Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 10234 del 19/05/2015


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Civile Sent. Sez. 6 Num. 10234 Anno 2015
Presidente: PETITTI STEFANO
Relatore: PETITTI STEFANO

SENTENZA

sentenza con motivazione
semplificata

sul ricorso proposto da:
MARINO Antonella, SARCINELLA Francesco, MORCIANO Concetta,
PARROTTO Donato, MARZANO Liberata, ASTORE Anna Lucia,
rappresentati e difesi, per procure speciali a margine
del, e in calce al, ricorso, dall’Avvocato Cosimo Luperto,
elettivamente domiciliati in Roma, via dei Gracchi 39,
presso Annamaria Federico;
– ricorrenti
contro
MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, in persona del Ministro
tempore,

pro

rappresentato e difeso dall’Avvocatura Generale

dello Stato, presso cui uffici in Roma, via dei
Portoghesi n. 12, è domiciliato per legge;

Data pubblicazione: 19/05/2015

- controricorrente avverso il decreto della Corte d’Appello di Potenza,
depositato in data 30 aprile 2013, n. 500 del 2013.
Udita la relazione della causa svolta nella pubblica

Stefano Petitti.
Ritenuto

che, con ricorso depositato in data 29

settembre 2011 presso la Corte d’appello di Potenza,
SARCINELLA Francesco, ASTORE Anna Lucia, MARINO Antonella,
MARZANO Liberata, MORCIANO Concetta e PARROTTO Donato
chiedevano la condanna del Ministero della giustizia al
pagamento del danno non patrimoniale derivato dalla
irragionevole durata della procedura concernente il
fallimento della Ditta Antonio De Rocco S.p.a., iniziata
con dichiarazione di fallimento da parte del Tribunale di
Lecce in data 7 giugno 1988 e non ancora conclusasi alla
data della domanda;
che l’adita Corte d’appello, stimata come ragionevole
una durata di nove anni in considerazione della
complessità della procedura, riteneva che fosse
indennizzabile un ritardo di quattordici anni, tenuto
conto della complessità della controversia, del valore
della stessa e dell’atteggiamento “contemplativo” dei
ricorrenti, e considerando poi che l’inizio del
procedimento per ciascun creditore doveva essere

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udienza del 19 marzo 2015 dal Presidente relatore Dott.

individuato nella data di insinuazione al passivo,
liquidava un indennizzo di euro 4.168,00 in favore di
Sarcinella Francesco, di euro 3.873,00 in favore di Marino
Antonella, di euro 3.511,00 in favore di Màrzano Liberata,

3.803,00 in favore di Parrotto Donato, oltre interessi al
tasso legale dalla data di presentazione della domanda al
soddisfo, sul presupposto che l’indennizzo per
irragionevole durata non dovesse superare il valore della
causa;
che avverso questo decreto i ricorrenti in epigrafe
indicati hanno proposto ricorso, affidato a cinque motivi;
che l’intimato Ministero ha resistito con
controricorso.
Considerato che il Collegio ha deliberato l’adozione
della motivazione semplificata nella redazione della
sentenza;
che con il primo motivo i ricorrenti deducono
violazione o falsa applicazione degli artt. 2 e ss. della
legge n. 89 del 2001, dell’art. 6, par. l, della CEDU,
dell’art. 111 Cost. e dell’art. 2056 cod. civ., nonché
vizio di motivazione, dolendosi del fatto che la Corte
d’appello abbia determinato la durata ragionevole della
procedura fallimentare presupposta in nove anni, in
contrasto con le indicazioni della giurisprudenza di

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di euro 2.936,00 in favore di Morciano Concetta e di euro

legittimità, secondo cui la detta durata può essere al
massimo di sette anni;
che la Corte d’appello, ad avviso dei ricorrenti, non
avrebbe neanche illustrato le ragioni specifiche che nel

durata di nove anni, e non avrebbe considerato che dalla
relazione del curatore fallimentare emergevano elementi
nel senso della non complessità della procedura;
che con il secondo motivo i ricorrenti denunciano
altra violazione degli artt. 2 e ss. della legge n. 89
del 2001, dell’art. 111 Cost., dell’art. l della legge
costituzionale n. 2 del 1999, dell’art. 6, par. l, della
CEDU, dell’art. 2056 cod. civ., nonché vizio di
motivazione contraddittoria e omesso esame su fatti
decisivi, dolendosi della esiguità dell’indennizzo
riconosciuto, nonché del vizio di motivazione;
che, in particolare, i ricorrenti sostengono che la
Corte d’appello avrebbe errato nel qualificare come
contemplativo il loro comportamento, omettendo di
considerare che nella procedura fallimentare non sono
previsti strumenti sollecitatori in favore dei creditori e
nel ritenere che la posta in gioco non fosse rilevante;
che con il terzo motivo i ricorrenti deducono ancora
violazione dell’art. 2 della legge n. 89 del 2001, degli
artt. 2056, 1223 e 1226 cod. civ., dell’art. 1 della legge

