Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 10235 del 19/05/2015


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Civile Sent. Sez. 6 Num. 10235 Anno 2015
Presidente: PETITTI STEFANO
Relatore: PETITTI STEFANO

sentenza con motivazione
semplificata

SENTENZA
sul ricorso proposto da:

CAMPA Aldo, PATERA Antonio, MIGGIANO Paola, STINCONE
Antonio, SINDICO Concetta, rappresentati e difesi, per
procura speciale a margine del ricorso, dall’Avvocato
Cosimo Luperto, elettivamente domiciliati in Roma, via dei
Gracchi n. 39, presso l’Avv. Annamaria Federico;
ricorrenti –

contro
MINISTERO DELLA GIUSTIZIA,
tempore,

in persona del Ministro

pro

rappresentato e difeso dall’Avvocatura Generale

dello Stato, presso cui uffici in Roma, via dei
Portoghesi n. 12, è domiciliato per legge;
– controri corrente –

Data pubblicazione: 19/05/2015

avverso il decreto della Corte d’Appello di Potenza,
depositato in data 30 aprile 2013, n. 481 del 2013.
Udita la relazione della causa svolta nella pubblica

udienza del 19 marzo 2015 dal Presidente relatore Dott.

Ritenuto che, con ricorso depositato in data 29 marzo
2012 presso la Corte d’appello di Potenza MIGGIANO Paola,
CAMPA Aldo, PATERA Antonio, SINDICO Concetta e STINCONE
Antonio chiedevano la condanna del Ministero della
giustizia al pagamento del danno non patrimoniale derivato
dalla irragionevole durata della procedura concernente il
fallimento della Venturi Investimenti S.p.A. (già Me.Fi
S.p.A.), iniziata con dichiarazione di fallimento da parte
del Tribunale di Lecce in data 11 ottobre 1993 e non
ancora conclusasi alla data della domanda;
che l’adita Corte d’appello, stimata come ragionevole
una durata di nove anni in considerazione della
complessità della procedura, riteneva che fosse
indennizzabile un ritardo di 8 anni, tenuto conto che
l’inizio del procedimento doveva essere individuato nella
data di insinuazione al passivo, e liquidava ai ricorrenti
PATERA Antonio, MIGGIANO Paola, STINCONE Antonio, SINDICO
Concetta un indennizzo di euro 4.000,00

pro

capite,

determinato sulla base del criterio di 500,00 euro per

Stefano Petitti.

ogni anno di ritardo in ragione dell’atteggiamento quasi
contemplativo degli stessi;
che, tenuto conto del criterio interpretativo
desumibile dalle disposizioni modificative della legge n.

la Corte d’appello liquidava, invece, al ricorrente CAMPA
Aldo un indennizzo pari all’importo del credito azionato
nella procedura concorsuale, e cioè pari ad euro 1.495,00;
che avverso questo decreto i ricorrenti in epigrafe
indicati hanno proposto ricorso, affidato a quattro
motivi;
che

l’intimato

Ministero

ha

resistito

con

controricorso.
Considerato che il Collegio ha deliberato l’adozione
della motivazione semplificata nella redazione della
sentenza;
che con il primo motivo i ricorrenti deducono
violazione o falsa applicazione degli artt. 2 e ss. della
legge n. 89 del 2001, dell’art. 2056 cod. civ., dell’art.
111 Cost. e dell’art. 6, par. 1, della CEDU, nonché vizio
di motivazione omessa e contraddittoria ed omesso esame su
fatti decisivi, dolendosi del fatto che la Corte d’appello
abbia determinato la durata ragionevole della procedura
fallimentare presupposta in nove anni, in contrasto con le

89 del 2001, introdotte dal decreto-legge n. 83 del 2012,

indicazioni della giurisprudenza di legittimità, secondo
cui la detta durata può essere al massimo di sette anni;
che la Corte d’appello, ad avviso dei ricorrenti non
avrebbe neppure adeguatamente illustrato le ragioni

ragionevole una durata di nove anni, né avrebbe
considerato che dalla relazione della curatrice
fallimentare emergevano elementi nel senso della non
complessità della procedura;
che con il secondo motivo i ricorrenti denunciano
altra violazione degli artt. 2 e ss. della legge n. 89 del
2001, dell’ art. 2056 cod. civ., dell’art. l della legge
costituzionale n. 2 del 1999, dell’art. 6, par. l, della
CEDU e dell’art. 111 Cost., nonché vizio di motivazione
contraddittoria e omesso esame su fatti decisivi,
censurando il decreto impugnato per essersi la Corte
d’appello discostata dai parametri relativi all’entità
degli indennizzi che la giurisprudenza della Suprema Corte
di Cassazione ha enucleato (e che prevedono un indennizzo
non inferiore a 750,00 euro per ciascuno dei primi tre
anni eccedenti la durata ragionevole e a 1.000,00 euro per
ciascuno di quelli successivi), avendo riconosciuto ai
ricorrenti PATERA Antonio, MIGGIANO Paola, STINCONE
Antonio, SINDICO Concetta un indennizzo pari a 500 euro
per ogni anno di ritardo e al ricorrente CAMPA Aldo un

