Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 10243 del 29/04/2010

Cassazione civile sez. III, 29/04/2010, (ud. 18/03/2010, dep. 29/04/2010), n.10243

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FINOCCHIARO Mario – Presidente –

Dott. MASSERA Maurizio – Consigliere –

Dott. SEGRETO Antonio – rel. Consigliere –

Dott. VIVALDI Roberta – Consigliere –

Dott. FRASCA Raffaele – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ordinanza

sul ricorso 9166/2009 proposto da:

D.M.I., A.E., A.V.,

elettivamente domiciliati in ROMA, VIA ASIAGO 9, presso lo studio

dell’avvocato APUZZO TIZIANA, rappresentati e difesi dall’avvocato

SICIGNANO Federico, giusta procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

ENEL DISTRIBUZIONE SPA;

– intimata –

avverso la sentenza n. 42/2008 del TRIBUNALE di TORRE ANNUNZIATA,

SEZIONE DISTACCATA di GRAGNANO, depositata il 12/02/2008;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

18/03/2010 dal Consigliere Relatore Dott. ANTONIO SEGRETO;

è presente il P.G. in persona del Dott. GIAMPAOLO LECCISI.

 

Fatto

CONSIDERATO IN FATTO

che è stata depositata in cancelleria la seguente relazione, regolarmente comunicata al P.G. e notificata ai difensori: “Il relatore, Cons. Dott. Antonio Segreto, letti gli atti depositati, osserva:

1. Il Tribunale di Torre Annunziata, sede distaccata di Gragnano, con sentenza n. 42 depositata il 12.2.2008, in riforma di 3 sentenze del giudice di pace di Gragnano, con cui l’Enel distribuzione veniva condannata al risarcimento dei danni patiti rispettivamente da D. M.I., A.E. e A.V. a seguito del black out elettrico verificatosi nella notte tra il (OMISSIS), rigettava le domande per non imputabilità del danno all’Enel Distribuzione e riteneva che il preteso danno esistenziale non fosse risarcibile. Avverso questa sentenza ha proposto ricorso per cassazione parte attrice.

Resiste con controricorso l’Enel Distribuzione s.p.a..

2. Con il primo motivo di ricorso la parte ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 329 c.p.c., degli artt. 1175, 1176, 1375 e 2719 c.c., e degli artt. 1334 e 1335 c.c., in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c.., nonchè l’omessa ed insufficiente motivazione su un fatto controverso in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5.

Assume parte ricorrente che il tribunale avrebbe errato nell’affermare che il pagamento da parte della convenuta dell’importo liquidato dal primo giudice non costituisse acquiescenza alla sentenza di quel giudice; che dalla documentazione esibita emergerebbe, invece, una definizione transattivi della lite, incompatibile con la volontà di impugnazione.

3. Il motivo è manifestamente infondato.

L’acquiescenza alla sentenza, preclusiva dell’impugnazione ai sensi dell’art. 329 cod. proc. civ., consiste nell’accettazione della sentenza, ovverosia nella manifestazione da parte del soccombente della volontà di non impugnare, la quale può avvenire sia in forma espressa che tacita: in quest’ultimo caso, l’acquiescenza può ritenersi sussistente soltanto quando l’interessato abbia posto in essere atti da quali sia possibile desumere, in maniera precisa ed univoca, il proposito di non contrastare gli effetti giuridici della pronuncia, e cioè gli atti stessi siano assolutamente incompatibili con la volontà di avvalersi dell’impugnazione. Ne consegue che la spontanea esecuzione della pronunzia di primo grado, anche quando la riserva d’impugnazione non venga dalla medesima a quest’ultimo resa nota, non comporta acquiescenza alla sentenza, preclusiva dell’impugnazione ai sensi disposto di cui all’artt. 329 cod. proc. civ., trattandosi di un comportamento che può risultare fondato anche sulla mera volontà di evitare le eventuali ulteriori spese di precetto e dei successivi atti di esecuzione. (ex multis, Cass. 07/02/2008, n. 2826; Cass. 20/03/2006, n. 6086; Cass. 26/01/2006, n. 1551).

La valutazione di tali atti o comportamenti da parte del giudice di merito, al fine di desumere o escludere l’acquiescenza tacita, non è sindacabile in sede di legittimità se assistita da congrua motivazione (Cass. 19/04/2000, n. 5074; cfr. anche Cass. Sez. Unite, 13/10/1993, n. 10112).

4. Nella fattispecie il giudice di merito ha fatto corretta applicazione di tali principi con motivazione esente da censure in questa sede di legittimità.

