Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 10239 del 19/05/2015


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Civile Sent. Sez. 6 Num. 10239 Anno 2015
Presidente: PETITTI STEFANO
Relatore: PETITTI STEFANO

SENTENZA

sentenza con motivazione
semplificata

sul ricorso proposto da:
ROSSETTI Giacinto, AMMUCCIATO Agostino, AMMUCCIATO
Vincenzo, LONGO Antonietta, AMMUCCIATO Maria Assunta,
ZOCCO Antonio, CAGNAZZO Luigi, nella qualità di erede di
Cagnazzo Giovanni, AMMUCCIATO Laura, ROCCIA Lucia,
rappresentati e difesi, per procura speciale a margine del
ricorso, dall’Avvocato Cosimo Luperto, elettivamente
domiciliati in Rama, via dei Gracchi n. 39, presso l’Avv.
Annamaria Federico;
ricorrenti contro
MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, in persona del Ministro pro
tempore,

9.90

rappresentato e difeso dall’Avvocatura Generale

Data pubblicazione: 19/05/2015

dello Stato, presso i cui uffici in ‘Roma, via dei
Portoghesi n. 12, è domiciliato per legge;

controricorrente avverso il decreto della Corte d’Appello di Potenza,

Udita la relazione della causa svolta nella pubblica
udienza del 19 marzo 2015 dal Presidente relatore Dott.
Stefano Petitti.

Ritenuto che, con ricorso depositato in data 8 maggio
2012 presso la Corte d’appello di Potenza, ZOCCO Antonio,
AMMUCCIATO Agostino, AMMUCCIATO Laura, AMMUCCIATO Maria
Assunta, AMMUCCIATO Vincenzo, CAGNAZZO Luigi, nella
qualità di erede di Cagnazzo Giovanni, LONGO Antonietta,
ROCCIA Lucia e ROSSETTI Giacinto chiedevano la condanna
del Ministero della giustizia al pagamento del danno non
patrimoniale derivato dalla irragionevole durata della
procedura concernente il fallimento della Venturi
Investimenti S.p.A. (già Me.Fi S.p.A.), iniziata con
dichiarazione di fallimento da parte del Tribunale di
Lecce in data 11 ottobre 1993 e non ancora conclusasi alla
data della domanda;
che l’adita Corte d’appello, stimata come ragionevole
una durata di nove anni in considerazione della
complessità della stessa, riteneva che fosse
indennizzabile un ritardo di 8 anni, tenuto conto che

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depositato in data 11 giugno 2013, n. 657 del 2013.

l’inizio del procedimento doveva essere individuato nella
data di insinuazione al passivo, e liquidava ai ricorrenti
AMMUCCIATO Vincenzo, LONGO Antonietta e ROSSETTI Giacinto
un indennizzo di euro 4.000,00 pro capite, determinato

ritardo in ragione del comportamento contemplativo degli
stessi;
che, in applicazione delle disposizioni modificative
della legge n. 89 del 2001, introdotte dal decreto-legge
n. 83 del 2012, l’adita Corte liquidava, invece, agli
altri ricorrenti un indennizzo pari all’importo del
credito da ciascuno di essi azionato nella procedura
concorsuale, e cioè: C 3.626,00 per ZOCCO Antonio; C
176,00 per AMMUCCIATO Agostino;
Laura;

e 108,00 per AMMUCCIATO

e 199,00 per AMMUCCIATO Maria Assunta; C 2.109,00

per ROCCIA Lucia;
che l’adita Corte d’appello rigettava, invece, la
domanda proposta da CAGNAZZO Luigi, quale erede di
Cagnazzo Giovanni, ritenendo che alla data del decesso del
dante causa il termine di ragionevole durata non fosse
ancora decorso;
che avverso questo decreto i ricorrenti in epigrafe
indicati hanno proposto ricorso, affidato a quattro
motivi;

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sulla base del criterio di 500,00 euro per ogni anno di

che

l’intimato

Ministero

ha

resistito

con

controricorso.

Considerato che il Collegio ha deliberato l’adozione
della motivazione semplificata nella redazione della

che con il primo motivo i ricorrenti deducono
violazione o falsa applicazione degli artt. 2 e ss. della

legge

n. 89 del 2001, dell’art. l della legge

costituzionale 23 novembre 1999, n. 2, dell’art. 2056 cod.
civ., dell’art. 111 Costituzione e dell’art. 6.1. della
CEDU, nonché vizio di motivazione contraddittoria ed
omesso esame su fatti decisivi, dolendosi del fatto che la
Corte d’appello abbia determinato la durata ragionevole
della procedura fallimentare presupposta in nove anni, in
contrasto con le indicazioni della giurisprudenza di
legittimità, secondo cui la detta durata può essere al
massimo di sette anni;
che la Corte d’appello, ad avviso dei ricorrenti non
avrebbe neppure adeguatamente illustrato le ragioni
specifiche che nel caso esaminato inducevano a ritenere
ragionevole una durata di nove anni, né avrebbe
considerato che dalla relazione della curatrice
fallimentare emergevano elementi nel senso della non
complessità della procedura;