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specifiche che nel caso esaminato inducevano a ritenere

indennizzo pari all’importo del credito dallo stesso
azionato nella procedura concorsuale, e cioè pari ad euro
1.495,00;
che con il terzo motivo i ricorrenti denunciano altra

artt. 2056, 1223 e 1226 cod. civ., dell’art. 1 della legge
costituzionale n. 2 del 1999, dell’art. 6, par. l, della
CEDU, dell’art. 11 delle preleggi, dell’art. 55 del
decreto-legge n. 83 del 2012 e dell’art.

2-bis della legge

n. 134 del 2012, nonché vizio di motivazione
contraddittoria e omesso esame su fatti decisivi,
censurando il decreto impugnato per avere la Corte
d’appello fatto applicazione della disposizione da ultimo
citata – la quale effettivamente prevede che l’indennizzo
non possa superare il valore della causa in relazione alla
quale viene chiesto -, sebbene la stessa sia applicabile
ai soli ricorsi depositati dopo l’entrata in vigore della
legge di conversione;
che con il quarto motivo i ricorrenti lamentano che la
Corte di appello abbia liquidato l’indennizzo tenendo
conto del valore dei crediti ammessi al passivo, e dunque
in misura non omogenea per tutti i ricorrenti, in
violazione dell’art. 3 Cost. e degli artt. 2056, 1223,
1226 cod. civ., nonché vizio di motivazione
contraddittoria e omesso esame su fatti decisivi;

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violazione dell’art. 2 della legge n. 89 del 2001, degli

che all’esame dei motivi occorre premettere che la
presente controversia non è soggetta, ratione

temporis,

all’applicazione delle disposizioni introdotte dal d.l. n.
83 del 2012, convertito, con modificazione, dalla legge n.

decorrere dal trentesimo giorno successivo a quello di
entrata in vigore della legge di conversione;
che, del resto, alle disposizioni introdotte nel 2012
non può neanche riconoscersi natura di norme di
interpretazione autentica, atteso che, se è vero che per
alcuni aspetti vengono recepiti orientamenti della
giurisprudenza di questa Corte mutuati dalla
giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo,
non vi è nulla nel decreto-legge n. 83 del 2012 che possa
indurre a ritenere che il legislatore abbia inteso
attribuire alle nuove disposizioni efficacia retroattiva,
avendo, anzi, espressamente dettato una specifica
previsione per l’ entrata in vigore della nuova
disciplina;
che, tanto premesso, il primo motivo di ricorso è
fondato;
che, invero, questa Corte ha avuto modo di affermare
(Cass. n. 8468 del 2012) che la durata ragionevole delle
procedure fallimentari può essere stimata in cinque anni
per quelle di media complessità, ed è elevabile fino a

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134 del 2012, applicabili ai ricorsi depositati a

sette anni allorquando il procedimento si presenti
notevolmente complesso; ipotesi, questa, ravvisabile in
presenza di un numero elevato di creditori, di una
particolare natura o situazione giuridica dei beni da

della proliferazione di giudizi connessi alla procedura,
ma autonomi e quindi a loro volta di durata condizionata
dalla complessità del caso, oppure della pluralità delle
procedure concorsuali interdipendenti;
che, nel caso di specie, la Corte d’appello si è
discostata dall’indicato orientamento ritenendo
ragionevole una durata di nove anni per via della
“complessità del caso”; elemento – questo – che già
concorre a considerare ragionevole la durata di sette anni
in luogo di cinque;
che il motivo è invece infondato nella parte in cui i
ricorrenti pretendono di far risalire l’inizio della
procedura rilevante ai fini dell’equa riparazione alla
dichiarazione di fallimento, atteso che correttamente la
Corte d’appello ha fatto riferimento alla data della
domanda di insinuazione al passivo (Cass. n. 2207 del
2010; Cass. n. 20732 del 2011);
che il secondo motivo di ricorso è infondato;
che, invero, questa Corte ha già avuto modo di
chiarire che, se è vero che il giudice nazionale deve, in

