Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 10219 del 28/04/2010

Cassazione civile sez. I, 28/04/2010, (ud. 03/02/2010, dep. 28/04/2010), n.10219

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PROTO Vincenzo – Presidente –

Dott. RORDORF Renato – rel. Consigliere –

Dott. PICCININNI Carlo – Consigliere –

Dott. DOGLIOTTI Massimo – Consigliere –

Dott. CULTRERA Maria Rosaria – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 5865-2008 proposto da:

UNICREDITO ITALIANO S.P.A. (c.f. (OMISSIS)), già CAPITALIA

S.P.A., società incorporata da UNICREDITO ITALIANO S.P.A. per

fusione, in persona dei legali rappresentanti pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE DELLE MILIZIE 114, presso

l’avvocato SORRENTINO MASSIMO, che la rappresenta e difende

unitamente all’avvocato MACERATINI RUGGERO, giusta procura in calce

al ricorso;

– ricorrente –

contro

I.F.A. FINANZIARIA DI PARTECIPAZIONE S.R.L. IN LIQUIDAZIONE COATTA

AMMINISTRATIVA, in persona del Commissario Liquidatore pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA GIUSEPPE FERRARI 12, presso

l’avvocato CAPRIOLO SIMONA, che la rappresenta e difende, giusta

procura a margine del controricorso;

– controricorrente –

sul ricorso 7078-2008 proposto da:

I.F.A. FINANZIARIA DI PARTECIPAZIONE S.R.L. IN LIQUIDAZIONE COATTA

AMMINISTRATIVA (C.F. (OMISSIS)), in persona del Commissario

Liquidatore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

GIUSEPPE FERRARI 12, presso l’avvocato CAPRIOLO SIMONA, che la

rappresenta e difende, giusta procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

UNICREDITO ITALIANO S.P.A. (c.f. (OMISSIS)), già CAPITALIA

S.P.A., società incorporata da UNICREDITO ITALIANO S.P.A. per

fusione, in persona dei legali rappresentanti pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE DELLE MILIZIE 114, presso

l’avvocato SORRENTINO MASSIMO, che la rappresenta e difende

unitamente all’avvocato MACERATINI RUGGERO, giusta procura in calce

al controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 266/2007 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 22/01/2007;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

03/02/2010 dal Consigliere Dott. RENATO RORDORF;

udito, per la ricorrente, l’Avvocato MACERATINI che ha chiesto

l’accoglimento del ricorso principale, rigetto del ricorso

incidentale;

udito, per la controricorrente, l’Avvocato SMEDILE SERGIO, per

delega, che ha chiesto il rigetto del ricorso principale,

accoglimento del ricorso incidentale;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SORRENTINO FEDERICO che ha concluso per il rigetto di entrambi i

ricorsi.

 

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con atto notificato il 18 maggio 1992 il commissario liquidatore della società I.F.A. Finanziaria di Partecipazione s.r.l., in liquidazione coatta amministrativa (in prosieguo indicata come I.F.A.), citò in giudizio dinanzi al Tribunale di Roma la Banca di Roma s.p.a. chiedendo la revoca di una serie di versamenti in conto corrente mediante i quali, nel biennio anteriore alla sottoposizione a procedura di concordato preventivo, poi sfociata in liquidazione coatta, detta società aveva estinto una parte del proprio debito pregresso nei confronti della banca.

Accogliendo parzialmente la domanda, il “tribunale condannò la banca a versare alla società in liquidazione coatta il complessivo importo di Euro 858.418,00, oltre agli accessori.

Sulle contrapposte impugnazioni delle parti, la Corte d’appello di Roma, con sentenza emessa il 22 gennaio 2007, in parziale riforma della decisione di primo grado, limitò la revoca all’ammontare di Euro 801.235,54 e condannò la I.F.A. a restituire alla banca, che aveva frattanto assunto la denominazione di Capitalia s.p.a., una somma pari alla differenza tra l’importo di Euro 881.810,93, versato in esecuzione della sentenza del tribunale, e quello stabilito dalla pronuncia d’appello maggiorata di rivalutazione ed interessi, nonchè alla corresponsione di ulteriori interessi su tale differenza.