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sentenza;

che l’adita Corte non avrebbe, poi, tenuto conto, ai
fini del computo della durata complessiva della procedura,
della data di deposito della sentenza dichiarativa di
fallimento, individuando, invece, il momento iniziale

allo stato passivo dei ricorrenti, nonché del dante causa
del ricorrente CAGNAZZO Luigi;
che con il secondo motivo di ricorso si deduce
violazione dell’art. 110 cod. proc. civ., nonché vizio di
motivazione contraddittoria ed omesso esame su fatti
decisivi in relazione alla posizione del ricorrente
CAGNAZZO Luigi (erede di CAGNAZZO Giovanni) al quale
l’adita Corte d’Appello ha negato l’indennizzo ritenendo
che, alla data del decesso del suo dante causa (10
febbraio 2000), la durata della procedura fallimentare non
risultasse ancora irragionevole;
che, con il terzo motivo di ricorso i ricorrenti
lamentano altra violazione dell’art. 2 e ss. della legge
n. 89 del 2001, degli artt. 2056, 1223, 1226 cod. civ.,
dell’art. l legge cost. 23 novembre 1999, n. 2, dell’art.
6, par. l della CEDU, dell’art. 11 delle preleggi,
dell’art. 55 del decreto-legge n. 83 del 2012 e dell’art.
2-bis

della legge n. 134 del 2012, nonché vizio di

motivazione contraddittoria e omesso esame su fatti
decisivi;

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della procedura nella data della domanda di insinuazione

che, in particolare, i ricorrenti censurano il decreto
Impugnato per avere la Corte d’appello liquidato a taluni
ricorrenti un indennizzo pari all’importo del credito da
ciascuno di essi azionato nella procedura concorsuale,

all’art. 2-bis citato – la quale prevede che l’indennizzo
non possa superare il valore della causa in relazione alla
quale viene chiesto -, sebbene la stessa sia applicabile
ai soli ricorsi depositati dopo l’entrata in vigore della
legge di conversione;
che, sempre con il terzo motivo, i ricorrenti
censurano il decreto impugnato per essersi la Corte
d’appello discostata dai parametri relativi all’entità
degli indennizzi che la giurisprudenza di questa Corte ha
enucleato (e che prevedono un indennizzo non inferiore a
750,00 euro per ciascuno dei primi tre anni eccedenti la
durata ragionevole e a 1.000,00 per ciascuno dì quelli
successivi), avendo riconosciuto ai ricorrenti AMMUCCIATO
Vincenzo, LONGO Antonietta e ROSSETTI Giacinto un
indennizzo pari a 500,00 euro per ogni Anno di ritardo
sulla base del loro comportamento contemplativo nonché
tenendo conto del principio espresso dall’art.

2 bis della

legge n. 134 del 2012, per il quale l’indennizzo non può
in nessun caso essere superiore al valore della causa;

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facendo così applicazione della disposizione di cui

dunque, nel caso di specie, al valore del credito azionato
da ciascun ricorrente nella procedura concorsuale;
che con il quarto motivo i ricorrenti lamentano che la
Corte di appello abbia liquidato l’indennizzo tenendo

in misura non omogenea per tutti i ricorrenti, in
violazione dell’art. 3 Cost. e degli artt. 2056, 1223,
1226 cod. civ., nonché vizio di motivazione
contraddittoria e omesso esame su fatti decisivi;
che all’esame dei motivi occorre premettere che la
presente controversia non è soggetta,

ratione temporis,

all’applicazione delle disposizioni introdotte dal d.l. n.
83 del 2012, convertito, con modificazione, dalla legge n.
134 del 2012, applicabili ai ricorsi depositati a
decorrere dal trentesimo giorno successivo a quello di
entrata in vigore della legge di conversione;
che, del resto, alle disposizioni introdotte nel 2012
non può neanche riconoscersi natura di norme di
interpretazione autentica, atteso che, se è vero che per
alcuni aspetti vengono recepiti orientamenti della
giurisprudenza di questa Corte mutuati dalla
giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo,
non vi è nulla nel decreto-legge n. 83 del 2012 che possa
indurre a ritenere che il legislatore abbia inteso
attribuire alle nuove disposizioni efficacia retroattiva,