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liquidare (partecipazioni societarie, beni indivisi ecc.),

linea di principio, uniformarsi ai criteri di liquidazione
elaborati dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo
(secondo cui, data l’esigenza di garantire che la
liquidazione sia satisfattiva di un danno e non

patrimoniale deve essere, di regola, non inferiore a Euro
750,00 per ogni anno di ritardo, in relazione ai primi tre
anni eccedenti la durata ragionevole, e non inferiore a
Euro 1.000,00 per quelli successivi), permane, tuttavia,
in capo allo stesso giudice, il potere di discostarsene,
in misura ragionevole, qualora, avuto riguardo alle
peculiarità della singola fattispecie, ravvisi elementi
concreti di positiva smentita di detti criteri, dei quali
deve dar conto in motivazione (Cass. n. 18617 del 2001;
Cass. n. 17922 del 2010);
che la Corte d’appello, tenuto conto della entità dei
crediti ammessi e del comportamento dei creditori, i quali
neanche hanno dedotto in questa sede di avere manifestato
agli organi della procedura un loro specifico interesse
alla conclusione della stessa, ha ritenuto di potersi
discostare dagli ordinari criteri di liquidazione
dell’indennizzo, adottando quello di euro 500,00 per anno
di ritardo, giudicato come congruo nell’ormai prevalente e
più recente giurisprudenza di questa Corte Suprema in

indebitamente lucrativa, la quantificazione del danno non

relazione alle procedure fallimentari (Case. n. 16311 del
2014);
che non vale ad inficiare la valutazione della Corte
d’appello il rilievo secondo cui, pur avendo la stessa

della posta in gioco, ha poi finito per liquidare un
indennizzo uguale pur a fronte di creditori ammessi al
passivo per crediti significativamente differenti, proprio
perché la Corte territoriale non ha applicato la nuova
disciplina ma, in base ai criteri desumibili dalla
giurisprudenza di legittimità, ha inteso solo discostarsi,
in senso riduttivo, dall’ordinario criterio di
liquidazione;
che il terzo motivo di ricorso è fondato;
che, infatti, esclusa la diretta applicabilità della
nuova normativa di cui all’art.

2-bis della legge n. 89

del 2001, introdotto dal decreto-legge n. 83 del 2012,
deve rilevarsi che la Corte d’appello, pur potendo – come
prima rilevato – discostarsi dagli ordinari criteri di
liquidazione, ha attuato una liquidazione che assume come
vincolante e come limite massimo il valore del credito
ammesso al passivo, mentre, secondo la costante
giurisprudenza di questa Corte, la maggiore o minore
entità della posta in gioco può incidere sulla misura
dell’indennizzo, consentendo al giudice di scendere anche

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affermato di voler valorizzare il criterio del valore

al di sotto della soglia minima (Case. n. 12937 del 2012),
ma non anche di parificare la liquidazione al valore della
causa in cui si è verificata la violazione;
che il quarto motivo di ricorso rimane assorbito

che, dunque, accolto il primo ed il terzo motivo di
ricorso, rigettato il secondo e assorbito il quarto, il
decreto Impugnato deve essere cassato;
che, tuttavia, non apparendo necessari ulteriori
accertamenti di fatto, la causa può essere decisa nel
merito ai sensi dell’art. 384, secondo coma, cod. proc.
civ.;
che, infatti, accertata la irragionevole durata della
procedura fallimentare in anni 10 (eccedenti i 7 previsti
per procedure fallimentari di particolare complessità
quale quella in oggetto, stante l’altissimo numero di
domande di ammissione allo stato passivo e la pluralità di
azioni giudiziarie intraprese nell’interesse del
fallimento per il recupero di crediti), alla liquidazione
dell’indennizzo può procedersi applicando il criterio
adottato dalla Corte territoriale, determinandone
l’ammontare, in favore di ciascun ricorrente, in Euro
5.000,00;
che il Ministero della giustizia deve quindi essere
condannato al pagamento, in favore di ciascun ricorrente,

dall’accoglimento del precedente;

della somma di euro 5.000,00, oltre agli interessi legali
dalla domanda al soddisfo, ferme le statuizioni del
decreto impugnato in ordine alle spese del giudizio, ivi
compresa quella relativa alla distrazione;

rifusione delle spese del giudizio di cassazione,
liquidate come da dispositivo.
PER QUESTI MOTIVI
La Corte

accoglie

il primo e il terzo motivo di

ricorso, rigetta il secondo,

assorbito il quarto; cassa il

decreto impugnato in relazione alle censure accolte e,
decidendo nel merito,

condanna

il Ministero della

giustizia al pagamento, in favore di ciascuno dei
ricorrenti, della somma di euro 5.000,00, oltre agli
interessi legali dalla data della domanda al saldo, ferme
le statuizioni in ordine alle spese del giudizio di
merito; condanna altresì il Ministero alla rifusione delle
spese giudizio di cassazione, in euro 700,00 per compensi,
oltre agli accessori di legge e alle spese forfettarie.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della
VI – 2 Sezione civile della Corte suprema di cassazione,

che il Ministero deve essere condannato altresì alla

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