennaio

2020 dal Consigliere Dott.ssa Pasqualina Anna Piera Condello.

Fatto

RILEVATO

che:

L’Agenzia delle entrate, a seguito di invio del questionario, notificava a B.S. due avvisi di accertamento relativi agli anni d’imposta 2004 e 2005, con i quali, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38, recuperava a tassazione maggiore IRPEF, considerando quali indici di capacità contributiva la polizza assicurativa stipulata il (OMISSIS), l’autoveicolo a benzina immatricolato nel 1997, l’abitazione destinata a residenza principale acquistata con atto stipulato il (OMISSIS) con relativo contratto di mutuo, nonchè l’acquisto, nel periodo compreso tra il 2006 e il 2008, di immobili per un importo complessivo di Euro 831.280,00.

La contribuente impugnava gli atti impositivi per carenza di motivazione, stante la mancata allegazione del prospetto di determinazione sintetica del reddito, deducendo che tra gli atti di acquisto erano stati presi in considerazione sia il contratto preliminare di acquisto sia l’atto di compravendita aventi ad oggetto il medesimo bene immobile; faceva pure presente che alla fine dell’anno 2003 aveva avuto disponibilità patrimoniali sul proprio dossier titoli presso la Banca Monte dei Paschi di Siena per circa Euro 90.000,00 e presso la Banca Cesare Ponti per un valore nominale di Euro 26.000,00, le quali, nel corso del biennio successivo, erano state disinvestite e utilizzate anche per pagamenti in scadenza; di tali disponibilità l’Agenzia non aveva tenuto conto in sede di accertamento.

La Commissione provinciale adita, omessa la pronuncia sul difetto di motivazione degli avvisi di accertamento, accoglieva parzialmente il ricorso, determinando il reddito per i due anni d’imposta nella misura quantificata dall’ente impositore nella proposta di conciliazione.

Proposto appello dalla contribuente, la Commissione regionale confermava la sentenza di primo grado, osservando che la contribuente, negli anni d’imposta in contestazione, aveva dichiarato redditi di importo irrisorio ed aveva effettuato operazioni di compravendita di immobili che avevano portato ad un incremento considerevole del patrimonio; l’Ufficio aveva rettificato gli errori materiali, ricalcolando il reddito imponibile, sicchè il suo operato, a seguito delle correzioni apportate, era corretto.

Avverso la suddetta decisione ha proposto ricorso per cassazione B.S., con tre motivi, cui resiste l’Agenzia delle entrate con controricorso.

Diritto

CONSIDERATO

che:

1. Con il primo motivo la ricorrente deducendo nullità della sentenza per violazione dell’art. 112 c.p.c., sostiene che neppure il giudice di appello si è pronunciato sull’eccezione di difetto di motivazione degli atti impositivi, già sollevata in primo grado e reiterata nel giudizio di secondo grado.

La censura è infondata.

Ad integrare gli estremi del vizio di omessa pronuncia non basta la mancanza di un’espressa statuizione del giudice, ma è necessario che sia stato completamente omesso il provvedimento che si palesa indispensabile alla soluzione del caso concreto: ciò non si verifica quando la decisione adottata comporti la reiezione della pretesa fatta valere dalla parte, anche se manchi in proposito una specifica argomentazione, dovendo ravvisarsi una statuizione implicita di rigetto quando la pretesa avanzata col capo di domanda non espressamente esaminato risulti incompatibile con l’impostazione logico-giuridica della pronuncia (Cass., sez. 1, ordinanza n. 24155 del 13/10/2017; Cass., sez. 5, n. 29191 del 6/12/2017; Cass., sez. 2, ord. n. 20718 del 13/8/2018).

I giudici regionali, respingendo integralmente l’appello, hanno, sebbene implicitamente, disatteso l’eccezione sollevata dalla contribuente con la quale si lamentava la mancata allegazione agli atti impositivi del prospetto riepilogativo dei criteri di determinazione del reddito sinteticamente accertato, cosicchè non è ravvisabile la violazione denunciata.

