Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 10237 del 19/05/2015


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Civile Sent. Sez. 6 Num. 10237 Anno 2015
Presidente: PETITTI STEFANO
Relatore: PETITTI STEFANO

SENTENZA

sentenza con motivazione
semplificata

sul ricorso proposto da:
VIZZINO Giovanni, ZEZZA Angela, PAGLIALUNGA Rocco, VIZZINO
Luigi Salvatore, MAGRI’ Agostino, BELLO Maurizio, COLUCCIA
Salvatore, D’ALBA Margherita, BELLO Achille, BELLO
Giuliano, rappresentati e difesi, per procura speciale a
margine del ricorso, dall’Avvocato Costano Luperto, e
elettivamente domiciliati in Roma, via dei Gracchi n. 39,
presso l’Avv. Annamaria Federico;
ricorrenti

contro
MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, in persona dal Ministro pro
tempore,

29-0(o

rappresentato e difeso díll’Avvocatura Generale

Data pubblicazione: 19/05/2015

dello Stato, presso i cui uffici in Roma, via dei
Portoghesi n. 12, è domiciliato per legge;
controxicorrente

avverso il decreto dalla Corte d’Appello di Potenza,

Udita la relazione dalla causa svolta nella pubblica
udienza del 19 marzo 2015 dal Presidente relatore Dott.
Stefano Petitti.
Ritenuto che, con ricorso depositato in data 8 maggio
2012 presso la Corte d’appello di Potenza, COLUCCIA
Salvatore, BELLO Achille, BELLO Giuliano, BELLO Maurizio,
D’ALBA Margherita, MAGRI’ Agostino, PAGLIALUNGA Rocco,
VIZZINO Giovanni, VIZZINO Luigi Salvatore e ZEZZA Angela
chiedevano la condanna del Ministero della giustizia al
pagamento del danno non patrimoniale derivato dalla
irragionevole durata della procedura concernente il
fallimento della Venturi Investimenti S.p.A. (già Me.Fi
S.p.A.), iniziata con dichiarazione di fallimento da parte
del Tribunale di Lecce in data 11 ottobre 1993 e non
ancora conclusasi alla data della domanda;
che l’adita Corte d’appello, stimata come ragionevole
una durata di nove anni in considerazione della
complessità della stessa, riteneva che fosse
indennizzabile un ritardo di 8 anni, tenuto conto

che

l’inizio del procedimento doveva essere individuato nella

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depositato in data 11 giugno 2013, n. 650 del 2013.

data di insinuazione al passivo, e liquidava a tutti i
ricorrenti, ad eccezione dei ricorrenti Bello Giuliano e
Bello Maurizio, un indennizzo di euro 4.000,00 ciascuno,
determinato sulla base del criterio di 500,00 euro per

contemplativo degli stessi, mentre in favore di Bello
Giuliano e Bello Maurizio liquidava le minori somme,
rispettivamente, di euro 3.618,00 e 2.582,00, seguendo la
indicazioni desumibili dall’art. 2-bis della legge n. 89
del 2001, introdotto dalla legge n. 134 del 2012, in base
al quale l’indennizzo non può essere, in ogni caso,
superiore al valore della causa, e, dunque, nel caso di
specie, all’importo del credito azionato da ciascuno dei
ricorrenti;
che avverso questo decreto i ricorrenti in epigrafe
indicati hanno proposto ricorso, affidato a quattro
motivi;
che

l’intimato

Ministero

ha

resistito

con

controricorso.
Considerato che il Collegio ha deliberato l’adozione
della motivazione semplificata nella redazione della
sentenza;
che con il primo motivo i ricorrenti deducono
violazione o falsa applicazione dell’art. 2 della legge n.
89 del 2001, dell’art. 6, par. l, della CEDU, dell’art.

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ogni anno di ritardo in ragione dell’atteggiamento quasi

111 Cost., nonché dell’art. 2056 cod. civ. e vizio di
motivazione omessa e contraddittoria ed omesso esame su
fatti decisivi, dolendosi del fatto che la Corte d’appello
abbia determinato la durata ragionevole della procedura

indicazioni della giurisprudenza di legittimità, secondo
cui la detta durata può essere al massimo di sette anni;
che la Corte d’appello, ad avviso dei ricorrenti non
avrebbe neppure adeguatamente illustrato le ragioni
specifiche che nel caso esaminato inducevano a ritenere
ragionevole una durata di nove anni, né avrebbe
considerato che dalla relazione della curatrice
fallimentare emergevano elementi nel senso della non
complessità della procedura;
che l’adita Corte non avrebbe, poi, tenuto conto, ai
fini del computo della durata complessiva della procedura,
della data di deposito della sentenza dichiarativa di
fallimento, individuando, invece, il momento iniziale
della procedura nella data della domanda di insinuazione
allo stato passivo dei ricorrenti;
che con il secondo motivo i ricorrenti denunciano
altra violazione dell’art. 2 della legge n. 89 del 2001,
dell’ art. 2056 cod. civ., dell’art. 1 della

legge

costituzionale n. 2 del 1999, dell’art. 6, par. 1, della
CEDU e dell’art. 111 Costituzione, nonché vizio di

