Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 10230 del 19/04/2021

Cassazione civile sez. I, 19/04/2021, (ud. 15/01/2021, dep. 19/04/2021), n.10230

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCALDAFERRI Andrea – Presidente –

Dott. MELONI Marina – Consigliere –

Dott. CAMPESE Eduardo – Consigliere –

Dott. AMATORE Roberto – rel. Consigliere –

Dott. SOLAINI Luca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso n. 4018/2019 r.g. proposto da:

B.S., (cod. fisc. (OMISSIS)), rappresentato e difeso, giusta

procura speciale apposta in calce al ricorso, dall’Avvocato Carla

Pennetta, con cui elettivamente domicilia in Roma, Via

Circonvallazione Clodia n. 88, presso lo studio dell’Avvocato

Giovanni Arilli.

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, (cod. fisc. (OMISSIS)), in persona del legale

rappresentante pro tempore il Ministro, rappresentato e difeso, ex

lege, dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso i cui Uffici in

Roma, Via dei Portoghesi n. 12 è elettivamente domiciliato.

– controricorrente –

avverso il decreto del Tribunale di Perugia, depositato in data

19.12.2018;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

15/1/2021 dal Consigliere Dott. Roberto Amatore.

 

Fatto

RILEVATO

Che:

1. Con il decreto impugnato il Tribunale di Perugia ha respinto la domanda di protezione internazionale ed umanitaria avanzata da B.S., cittadino della (OMISSIS), dopo il diniego di tutela da parte della locale commissione territoriale, confermando, pertanto, il provvedimento reso in sede amministrativa.

Il tribunale ha ricordato, in primo luogo, la vicenda personale del richiedente asilo, secondo quanto riferito da quest’ultimo; egli ha infatti narrato: i) di essere nato a (OMISSIS) ove era vissuto sino all’età di 6 anni presso la nonna materna e successivamente si era trasferito a (OMISSIS) nella casa dello zio materno; ii) di professare la religione musulmana e di appartenere al gruppo etnico (OMISSIS); iii) di essere stato costretto a fuggire dal suo paese, perchè minacciato dai familiari della secondo,moglie del padre che era morto.

Il tribunale ha ritenuto che: a) non erano fondate le domande volte al riconoscimento dello status di rifugiato e della protezione sussidiaria, del D.Lgs. n. 251 del 2007, sub art. 14, lett. a e b, in ragione della natura privata della vicenda raccontata e della non riconducibilità della stessa nel paradigma normativo previsto per la protezione internazionale; b) non era fondata neanche la domanda di protezione sussidiaria del D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 14, lett. c, in ragione della mancata allegazione da parte del richiedente di un rischio collegato ad un conflitto armato generalizzato nel paese di provenienza; c) non poteva accordarsi tutela neanche sotto il profilo della richiesta protezione umanitaria, perchè il ricorrente non aveva dimostrato un saldo radicamento nel contesto sociale italiano nè una condizione di soggettiva vulnerabilità.

2. Il decreto, pubblicato il 19.12.2018, è stato impugnato da B.S. con ricorso per cassazione, affidato a cinque motivi, cui il Ministero dell’Interno ha resistito con controricorso.

Diritto

CONSIDERATO

Che:

1. Con il primo motivo il ricorrente deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione della direttiva 2013/32 UE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 26.6.2013, con particolare riferimento agli artt. 12, 14 e 31 letti in combinato disposto dell’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, per la mancata audizione giudiziale del richiedente.

2. Con il secondo mezzo si articola, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, vizio di vizio di violazione e falsa applicazione della Convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951, del Protocollo relativo allo statuto dei rifugiati adottato a New York il 31 gennaio 1967 e della direttiva n. 2004/83/CE del Consiglio del 29 aprile 2004, per non aver il tribunale azionato i poteri di integrazione officiosa delle prove allegate dal ricorrente.

3. Con il terzo e quarto motivo, congiuntamente articolati, si censura il provvedimento impugnato, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per violazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 e, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per omesso esame di fatti decisivi in relazione al diniego della richiesta protezione umanitaria.