2. Con il secondo motivo la ricorrente denuncia nullità della sentenza per violazione dell’art. 112 c.p.c..

Sin dall’atto introduttivo del giudizio aveva fondato la domanda di annullamento degli impugnati avvisi di accertamento anche sul fatto che alla fine del 2003 aveva disponibilità finanziarie presso istituti di credito che, nel biennio successivo, per esigenze di liquidità, aveva disinvestito e utilizzato per effettuare i pagamenti in scadenza; al fine di provare i disinvestimenti, aveva prodotto documentazione bancaria, consistente in un estratto dei “saldi dossier” rilasciato dal Monte dei Paschi di Siena ed un estratto conto titoli detenuti presso la Banca Cesare Ponti al 30 giugno 2003; tali disinvestimenti erano stati riconosciuti dall’Amministrazione finanziaria che, nella memoria depositata nel giudizio di primo grado, aveva concentrato le proprie difese sul solo rilievo che agli atti mancava prova dell’effettivo utilizzo del ricavato per il pagamento di spese correnti, tanto che la pretesa tributaria era stata ristretta agli imponibili determinati in base al cd. redditometro, in ragione di tre indici di capacità contributiva rappresentati dalla titolarità di una polizza assicurativa, dalla proprietà dell’autovettura immatricolata nel 1997 e dalla proprietà di una abitazione. Impugnando la sentenza di primo grado aveva riproposto le eccezioni in precedenza svolte, ma il giudice di appello non si era pronunciato sulla domanda formulata, con conseguente violazione della regola della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato. Infatti, la Commissione regionale, nell’esporre le ragioni poste a fondamento del proprio convincimento, aveva richiamato il contenuto degli avvisi di accertamento, nelle parti in cui si evidenziava che erano state effettuate operazioni di compravendita di immobili e che la contribuente sosteneva che gli acquisti erano stati effettuati dallo smobilizzo di altri immobili, per concludere che il “saldo complessivo” non risultava “uguale a zero” e che “la differenza” non poteva che costituire reddito imponibile, pronunciandosi in tal modo su una domanda diversa da quella avanzata, fondata sull’impiego del ricavato dei disinvestimenti nella realizzazione degli incrementi patrimoniali.

La censura è infondata.

Il principio della corrispondenza fra il chiesto ed il pronunciato, la cui violazione determina il vizio di ultrapetizione, implica unicamente il divieto, per il giudice, di attribuire alla parte un bene non richiesto o, comunque, di emettere una statuizione che non trovi corrispondenza nella domanda, ma non osta a che il giudice renda la pronuncia richiesta in base ad una ricostruzione dei fatti di causa autonoma rispetto a quella prospettata dalle parti. Tale principio deve quindi ritenersi violato ogni qual volta il giudice, interferendo nel potere dispositivo delle parti, alteri alcuno degli elementi obiettivi di identificazione dell’azione (petitum e causa petendi), attribuendo o negando ad alcuno dei contendenti un bene diverso da quello richiesto e non compreso, nemmeno implicitamente o virtualmente, nella domanda, ovvero, pur mantenendosi nell’ambito del petitum, rilevi d’ufficio un’eccezione in senso stretto che, essendo diretta ad impugnare il diritto fatto valere in giudizio dall’attore, può essere sollevata soltanto dall’interessato, oppure ponga a fondamento della decisione fatti e situazioni estranei alla materia del contendere, introducendo nel processo un titolo (causa petendi) nuovo e diverso da quello enunciato dalla parte a sostegno della domanda (Cass., sez. 1, ordinanza n. 29200 del 13/11/2018; Cass., sez. 6-5, ord. n. 17897 del 3 luglio 2019).

Nel caso di specie, i giudici regionali, nel rispetto dei poteri ad essi attribuiti, non hanno travalicato i limiti della domanda avanzata, ma hanno piuttosto ritenuto infondata tale domanda, sul rilievo che la odierna ricorrente non avesse adeguatamente dimostrato l’inesistenza del maggior reddito sinteticamente accertato, poggiando tale decisione sulle difese e sulle eccezioni fatte valere e sulla documentazione allegata dalle parti.

