Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 10220 del 10/05/2011

Cassazione civile sez. III, 10/05/2011, (ud. 13/04/2011, dep. 10/05/2011), n.10220

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MASSERA Maurizio – Presidente –

Dott. VIVALDI Roberta – Consigliere –

Dott. AMENDOLA Adelaide – Consigliere –

Dott. GIACALONE Giovanni – Consigliere –

Dott. CARLUCCIO Giuseppa – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

M.E. (OMISSIS), B.E.

(OMISSIS), elettivamente domiciliati in ROMA, VIA GERMANICO

107, presso lo studio dell’avvocato GELERA GIORGIO, che li

rappresenta e difende unitamente all’avvocato CINQUETTI DIEGO, giusta

delega a margine del ricorso;

– ricorrenti –

contro

R.P.M. (OMISSIS), R.G.B.,

R.P., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA UGO

BARTOLOMEI 23, presso lo studio dell’avvocato IVELLA ENRICO, che li

rappresenta e difende unitamente all’avvocato BENDINELLI PAOLO giusta

mandato a margine del controricorso;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 606/2006 della CORTE D’APPELLO di BRESCIA,

Sezione Prima Civile, emessa il 14/12/2005, depositata il 05/07/2006;

R.G.N. 1223/2003;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

13/04/2011 dal Consigliere Dott. GIUSEPPA CARLUCCIO;

udito l’Avvocato IVELLA ENRICO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

GAMBARDELLA Vincenzo che ha concluso per il rigetto.

Fatto

RAGIONI DI FATTO E DI DIRITTO

1. E. e M.M., oltre a B.E. esercitavano l’azione di riscatto agrario in riferimento a un fondo, e relativo fabbricato, (facente parte di un vasta cascina denominata (OMISSIS)), coltivato a titolo di affitto, e rispetto al quale erano proprietari confinanti; fondo che era stato venduto, insieme all’intero complesso, nel novembre 1993, a P.M., G. B. e R.P..

Nel contraddittorio delle parti, il Tribunale di Bergamo rigettava la domanda. Riteneva non sussistente la condizione della mancata vendita nel biennio precedente, avendo i M. alienato a C. P. (preteso genero), nel settembre 1993, la quota di 2/4 di un fondo di proprietà, avente un reddito dominicale superiore al minimo di legge. L’appello proposto dai M. e dalla B. veniva rigettato, nel contraddittorio delle parti, dalla Corte di appello di Brescia (sentenza del 5 luglio 2006).

2. Avverso la suddetta sentenza hanno proposto ricorso per cassazione M.E. e B.E., con due motivi, corredati da quesiti. Hanno resistito con controricorso i R..

2.1. M.M., retraente che ha partecipato al giudizio di primo e secondo grado, non ha proposto ricorso per cassazione. Tale circostanza non influisce sull’integrità del contraddittorio, non ricorrendo litisconsorzio, nè sostanziale nè processuale rispetto ai retraenti (da uttimo, Cass. 19 aprile 2011, n. 8989).

3. La Corte di merito ha rigettato la domanda dei retraenti sulla base delle seguenti essenziali argomentazioni.

Quanto alla mancata vendita: – Anche nel caso di vendita di una sola quota, anzichè dell’intera proprietà, l’alienante dimostra un disinteresse all’incremento della proprietà contadina, in funzione del quale la legge riconosce il diritto di prelazione e riscatto. – Sussiste un comportamento indirizzato, non all’accorpamento dei fondi, ma al possibile frazionamento degli stessi, visto che la comunione può essere sciolta in qualunque momento da uno dei condomini. – Anche a ritenere vero, perchè incontestato, che il C. è genero dei retraenti, non lo era al momento della vendita; comunque, la norma non lascia spazio ad alcuna deroga ricollegabile al rapporto di parentela; – Non ricorre eadem ratio quanto al richiamo fatto al D.Lgs. 18 maggio 2001, n. 228, art. 11. – Non è stata provata l’appartenenza dell’acquirente ad un’unica impresa coltivatrice.

Quanto all’imponibile finanziario: dall’atto traslativo risulta che all’epoca della vendita l’ammontare della rendita dominicale e di quella agraria superava il limite previsto dalla legge; sulla base della giurisprudenza è escluso che rilevi il valore al momento dell’entrata in vigore della legge.

4. Con il primo motivo di ricorso si censura la sentenza nella parte in cui ha ritenuto integrata la causa ostativa al riconoscimento del diritto al riscatto nella vendita di una quota di comproprietà di un fondo da parte dei retraenti (nella specie 2/4).