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fallimentare presupposta in nove anni, in contrasto con le

motivazione contraddittoria e omesso esame su fatti
decisivi, censurando il decreto impugnato per essersi la
Corte d’appello discostata dai parametri relativi
all’entità dagli indennizzi che la giurisprudenza di

non inferiore a 750 euro per ciascuno dei primi tre anni
eccedenti la durata ragionevole e a 1.000,00 euro per
ciascuno di quelli successivi), avendo riconosciuto ai
ricorrenti un indennizzo pari a 500,00 euro per ogni anno
di ritardo;
che con il terzo motivo i ricorrenti denunciano altra
violazione dell’art. 2 della legge n. 89 del 2001, degli
artt. 2056, 1223 e 1226 cod. civ., dell’art. 1 della legge
costituzionale n. 2 del 1999, dell’art. 6, par. 1, della
CEDU, dell’art. 11 delle preleggi, dell’art. 55 D.L.
83/2012 e dell’art.

2-bis della legge n. 134 del 2012,

nonché vizio di motivazione contraddittoria e omesso esame
su fatti decisivi, censurando il decreto impugnato per
avere la Corte d’appello fatto applicazione della
disposizione da ultimo citata – la quale effettivamente
prevede che l’indennizzo non possa superare il valore
della causa in relazione alla quale viene chiesto sebbene la stessa sia applicabile ai soli ricorsi
depositati dopo l’entrata in vigore della legge di
conversione;

-5-

questa Corte ha enucleato (e che prevedono un indennizzo

che con il quarto motivo i ricorrenti lamentano che la
Corte di appello abbia liquidato l’indennizzo tenendo
conto del valore dei crediti ammessi al passivo, e dunque
in misura non omogenea per tutti i ricorrenti, in

2056 cod. civ., nonché con motivazione contraddittoria ed
incorrendo in omesso esame su fatti decisivi;
che all’esame dei motivi occorre premettere che la
presente controversia non è soggetta,

ratione temporis,

all’applicazione delle disposizioni introdotte dal d.l. n.
83 del 2012, convertito, con modificazione, dalla legge n.
134 del 2012, applicabili ai ricorsi depositati a
decorrere dal trentesimo giorno successivo a quello di
entrata in vigore della legge di conversione;
che, del resto, alle disposizioni introdotte nel 2012
non può neanche riconoscersi natura di norme di
interpretazione autentica, atteso che, se è vero che per
alcuni aspetti vengono recepiti orientamenti della
giurisprudenza di questa Corte mutuati dalla
giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo,
non vi è nulla nel decreto-legge n. 83 del 2012 che possa
indurre a ritenere che il legislatore abbia inteso
attribuire alle nuove disposizioni efficacia retroattiva,
avendo, anzi, espressamente dettato una specifica

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violazione dell’art. 3 Cost., degli artt. 1223, 1226 e

previsione per

entrata in vigore della nuova

disciplina;
che, tanto premesso, il primo motivo di ricorso è
fondato per quanto di ragione;

(Casa. n. 8468 del 2012) che la durata ragionevole delle
procedure fallimentari può essere stimata in cinque anni
per quelle di media complessità, ed è elevabile fino a
sette anni allorquando il procedimento si presenti
notevolmente complesso; ipotesi, questa, ravvisabile in
presenza di un numero elevato di creditori, di una
particolare natura o situazione giuridica dei beni da
liquidare (partecipazioni societarie, beni indivisi ecc.),
della proliferazione di giudizi connessi alla procedura,
ma autonomi e quindi a loro volta di durata condizionata
dalla complessità del caso, oppure della pluralità delle
procedure concorsuali interdipendenti;
che, nel caso di specie, la Corte d’appello si è
discostata dall’indicato orientamento ritenendo
ragionevole una durata di nove anni per via della
“complessità del caso”; elemento questo – che già
concorre a considerare ragionevole la durata di sette anni
in luogo di cinque;
che il motivo è invece infondato nella parte in cui i
ricorrenti pretendono di far risalire l’inizio della