Sia nella parte della sentenza descrittiva dello svolgimento del processo, sia nell’esposizione delle ragioni che sorreggono la pronuncia, la Commissione regionale ha fatto espresso riferimento allo smobilizzo di elementi patrimoniali, prendendo in considerazione anche i disinvestimenti finanziari invocati dalla stessa ricorrente per superare l’accertamento presuntivo e, pertanto, la sentenza va esente dalla critica ad essa rivolta.

3. Con il terzo motivo la contribuente censura la decisione impugnata per omessa motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), assumendo che l’erronea interpretazione della domanda ha indotto i giudici di merito a non prendere in esame un fatto controverso e decisivo costituito dalla circostanza che, a fronte dei beni-indice indicati dall’Ufficio, aveva opposto disinvestimenti di disponibilità finanziarie non considerate dall’Amministrazione, che, se adeguatamente valutate, avrebbero imposto l’annullamento degli avvisi di accertamento. Si duole del fatto che i giudici d’appello non hanno tenuto in considerazione il ricavato dei titoli detenuti e la prova, offerta, del conseguimento di proventi da “smobilizzo” di attività finanziarie.

Anche tale censura è infondata e non va accolta.

Il metodo di accertamento sintetico del reddito, disciplinato dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38, nel testo vigente ratione temporis (cioè tra la L. n. 413 del 1991, ed il D.L. n. 78 del 2010, convertito dalla L. n. 122 del 2010), prevede, al comma 4, la possibilità di presumere il reddito complessivo netto sulla base della valenza induttiva di una serie di elementi e circostanze di fatto certi, costituenti indici di capacità contributiva, connessi alla disponibilità di determinati beni o servizi ed alle spese necessarie per il loro utilizzo e mantenimento e, al comma 5, le cd. “spese per incrementi patrimoniali”, ossia quelle sostenute per incrementare in modo durevole il patrimonio, prevedendo in tal caso una presunzione di imputabilità del reddito, in quote costanti, all’anno in cui la spesa è stata effettuata ed ai cinque precedenti, introducendo una disciplina di favore, adottata in base all’id quod plerumque accidit, ossia al fatto che la capacità di effettuare una determinata spesa ben può attribuirsi non al reddito prodotto nello stesso anno d’imposta cui l’accertamento si riferisce, bensì alla disponibilità di capitale accumulato negli anni precedenti.

Secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, l’accertamento con metodo sintetico non impedisce al contribuente di dimostrare, attraverso idonea documentazione, che il maggior reddito determinato o determinabile sinteticamente è costituito, in tutto o in parte, da redditi soggetti a ritenute alla fonte o esenti da imposta ovvero da finanziamenti di terzi (come recentemente ribadito anche da Cass., sez. 5, ord. n. 13602 del 30/5/2018).

In presenza dei presupposti previsti dall’art. 38, la norma non impone, dunque, ulteriore onere all’amministrazione, ma piuttosto faculta il contribuente a offrire la prova contraria, prova che va riferita, secondo il tenore letterale del citato art. 38, comma 6, al fatto che “il maggior reddito determinato o determinabile sinteticamente è costituito in tutto o in parte da redditi esenti o da redditi soggetti a ritenuta alla fonte”, con la precisazione che “l’entità di tali redditi e la durata del loro possesso devono risultare da idonea documentazione”.