La Corte di merito ha correttamente interpretato la L. 26 maggio 1965, n. 590, art. 8 (richiamato per i proprietari confinanti dalla L. 14 agosto 1971, n. 817, art. 7), in base al quale il retraente è soggetto alla condizione della mancata vendita, nel biennio precedente, di altri fondi rustici.

Questa Corte non ha avuto ancora occasione di pronunciarsi sul se la vendita di una quota di comproprietà di un fondo equivalga, ai fini della suddetta disposizione, alla vendita del fondo. Tuttavia, più approdi giurisprudenziali, concernenti profili diversi ed unificati dalla rado della condizione negativa, conducono a ricomprendere nel divieto di vendita anche la vendita della quota di comproprietà.

Il legislatore del 1965, e quello del 1971 attraverso il richiamo effettuato, hanno previsto una limitazione dei poteri di autonomia contrattuale dei proprietari di fondi agricoli (poteri che corrispondono a una posizione costituzionalmente garantita) in considerazione del perseguimento dell’obiettivo, pure costituzionalmente rilevante, del favore verso la formazione della proprietà contadina diretto-coltivatrice. Poi, al fine di scongiurare che l’attribuzione del diritto di prelazione, al coltivatore insediato sul fondo e al coltivatore confinante, potesse favorire esercizi della prelazione con intento speculativo, hanno posto la condizione negativa della mancata vendita di altri fondi rustici da parte dell’avente diritto alla prelazione. D’altra parte, hanno limitato questa condizione: temporalmente (la vendita rilevante è solo quella del biennio precedente), funzionalmente (esclusione delle vendite effettuate per motivi di ricomposizione fondiaria) e per valore (anche se, per quanto si dirà nel successivo, quest’ultima mitigazione ha di fatto perduto di significato). La ratio perseguita dal legislatore impone interpretazioni restrittive, venendo in gioco valori costituzionalmente tutelati, senza che possa assumere rilievo la misura della quota. Togliere rilievo, ai nostri fini, alla vendita di una quota di comproprietà significherebbe limitare la libera circolazione del fondo oggetto di retratto senza la certezza che la limitazione sia funzionale alla formazione di imprese agricole di proprietà di coltivatori diretti e all’accorpamento dei fondi al fine di migliorare la redditività dei terreni.

Il nesso tra limitazione del diritto di disporre liberamente del bene da parte del proprietario del fondo retrattato e favore per imprese agricole di proprietà di coltivatori diretti costituisce una linea di tendenza costante nella giurisprudenza della Corte. Quando viene in questione la condizione in argomento (esemplificativamente Cass. 8 maggio 2003, n. 6980), si è messo in evidenza che non sarebbe giustificato favorire nell’acquisto di fondi altrui chi, avendo venduto fondi propri nel biennio precedente, ha mostrato con tale suo comportamento di non avere di mira la coltivazione della terra come fonte principale del proprio reddito. Al fine di conferire corposità al requisito della coltivazione del fondo, si è dato valore alla prospettiva futura, escludendo il diritto di prelazione quando venga esercitato non per continuare l’impresa agricola, ma per poter, invece, operare la rivendita de fondo ad un terzo non avente diritto (da ultimo Cass. 29 gennaio 2010, n. 2044).

Conferma della rispondenza della interpretazione scelta alla ratio della disposizione in argomento, si trova nella giurisprudenza costante, secondo la quale anche una porzione di terreno incluso in una comunione può essere oggetto di prelazione e riscatto. In tal caso, infatti, si realizza lo scopo voluto dal legislatore, di favorire l’accesso del coltivatore diretto alla proprietà del fondo rustico, sia pure pro quota, a nulla rilevando che nell’eventuale divisione potrebbe non essere attribuita al medesimo proprio la porzione di fondo in precedenza da lui coltivata (da ultimo Cass, 12 novembre 2010, n. 22944).

Il motivo va, pertanto, rigettato sulla base del seguente principio di diritto: “Ai fini del diritto di prelazione e riscatto di cui alla L. n. 590 del 1965, art. 8 (richiamato per il confinante dalla L. n. 817 del 1971, art. 7), la condizione negativa della mancata vendita di altri fondi rustici comprende la vendita di quote in comproprietà indivisa (indipendentemente dalla percentuale), stante la necessità di una interpretazione restrittiva, imposta dalla ratto della condizione, che, nel bilanciamento tra valori costituzionali rilevanti, tutela la formazione della proprietà contadina diretto- coltivatrice limitando i poteri di autonomia contrattuale dei proprietari di fondi agricoli oggetto di retratto solo nella misura funzionalmente idonea al perseguimento dell’obiettivo; prestandosi, invece, un diversa interpretazione, a favorire esercizi della prelazione con intento speculativo”.