Il tribunale, infatti, ha osservato che dall’interpretazione degli atti prodotti emergeva che l’Enel aveva pagato solo a seguito di sollecito e richiesta del difensore di parte attrice, che confermava il rischio, nell’ottica dell’Enel, di un procedimento esecutivo e che la stessa parte appellata a pag. 8 della comparsa di costituzione escludeva che l’Enel aveva dato esecuzione spontanea alle sentenze di 1^ grado.

Rileva anche il tribunale che nella missiva a firma di D.S. E. risultava che l’Enel aveva provveduto ai pagamenti con riserva di impugnazione.

Le contrarie osservazioni sul punto di parte ricorrente si risolvono, quindi, in una diversa lettura delle risultanze processuali, che non può avere ingresso in questa sede di sindacato di legittimità.

5. Con il secondo motivo di ricorso la parte ricorrente lamenta la violazione di legge e dell’art. 2059 c.c., a norma dell’art. 360 c.p.c., n. 3, nonchè il vizio di motivazione dell’impugnata sentenza per non aver il tribunale riconosciuto il suo danno esistenziale.

6. Il motivo è manifestamente infondato.

Come statuito da Cass. S.U. 11.11.2008, n. 26972, non è ammissibile nel nostro ordinamento l’autonoma categoria di “danno esistenziale”, inteso quale pregiudizio alle attività non remunerative della persona. Il danno non patrimoniale derivante dalla lesione di diritti inviolabili della persona, come tali costituzionalmente garantiti, è risarcibile – sulla base di una interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2059 cod. civ. – anche quando non sussiste un fatto-reato, nè ricorre alcuna delle altre ipotesi in cui la legge consente espressamente il ristoro dei pregiudizi non patrimoniali, a tre condizioni: (a) che l’interesse leso – e non il pregiudizio sofferto – abbia rilevanza costituzionale (altrimenti si perverrebbe ad una abrogazione per via interpretativa dell’art. 2059 cod. civ., giacchè qualsiasi danno non patrimoniale, per il fatto stesso di essere tale, e cioè di toccare interessi della persona, sarebbe sempre risarcibile); (b) che la lesione dell’interesse sia grave, nel senso che l’offesa superi una soglia minima di tollerabilità (in quanto il dovere di solidarietà, di cui all’art. 2 Cost., impone a ciascuno di tollerare le minime intrusioni nella propria sfera personale inevitabilmente scaturenti dalla convivenza); (c) che il danno non sia futile, vale a dire che non consista in meri disagi o fastidi, ovvero nella lesione di diritti del tutto immaginari, come quello alla qualità della vita od alla felicità.

Nella fattispecie i ricorrenti si riferiscono ad una generica impossibilità di attendere alla normale attività realizzatrice della persona umana, senza indicare (e poi provare) quale fosse lo specifico diritto inviolabile costituzionalmente garantito, leso in modo serio.

7. Con il terzo motivo di ricorso la parte ricorrente lamenta la violazione degli artt. 91 e 92 c.p.c., per avere il giudice di appello condannato essa al pagamento del 50% delle spese del doppio grado di ciascun giudizio, pur essendo stati rigettati il primo ed il secondo motivo di appello ed accolti per quanto di ragione il terzo ed il quarto.

8. Il motivo è manifestamente infondato.

Le spese processuali devono essere regolate secondo il principio della soccombenza a norma dell’art. 91 c.p.c., salvo l’esistenza di motivi di compensazione di cui all’art. 92 c.p.c.. La soccombenza deve essere stabilita in base ad un criterio unitario e globale, con riferimento all’esito finale della lite (cfr. Cass. 10.9.2001, n. 11543), essendo irrilevante, a questo fine, che la domanda proposta sia stata accolta per una sola delle varie ragioni prospettate. Nella fattispecie,quindi, avendo il giudice di appello accolto l’appello dell’Enel e rigettata per intero la domanda di parte attrice, è irrilevante, al fine dell’affermazione della totale soccombenza della parte attrice che solo due motivi dell’appello siano stati accolti.

Ciò che rileva è che, all’esito del giudizio sull’appello, la domanda attrice è stata rigettata per intero”.

Diritto

RITENUTO IN DIRITTO

che il Collegio condivide i motivi in fatto e diritto esposti nella relazione;

che il ricorso deve, perciò, essere rigettato; che le spese seguono la soccombenza;

visti gli artt. 375 e 380 bis c.p.c..

P.Q.M.

Rigetta il ricorso. Condanna i ricorrenti in solido al pagamento delle spese del giudizio di cassazione sostenute dalla resistente e liquidate in complessivi Euro 400,00, di cui Euro 100,00 per spese, oltre spese generali ed accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 18 marzo 2010.

Depositato in Cancelleria il 29 aprile 2010

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