L’oggetto della prova contraria da parte del contribuente riguarda non solo, dunque, la disponibilità di ulteriori redditi, ma anche l’entità di tali redditi e la durata del loro possesso. Si è al riguardo chiarito che, pur non prevedendosi esplicitamente la prova che detti ulteriori redditi siano stati utilizzati per coprire le spese contestate, si chiede espressamente una prova documentale su circostanze sintomatiche del fatto che ciò sia accaduto (o sia potuto accadere). In tal senso deve essere letto lo specifico riferimento alla prova – risultante da “idonea documentazione” – della “entità” di tali eventuali ulteriori redditi e della “durata” del relativo possesso, previsione che ha la finalità di ancorare a fatti oggettivi (di tipo quantitativo e temporale) la disponibilità di detti redditi per consentire la riferibilità della maggiore capacità contributiva accertata con metodo sintetico in capo al contribuente proprio a tali ulteriori redditi, escludendo quindi che i suddetti siano stati utilizzati per finalità non considerate ai fini dell’accertamento sintetico (Cass., sez. 5, 18 aprile 2014, n. 8995; Cass. 26 novembre 2014, n. 25104; Cass. 16 luglio 2015, n. 14885; Cass. 20 gennaio 2017, n. 1510; Cass. 26 settembre 2019, n. 24030).

Anche se la prova di cui è onerato il contribuente non è tipizzata, sicchè può essere data con qualsiasi mezzo idoneo a dimostrare la provenienza non reddituale dell’elemento accertato dal fisco e la durata del relativo possesso, al fine di delimitare l’ambito della prova contraria gravante sul contribuente, questa Corte ha, ad esempio, precisato che la documentazione bancaria costituisce prova documentale in grado di superare la presunzione di maggiore reddito perchè rappresentativa della “sequenza temporale dell’operazione di accredito e poi di quella di addebito degli assegni utilizzati per l’acquisto” (Cass. 22 marzo 2017, n. 7258) e che l’esibizione degli estratti dei conti correnti bancari facenti capo alla parte contribuente è idonea a dimostrare, mediante l’indicazione dell’entità dei redditi e delle date dei movimenti, anche la “durata” del possesso dei redditi e, quindi, non il loro semplice “transito” nella disponibilità del contribuente (Cass. n. 12214 del 16/5/2017; Cass. sez. 6 – 5, ordinanza n. 12026 del 16/05/2018; Cass. n. 7389 del 23/3/2018).

Non è, pertanto, sufficiente, la dimostrazione dell’esistenza di redditi derivanti dallo smobilizzo di investimenti, ma occorre anche verificare se, sulla base degli elementi sintomatici forniti, i redditi oggetto del disinvestimento siano stati effettivamente utilizzati in funzione del mantenimento del tenore di vita.

Una indagine di tal genere risulta essere stata compiuta dai giudici di merito, i quali, nella sentenza in questa sede impugnata, hanno ritenuto giustificato l’accertamento operato dall’Ufficio dopo avere valutato che i redditi dichiarati dalla contribuente risultavano “irrisori” e che parimenti “irrisori” erano anche i redditi esenti, facendo espresso riferimento, in motivazione, al possesso di titoli di stato disinvestiti per l’acquisto di immobili; valutata complessivamente la situazione patrimoniale, sono addivenuti al convincimento che tali redditi esenti non potessero di per sè giustificare la maggiore capacità contributiva contestata, nè coprire le spese di “sopravvivenza” della stessa contribuente.

Trattasi di accertamento di fatto che non può essere sindacato in questa sede mediante la mera riproposizione degli stessi elementi di fatto già posti al vaglio dei giudici di appello, che hanno valutato tutto il materiale probatorio acquisito al processo, prendendo in considerazione anche le disponibilità finanziarie oggetto di disinvestimento indicate dalla contribuente e ritenendo che non fosse stata offerta prova idonea a superare la presunzione scaturente dall’accertamento sintetico.

In difetto di fatti storici decisivi il cui esame sarebbe stato omesso o insufficiente da parte della Commissione regionale, non può dirsi sussistente il preteso vizio di motivazione.

4. In conclusione, il ricorso va rigettato.

Le spese del giudizio di legittimità seguono i criteri della soccombenza e sono liquidate come da dispositivo.

PQM

La Corte rigetta il ricorso.

Condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 8.000,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 27 gennaio 2020.

Depositato in Cancelleria il 29 maggio 2020

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