5. Con il secondo motivo i ricorrenti deducono la violazione e falsa applicazione della L. n. 590 del 1965, art. 8 sostenendo che la Corte di merito ha erroneamente escluso la sussistenza della limitazione di valore prevista dalla legge rispetto alla condizione negativa della mancata vendita di terreni agricoli, in riferimento a un bene avente un valore superiore di quello (di mille lire) stabilito dalla suddetta legge, non avendo preso in considerazione il valore fondiario vigente all’epoca dell’entrata in vigore della stessa.

Il motivo va rigettato sulla base della giurisprudenza consolidata della Corte, secondo cui: “In tema di prelazione agraria, il richiamo, contenuto nella L. 26 maggio 1965, n. 590, art. 8 all’imponibile fondiario dei fondi rustici ceduti dal prelazionante si riferisce sia al reddito fondiario che a quello agrario, che, in egual modo, costituivano, secondo la normativa tributaria vigente al momento dell’entrata in vigore della L. n. 590 citata, la base di calcolo dell’imposta sui terreni. A questi redditi deve, conseguentemente, farsi riferimento, in sede di applicazione del citato art. 8, anche dopo l’abolizione dell’imposta fondiaria, perchè essi, per quanto rappresentati da espressioni numeriche non più idonee, per difetto di aggiornamento, ad indicare direttamente la redditività complessiva dei fondi cui si riferiscono, costituiscono, pur sempre, in mancanza di nuovi criteri legali di valutazione, gli unici parametri cui la persistente vigenza della legge nel suo testo originario rimanda. Questa lettura, fedele al dato testuale della norma, non può essere corretta prendendo in considerazione il valore fondiario vigente all’epoca dell’entrata in vigore della L. n. 590 del 1965, perchè nel sistema di tale legge non è istituita una relazione di proporzionalità fra i due indici (valore fondiario e limite di valore) destinata a rimanere costante nel tempo. Nè, infine, tale interpretazione adeguatrice potrebbe essere giustificata da una lettura della norma del 1965 costituzionalmente conforme agli artt. 3, 44 e 47 Cost., poichè non sussistono profili di contrasto con le citate disposizioni costituzionali derivanti dal mancato adeguamento dell’articolo 8 della legge n. 590/1965, perdurando le limitazioni funzionali (esclusione delle alienazioni effettuate per motivi di ricomposizione fondiaria) e temporali (applicazione della restrizione al solo biennio precedente) che circoscrivono la condizione ostativa prevista dalla norma in questione e garantiscono ancora il soddisfacimento del favor costituzionale per la formazione e lo sviluppo della proprietà diretto-coltivatrice.” (da ultimo Cass. 25 agosto 2006 n. 18488). In particolare, il legislatore, nel non aggiornare la disposizione suddetta, ha implicitamente compiuto una scelta discrezionale e assistita da una sua piena razionalità, consistita nel sottrarre importanza alla limitazione relativa al valore della vendita (si v.

Cass. richiamata, in motivazione). Le spese seguono la soccombenza.

P.Q.M.

LA CORTE DI CASSAZIONE Rigetta il ricorso e condanna M.E. e B.E., in solido, al pagamento, in favore di P.M., G. B. e R.P., delle spese processuali del giudizio di cassazione, liquidate in Euro 2.800,00, di cui Euro 200,00 per spese, oltre alle spese generali ed agli accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 13 aprile 2011.

Depositato in Cancelleria il 10 maggio 2011

Sostieni LaLeggepertutti.it

La pandemia ha colpito duramente anche il settore giornalistico. La pubblicità, di cui si nutre l’informazione online, è in forte calo, con perdite di oltre il 70%. Ma, a differenza degli altri comparti, i giornali online non ricevuto alcun sostegno da parte dello Stato. Per salvare l'informazione libera e gratuita, ti chiediamo un sostegno, una piccola donazione che ci consenta di mantenere in vita il nostro giornale. Questo ci permetterà di esistere anche dopo la pandemia, per offrirti un servizio sempre aggiornato e professionale. Diventa sostenitore clicca qui

LEGGI ANCHE



NEWSLETTER

Iscriviti per rimanere sempre informato e aggiornato.

CERCA CODICI ANNOTATI

CERCA SENTENZA