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caso esaminato inducevano a ritenere ragionevole una

costituzionale n. 2 del 1999, dell’art. 6, par. l, della
CEDU, dell’art. 11 delle preleggi, dell’art. 55 del
decreto legge n. 83 del 2012 e dell’art.

2 bis della legge

n. 134 del 2012, nonché vizio di motivazione

censurando il decreto impugnato per avere la Corte
d’appello fatto applicazione della disposizione da ultimo
citata – la quale effettivamente prevede che l’indennizzo
non possa superare il valore della causa in relazione alla
quale viene chiesto -, sebbene la stessa sia applicabile
ai soli ricorsi depositati dopo l’entrata in vigore della
legge di conversione;
che con il quarto motivo i ricorrenti denunciano la
violazione dell’art. 3 Cost., degli artt. 2056, 1223 e
1226 cod. civ., nonché vizio di motivazione e omesso esame
su fatti decisivi, per avere la adita Corte liquidato
l’indennizzo tenendo conto del valore dei crediti ammessi
al passivo e dunque in misura non omogenea per tutti i
ricorrenti, nonché vizio di motivazione sul punto;
che, con il quinto e ultimo motivo, i ricorrenti
lamentano la violazione dell’art. 429, terzo coma, cod.
proc. civ. nella parte in cui il giudice di seconda
istanza non ha concesso, in aggiunta alla condanna della
sorte capitale, il maggior danno subito dai lavoratori per
la diminuzione del credito oltre gli interessi legali, da

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contraddittoria e omesso esame su fatti decisivi,

accordarsi, come previsto per i giudizi di lavoro, dalla
maturazione al soddisfo;
che all’esame dei motivi occorre premettere che la
presente controversia non è soggetta, ratione

temporis,

decreto-legge n. 83 del 2012, convertito, con
modificazione, dalla legge n. 134 del 2012, applicabili ai
ricorsi depositati a decorrere dal trentesimo giorno
successivo a quello di entrata in vigore della legge di
conversione;
che, del resto, alle disposizioni introdotte nel 2012
non può neanche riconoscersi natura di norme di
interpretazione autentica, atteso che, se è vero che per
alcuni aspetti vengono recepiti orientamenti della
giurisprudenza di questa Corte mutuati dalla
giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo,
non vi è nulla nel decreto-legge n. 83 del 2012 che possa
indurre a ritenere che il legislatore abbia inteso
attribuire alle nuove disposizioni efficacia retroattiva,
avendo anzi espressamente dettato una specifica previsione
per la entrata in vigore della nuova disciplina;
che, tanto premesso, il primo motivo di ricorso è
fondato;
che, invero, questa Corte ha avuto modo di affermare
(Cass. n. 8468 del 2012), che la durata ragionevole delle

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all’applicazione delle disposizioni introdotte dal

procedure fallimentari può essere stimata in cinque anni
per quelle di media complessità, ed è elevabile fino a
sette anni, allorquando il procedimento si presenti
notevolmente complesso; ipotesi, questa, ravvisabile in

particolare natura o situazione giuridica dei beni da
liquidare (partecipazioni societarie, beni indivisi ecc.),
della proliferazione di giudizi connessi alla procedura,
ma autonomi e quindi a loro volta di durata condizionata
dalla complessità del caso, oppure della pluralità delle
procedure concorsuali interdipendenti;
che, all’evidenza, la Corte d’appello si è discostata
dall’indicato orientamento ritenendo ragionevole una
durata di nove anni, adducendo a sostegno di tale
valutazione elementi che già concorrono a determinare la
complessità della procedura e a considerare ragionevole la
durata di sette anni in luogo di cinque anni;
che il secondo e il terzo motivo di ricorso, all’esame
dei quali può procedersi congiuntamente, sono fondati;
che, invero, questa Corte ha già avuto modo di
chiarire che, se è vero che il giudice nazionale deve, in
linea di principio, uniformarsi ai criteri di liquidazione
elaborati dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo
(secondo cui, data l’esigenza di garantire che la
liquidazione sia satisfattiva di un danno e non