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conto del valore dei crediti ammessi al passivo, e dunque

avendo, anzi, espressamente dettato una specifica
previsione per l’ entrata in vigore della nuova
disciplina;
che, tanto premesso, il primo motivo di ricorso è

che, invero, questa Corte ha avuto modo di affermare
(Cass. n. 8468 del 2012) che la durata ragionevole delle
procedure fallimentari può essere stimata in cinque anni
per quelle di media complessità, ed è elevabile fino a
sette anni allorquando il procedimento si presenti
notevolmente complesso; ipotesi, questa, ravvisabile in
presenza di un numero elevato di creditori, di una
particolare natura o situazione giuridica dei beni da
liquidare (partecipazioni societarie, beni indivisi ecc.),
della proliferazione di giudizi connessi alla procedura,
ma autonomi e quindi a loro volta di durata condizionata
dalla complessità del caso, oppure della pluralità delle
procedure concorsuali interdipendenti;
che, nel caso di specie, la Corte d’appello si è
discostata dall’indicato orientamento ritenendo
ragionevole una durata di nove anni per via della
“complessità del caso”; elemento – questo – che già
concorre a considerare ragionevole la durata di sette anni
in luogo di cinque;

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fondato per quanto di ragione;

che il motivo è invece infondato nella parte in cui i
ricorrenti pretendono di far risalire l’inizio della
procedura rilevante ai fini dell’equa riparazione alla
dichiarazione di fallimento, atteso che correttamente la

domanda di insinuazione al passivo (Cass. n. 2207 del
2010; Cass. n. 20732 del 2011);
che il secondo motivo di ricorso è infondato;
che la continuità della posizione processuale degli
eredi intervenuti rispetto a quella del dante causa
prevista dall’art. 110 cod. proc. civ., nel caso di specie
del ricorrente CAGNAZZO Luigi, non toglie che il sistema
sanzionatorio delineato dalla CEDU e tradotto in norme
nazionali dalla legge n. 89 del 2001, non si fonda
sull’automatismo di una pena pecuniaria a carico dello
Stato, ma sulla somministrazione di sanziofii ( riparatorie a
beneficio di chi dal ritardo abbia ricevuto danni
patrimoniali o non patrimoniali, mediante indennizzi
modulabili in relazione al concreto patema subito, il
quale presuppone la conoscenza del processo e l’interesse
alla sua rapida conclusione (principio oramai consolidato:
vedi, da ultimo, Cass. n. 10517 del 2013; Cass. n. 995 del
2012);
che, dunque, essendo presupposto ineliminabile per la
legittimazione a far valere l’equa riparazione l’incidenza

9

Corte d’appello ha fatto riferimento alla data della

che la non congrua durata del giudizio abbia su chi di
quel giudizio sia chiamato a far parte, non vi è luogo a
discorrere di equa riparazione sin tanto che il chiamato
all’eredità non sia, quanto meno, evocato in riassunzione,

prova dell’assunzione – per accettazione espressa o per

facta concludentia

della stessa qualità di erede (Case.

n. 4003 del 2014);
che tale principio risulta estensibile anche al caso
in cui il procedimento presupposto sia una procedura
fallimentare in quanto, senza una espressa manifestazione
in tal senso da parte dell’erede, alcuna prova può essere
data del patema d’animo sofferto in proprio dallo stesso a
causa della lungaggine processuale;
che il terzo motivo di ricorso è infondato nella parte
in cui si lamenta che la Corte d’Appello abbia liquidato
ai ricorrenti AMMUCCIATO Vincenzo, LONGO Antonietta e
ROSSETTI Giacinto un indennizzo pari ad C 500,00 per ogni
anno di ritardo;
che, invero, questa Corte ha già avuto modo di
chiarire che, se è vero che il giudice nazionale deve, in
linea di principio, uniformarsi ai criteri di liquidazione
elaborati dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo
(secondo cui, data l’esigenza di garantire che la
liquidazione sia satisfattiva di un danno e non

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atteso che fino a quel momento può mancare addirittura la

indebitamente lucrativa, la quantificazione del danno non
patrimoniale deve essere, di regola, non inferiore a Euro
750,00 per ogni anno di ritardo, in relazione ai primi tre
anni eccedenti la durata ragionevole, e non inferiore a

in capo allo stesso giudice, il potere di discostarsene,
in misura ragionevole, qualora, avuto riguardo alle
peculiarità della singola fattispecie, ravvisi elementi
concreti di positiva smentita di detti criteri, dei quali
deve dar conto in motivazione (Cass. n. 18617 del 2001;
Cass. n. 17922 del 2010);
che, d’altra parte, la Corte d’appello, pur affermando
di tenere conto del disposto dell’art.
n. 89 del 2001,

2-bis della legge

ratione temporis non applicabile al caso

di specie, ha tuttavia proceduto alla liquidazione
dell’indennizzo adottando un criterio già presente nella
giurisprudenza di legittimità, e ritenuto congruo, con
riferimento alle procedure fallimentari, a ristorare il
pregiudizio sofferto;
che il criterio adottato dal giudice di merito appare,
infatti, in linea con le soglie dettate tanto dalla
giurisprudenza Europea quanto da quella nazionale, in cui
si è ritenuto che il criterio di 500,00 euro per ano di
ritardo è congruo in relazione alle procedure fallimentari
(di recente, Cass. n. 16311 del 2014);