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che, invero, questa Corte ha avuto modo di affermare

procedura rilevante ai fini dell’equa riparazione alla
dichiarazione di fallimento, atteso che correttamente la
Corte d’appello ha fatto riferimento alla data della
domanda di insinuazione al passivo (Casa. n. 2207 del

che il secondo motivo di ricorso è infondato;
che, invero, questa Corte ha già avuto modo di
chiarire che, se è vero che il giudice nazionale deve, in
linea di principio, uniformarsi ai criteri di liquidazione
elaborati dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo
(secondo cui, data l’esigenza di garantire che la
liquidazione sia satisfattiva di un danno e non
indebitamente lucrativa, la quantificazione del danno non
patrimoniale deve essere, di regola, non inferiore a Euro
750,00 per ogni anno di ritardo, in relazione ai primi tre
anni eccedenti la durata ragionevole, e non inferiore a
Euro 1.000,00 per quelli successivi), permane, tuttavia,
in capo allo stesso giudice, il potere di discostarsene,
in misura ragionevole, qualora, avuto riguardo alle
peculiarità della singola fattispecie, ravvisi elementi
concreti di positiva smentita di detti criteri, dei quali
deve dar conto in motivazione (Cass. n. 18617 del 2001;
Casa. n. 17922 del 2010);
che il criterio adottato dal giudice di merito appare
in linea con le soglie dettate tanto dalla giurisprudenza

-8-

2010; Cass. n. 20732 del 2011);

Europea quanto da quella nazionale, in cui si è ritenuto
che il criterio di 500,00 euro per ano di ritardo è
congruo in relazione alle procedure fallimentari (Cass. n.
16311 del 2014);

che non vale ad inficiare la valutazione della Corte
d’appello il rilievo secondo cui, pur avendo la stessa
affermato di voler valorizzare il criterio del valore
della posta in gioco, ha poi finito per liquidare un
indennizzo uguale pur a fronte di creditori ammessi al
passivo per crediti significativamente differenti, proprio
perché la Corte territoriale non ha applicato la nuova
disciplina ma, in base ai criteri desumibili dalla
giurisprudenza di legittimità, ha inteso solo discostarsi,
in senso riduttivo, dall’ordinario criterio di
liquidazione;
che tali considerazioni consentono anche di ritenere
infondato il quarto motivo di ricorso;
che il terzo motivo di ricorso è invece fondato;
che, infatti, esclusa la diretta applicabilità al caso
di specie della nuova normativa di cui all’art. 2-bis
della legge n. 89 del 2001, introdotto dal decreto-legge
n. 83 del 2012, deve rilevarsi che la Corte d’appello, pur
potendo – come prima rilevato – discostarsi dagli ordinari
criteri di liquidazione, ha attuato una liquidazione che
assume come vincolante e come limite massimo il valore del

-9-

i’ t

credito ammesso al passivo, mentre, secondo la costante
giurisprudenza di questa Corte, la maggiore o minore
entità della posta in gioco può incidere sulla misura
dell’indennizzo, consentendo al giudice di scendere anche

ma non anche di parificare la liquidazione al valore della
causa in cui si è verificata la violazione;
che, dunque, accolti il primo ed il terzo motivo di
ricorso, rigettati il secondo e il quarto, il decreto
Impugnato deve essere cascato in relazione alle censure
accolte;
che, tuttavia, non apparendo necessari ulteriori
accertamenti di fatto, la causa può essere decisa nel
merito ai sensi dell’art. 384, secondo comma, cod. proc.
civ.;
che, infatti, accertata la irragionevole durata della
procedura fallimentare in anni 10 (eccedenti i 7 previsti
per procedure fallimentari di particolare complessità
quale quella in oggetto, stante l’altissimo numero di
domande di ammissione allo stato passivo e la pluralità di
azioni giudiziarie intraprese nell’interesse del
fallimento per il recupero di crediti), alla liquidazione
dell’indennizzo può procedersi applicando il criterio
adottato dalla Corte territoriale, depurato dall’erroneo
abbattimento operato con riferimento al valore della posta

-lo-

al di sotto della soglia minima (Case. n. 12937 del 2012),

in gioco, determinandone così l’ammontare, in favore di
ciascun ricorrente, in Euro 5.000,00;
che il Ministero della giustizia deve quindi essere
condannato al pagamento, in favore di ciascun ricorrente,

dalla domanda al soddisfo, ferma la statuizione relativa
alle spese del giudizio di merito, ivi compresa la
distrazione in favore del difensore antistatario;
che il Ministero deve essere condannato altresì alla
rifusione delle spese del giudizio di cassazione,
liquidate come da dispositivo.
PER QUESTI MOTIVI
La Corte

accoglie

il primo e il terzo motivo di

ricorso per quanto di ragione; rigetta il secondo e il
quarto;

cassa

il decreto impugnato in relazione alle

censure accolte e, decidendo nel merito,

condanna

il

Ministero della giustizia al pagamento, in favore di
ciascuno dei ricorrenti, della somma di euro 5.000,00,
oltre agli interessi legali dalla data della domanda al
saldo, ferme le statuizioni in ordine alle spese del
giudizio di merito;

condanna

altresì il Ministero alla

rifusione delle spese giudizio di cassazione, in euro
700,00 per compensi, oltre agli accessori di legge e alle
spese forfettarie.

della somma di euro 5.000,00, oltre agli interessi legali

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della

VI – 2 Sezione civile della Corte suprema di cassazione,

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