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presenza di un numero elevato di creditori, di una

indebitamente lucrativa, la quantificazione del danno non
patrimoniale deve essere, di regola, non inferiore a Euro
750,00 per ogni anno di ritardo, in relazione ai primi tre
anni eccedenti la durata ragionevole, e non inferiore a

in capo allo stesso giudice, il potere di discostarsene,
in misura ragionevole, qualora, avuto riguardo alle
peculiarità della singola fattispecie, ravvisi elementi
concreti di positiva smentita di detti criteri, dei quali
deve dar conto in motivazione (Cass. n. 18617 del 2001;
Cass. n. 17922 del 2010);
che, nella specie, esclusa la diretta applicabilità
della nuova normativa di cui all’art. 2-bis della legge n.
89 del 2001, introdotto dal decreto-legge n. 83 del 2012,
deve rilevarsi che la Corte d’appello, pur potendo – come
prima rilevato – discostarsi dagli ordinari criteri di
liquidazione, ha attuato una liquidazione che assume come
vincolante e come limite massimo il valore del credito
ammesso al passivo, mentre, secondo la costante
giurisprudenza di questa Corte, la maggiore o minore
entità della posta in gioco può incidere sulla misura
dell’indennizzo, consentendo al giudice di scendere anche
al di sotto della soglia minima (Cass. n. 12937 del 2012),
ma non anche di parificare la liquidazione al valore della
causa in cui si è verificata la violazione;

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Euro 1.000,00 per quelli successivi), permane, tuttavia,

che il quarto e il quinto motivo di ricorso rimangono
assorbiti dall’accoglimento dei precedenti;
che, dunque, accolti il primo, il secondo e il terzo
motivo di ricorso, assorbiti il quarto e il quinto, il

che, tuttavia, non apparendo necessari ulteriori
accertamenti di fatto, la causa può essere decisa nel
merito ai sensi dell’art. 384, secondo cometa, cod. proc.
civ.;
che, infatti, accertata la irragionevole durata della
procedura fallimentare in anni 16 (eccedenti i 7 previsti
per procedure fallimentari di particolare complessità
quale quella in oggetto, stante l’altissimo numero di
domande di ammissione allo stato passivo e la pluralità di
azioni giudiziarie intraprese nell’interesse del
fallimento per il recupero di crediti), alla liquidazione
dell’indennizzo può procedersi applicando il criterio di
500,00 euro per anno di ritardo, giudicato come congruo
nell’ormai prevalente e più recente giurisprudenza di
questa Corte Suprema in relazione alle procedure
fallimentari (Cass. n. 16311 del 2014) e determinando
l’ammontare dell’indennizzo, in favore di ciascuno dei
ricorrenti, in euro 8.000,00;
che il Ministero della giustizia deve quindi essere
condannato al pagamento, in favore dei ricorrenti, della

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decreto impugnato deve essere cassato;

somma di euro 8.000,00, oltre agli interessi legali dalla
domanda al soddisfo, ferma la statuizione relativa alle
spese del giudizio di merito, ivi compresa la distrazione
in favore del difensore antistatario;

rifusione delle spese del giudizio di cassazione,
liquidate come da dispositivo.
PER QUESTI MOTIVI
La Corte

accoglie

motivo di ricorso,

il primo, il secondo e il terzo

assorbiti il quarto e il quinto;

cassa

il decreto Impugnato in relazione alle censure accolte e,
decidendo nel merito,

condanna

il Ministero della

giustizia al pagamento, in favore di ciascuno dei
ricorrenti Marino Antonella, Sarcinella Francesco,
Morciano Concetta, Parrotto Donato, Marzano Liberata e
Astore Anna Lucia, della somma di euro 8.000,00, oltre
agli interessi legali dalla data della domanda al saldo,
ferma le statuizioni in ordine alle spese del giudizio di
merito; condanna altresì il Ministero alla rifusione delle
spese giudizio di cassazione, in euro 700,00 per compensi,
oltre agli accessori di legge e alle spese forfettarie.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della
VI – 2 Sezione civile della Corte suprema di cessazione,

che il Ministero deve essere condannato altresì alla

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