11

Euro 1.000,00 per quelli successivi), permane, tuttavia,

che non vale ad inficiare la valutazione della Corte
d’appello il rilievo secondo cui, pur avendo la stessa
affermato di voler valorizzare il criterio del valore
della posta in gioco, ha poi finito per liquidare un

passivo per crediti significativamente differenti,
perché la Corte

proprio

territoriale non ha applicato la nuova

disciplina ma, in base ai criteri desumibili dalla
giurisprudenza di legittimità, ha inteso solo discostarsi,
in senso riduttivo, dall’ordinario criterio di
liquidazione;
che il terzo motivo di ricorso è, invece, fondato
nella parte in cui si contesta che ad alcuni ricorrenti
sia stato liquidato un indennizzo pari al valore del
credito da ciascuno di essi azionato nella procedura
concorsuale;
che, infatti, esclusa la diretta applicabilità della
nuova normativa di cui

all’art.

2 bis della legge n. 89

del 2001, introdotto dal decreto-legge n. 83 del 2012,
deve rilevarsi che la Corte d’appello, pur potendo – come
prima rilevato – discostarsi dagli ordinari criteri di
liquidazione, ha attuato una liquidazione che assume come
vincolante e come limite massimo il valore del credito
ammesso

al passivo,

mentre,

secondo la

costante

giurisprudenza di questa Corte, la maggiore o minore

12

indennizzo uguale pur a fronte di creditori ammessi al

entità della posta in gioco può incidere sulla misura
dell’indennizzo, consentendo al giudice di scendere anche
al di sotto della soglia minima (Cass. n. 12937 del 2012),
ma non anche di parificare la liquidazione al valore della

che il quarto motivo di ricorso rimane assorbito
dall’accoglimento del precedente;
che, dunque, accolti il primo e il terzo motivo,
relativamente alle censure ritenute fondate, rigettato il
secondo, assorbito il quarto, il decreto impugnato deve
essere cassato;
che, tuttavia, non apparendo necessari ulteriori
accertamenti di fatto, la causa può essere decisa nel
merito ai sensi dell’art. 384, secondo coma, cod. proc.
civ.;
che, infatti, accertata la irragionevole durata della
procedura fallimentare in anni 10 (eccedenti i 7 previsti
per procedure fallimentari di particolare complessità
quale quella in oggetto, stante l’altissimo numero di
domande di ammissione allo stato passivo e la pluralità di
azioni giudiziarie ancora pendenti intraprese
nell’interesse del fallimento per il recupero di crediti),
alla liquidazione dell’indennizzo può procedersi
applicando il criterio adottato dalla Corte territoriale,

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causa in cui si è verificata la violazione;

determinandone l’ammontare,

in favore di ciascun

ricorrente, in Euro 5.000,00;
che il Ministero della giustizia deve quindi essere
condannato al pagamento, in favore di ROSSETTI Giacinto,

Antonietta, AMMUCCIATO Maria Assunta, ZOCCO Antonio,
AMMUCCIATO Laura, ROCCIA Lucia, della somma di euro
5.000,00, oltre agli interessi legali dalla domanda al
soddisfo, ferme le statuizioni del decreto Impugnato in
ordine alle spese del giudizio, ivi compresa quella
relativa alla distrazione;
che il Ministero deve essere condannato altresì alla
rifusione delle spese del giudizio di cassazione,
liquidate come da dispositivo.
PER QUESTI MOTIVI
La Corte
cassa

accoglie il ricorso per quanto di ragione;

il decreto impugnato in relazione alle censure

accolte e, decidendo nel merito,

condanna

il Ministero

della giustizia al pagamento, in favore di ROSSETTI
Giacinto, AMMUCCIATO Agostino, AMMUCCIATO Vincenzo, LONGO
Antonietta, AMMUCCIATO

Maria

Assunta, ZOCCO Antonio,

AMMUCCIATO Laura, ROCCIA Lucia, della somma di euro
5.000,00, oltre agli interessi legali dalla data della
domanda al saldo, ferme le statuizioni in ordine alle
spese del giudizio di merito; rigetta il ricorso di

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AMMUCCIATO Agostino, AMMUCCIATO Vincenzo, LONGO

Cagnazzo Luigi, nella qualità;

condanna

altresì il

Ministero alla rifusione delle spese giudizio di
cassazione, in euro 700,00 per compensi, oltre agli
accessori di legge e alle spese forfettarie.

VI – 2 Sezione civile della Corte suprema di cassazione,

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della

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