4. Il quinto mezzo denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione dell’art. 10 Cost..

5. Il ricorso è infondato.

6.1 Il primo motivo è, in parte, infondato e, per altra parte, inammissibile.

6.1.2 Sotto il primo profilo ed in relazione alla questione dell’audizione del richiedente, giova ricordare che, secondo un orientamento espresso recentemente da questa Corte (cui anche questo Collegio intende fornire continuità applicativa, condividendone le ragioni), in riferimento alla mancata audizione del richiedente in sede giurisdizionale in caso di procedimento D.Lgs. n. 25 del 2008, ex art. 35 bis, “nei giudizi in materia di protezione internazionale il giudice, in assenza della videoregistrazione del colloquio svoltosi dinanzi alla Commissione territoriale, ha l’obbligo di fissare l’udienza di comparizione, ma non anche quello di disporre l’audizione del richiedente, a meno che a) nel ricorso non vengano dedotti fatti nuovi a sostegno della domanda (sufficientemente distinti da quelli allegati nella fase amministrativa, circostanziati e rilevanti); b) il giudice ritenga necessaria l’acquisizione di chiarimenti in ordine alle incongruenze o alle contraddizioni rilevate nelle dichiarazioni del richiedente; c) il richiedente faccia istanza di audizione nel ricorso, precisando gli aspetti in ordine ai quali intende fornire chiarimenti e sempre che la domanda non venga ritenuta manifestamente infondata o inammissibile” (Sez. 1, Sentenza n. 21584 del 07/10/2020; in senso conforme, anche Sez. 1, Sentenza n. 22049 del 13/10/2020, secondo cui verbatim “il corredo esplicativo dell’istanza di audizione deve risultare anche dal ricorso per cassazione, in prospettiva di autosufficienza; in particolare il ricorso, col quale si assuma violata l’istanza di audizione, implica che sia soddisfatto da parte del ricorrente l’onere di specificità della censura, con indicazione puntuale dei fatti a suo tempo dedotti a fondamento di quell’istanza”).

6.1.3 Ciò posto, osserva la Corte che la doglianza articolata dal ricorrente sul punto qui in discussione risulta, in primis, infondata perchè – secondo i principi espressi dalla giurisprudenza di legittimità sopra richiamata (e qui confermata) – non esiste un obbligo del giudice ad audire il richiedente – e, in secondo luogo, inammissibile perchè le censure articolate dal ricorrente si presentano comunque formulate in modo del tutto generico e dunque irricevibile, non avendo il richiedente spiegato e specificato, nel presente ricorso per cassazione, i fatti a suo tempo dedotti a fondamento dell’istanza di audizione avanzata innanzi ai giudici del merito e non avendo neanche dedotto la rilevanza ed utilità del predetto mezzo istruttorio.

6.2 Il secondo motivo è invece inammissibile perchè si compone solo di generiche doglianze, anch’esse astrattamente prospettate in relazione all’asserita violazione del principio di cooperazione istruttoria che informa il rito speciale della protezione internazionale, senza che tuttavia le censure si confrontino con la ratio decidendi principale posta a sostegno del diniego dell’invocata protezione, e cioè la ritenuta non riconducibilità della vicenda raccontata dal richiedente nel paradigma normativo previsto dal D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 2, 7, 8 e art. 14, lett. a e b, per la tutela prevista dalla protezione internazionale, trattandosi di vicenda familiare e privata.

6.4 Il terzo e quarto motivo, da trattarsi congiuntamente in quanto entrambi articolati in relazione al diniego dell’invocata protezione umanitaria, sono invece inammissibili perchè le censure mirano ad una rivalutazione del merito della decisione – inibita, invece, al giudice di legittimità – in ordine allo scrutinio del bilanciamento tra la condizione di vulnerabilità del richiedente e l’integrazione di quest’ultimo nel contesto socio-lavorativo del paese di accoglienza (per come richiesta dalla giurisprudenza nomofilattica: v. ss.uu. n. 29459/2019 e Cass. sent. n. 4455/2018), senza neanche indicare quali fossero i profili di vulnerabilità già allegati innanzi ai giudici del merito e quale fosse stato il percorso di integrazione sociale in Italia, profili quest’ultimi indispensabili per il sopra ricordato giudizio comparativo ed invece esclusi dal tribunale con valutazione in fatto non più censurabile in questa sede, se non nei ristretti limiti di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (v. ss.uu. n. 8053/2014).

6.5 Il quinto motivo è invece infondato.

E’ utile ricordare che la giurisprudenza di questa Corte è ferma nel ritenere che il diritto di asilo è interamente attuato e regolato attraverso la previsione delle situazioni finali previste nei tre istituti costituiti dallo “status” di rifugiato, dalla protezione sussidiaria e dal diritto al rilascio di un permesso umanitario, ad opera della esaustiva normativa di cui al D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, adottato in attuazione della Direttiva 2004/83/CE del Consiglio del 29 aprile 2004, e di cui al D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 5, comma 6. Ne consegue che non vi è più alcun margine di residuale diretta applicazione del disposto di cui all’art. 10 Cost., comma 3, in chiave processuale o strumentale, a tutela di chi abbia diritto all’esame della sua domanda di asilo alla stregua delle vigenti norme sulla protezione (v. Sez. 6 – 1, Ordinanza n. 10686 del 26/06/2012; Sez. 6 – 1, Ordinanza n. 16362 del 04/08/2016).

Orbene, sulla base dei sopra ricordati principi – che qui si riaffermano – la dedotta violazione di legge deve pertanto reputarsi infondata.

Ne consegue il complessivo rigetto del ricorso.

Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e vengono liquidate come da dispositivo.

Per quanto dovuto a titolo di doppio contributo, si ritiene di aderire all’orientamento già espresso da questa Corte con la sentenza n. 9660-2019.

P.Q.M.

rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 2.100 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, se dovuto, per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, il 15 gennaio 2021.

Depositato in Cancelleria il 19 aprile 2021

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