Ritenne in particolare la Corte d’appello, per quanto ancora qui interessa, che fossero tra gli altri revocabili, essendo la banca creditrice consapevole dello stato d’insolvenza della società correntista: a) un versamento in conto corrente di L. 679.107.532, effettuato il 16 gennaio 1989 con denaro riveniente dall’estinzione di due libretti di risparmio precedentemente dati in pegno alla banca e quindi consensualmente estinti; b) una serie di versamenti per complessive L. 557.421.484, in date comprese tra il luglio 1988 e l’aprile 1989, mediante i quali erano state restituite alla banca le somme anticipate per lo sconto di cambiali successivamente cadute in protesto.

Per la cassazione di tale sentenza hanno proposto separatamente ricorso sia la Unicredito Italiana s.p.a. (che ha incorporato la Capitalia s.p.a.), la quale ha formulato cinque motivi di censura, sia la I.F.A. in liquidazione coatta amministrativa, con due motivi di doglianza, ed a ciascuno di tali atti l’altra parte ha replicato con controricorso.

Con provvedimento del presidente di questa sezione in data 29 maggio 2008 i ricorsi, in quanto proposti avverso la medesima sentenza, sono stati riuniti.

Entrambe le parti hanno depositato memoria a norma dell’art. 378 c.p.c..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Il ricorso proposto dalla Unicredito Italiano s.p.a. (che per maggiore semplicità verrà d’ora in avanti designata solo come la banca) – al quale va riconosciuto il ruolo di ricorso principale, avendo preceduto nel tempo quello proposto dalla controparte – investe due distinte statuizioni in cui è possibile scomporre l’impugnata sentenza, che rispettivamente si riferiscono alla revocabilità di un’operazione bancaria compiuta il 16 gennaio 1989, mediante la quale una parte dell’esposizione debitoria di detta società verso la banca fu estinta utilizzando somme provenienti da libretti di risparmio precedentemente costituiti in pegno in favore della medesima banca che li aveva emessi, ed alla revocabilità di una serie di altre operazioni in cui la corte d’appello ha ravvisato altrettanti atti solutori consistiti nell’estinguere debiti bancari derivanti dal cattivo esito di cambiali precedentemente scontate dalla società correntista.

I primi tre motivi del ricorso principale riguardano, in particolare, la prima delle suindicate statuizioni; i restanti due motivi afferiscono alla seconda.

Converrà perciò esaminare separatamente prima gli uni e poi gli altri.

1.1. La banca ricorrente insiste nel sostenere che la costituzione in pegno da parte della I.F.A. di due libretti di risparmio, avendo pacificamente dato vita ad un pegno irregolare, come rilevato nella stessa sentenza impugnata, aveva determinato l’insorgere di un debito della banca verso la medesima I.F.A per la restituzione delle somme di denaro depositate, divenuto esigibile in conseguenza della richiesta di estinzione dei libretti a norma dell’art. 1834 c.c.. Si sarebbe quindi prodotta, già in epoca anteriore all’inizio della procedura concorsuale, la compensazione del suindicato debito della banca con il contrapposto debito della società, cui era stato revocato il fido bancario, ed era del tutto naturale che ciò si fosse tradotto nell’annotazione in conto corrente di una posta creditoria per la correntista, in coerenza col disposto dell’art. 1853 c.c., ferma restando la non revocabilità dell’evento estintivo provocato dalla compensazione, per l’espresso disposto della L. Fall., art. 56. Donde la violazione degli artt. 1241, 1242, 1243 e 1853 c.c., nonchè della L. Fall., citato art. 56, denunciata col primo motivo di ricorso.

A sostegno della riferita impostazione difensiva, la banca ricorrente critica poi il modo in cui la descritta operazione è stata ricostruita nell’impugnata sentenza, come se si fosse trattato di un reale versamento di denaro in conto corrente per estinguere il debito della società correntista, dopo che questa aveva ottenuto in restituzione le somme depositate sui libretti dati precedentemente in pegno, anzichè della mera elisione contabile di partite debitorie contrapposte. La motivazione posta a base di siffatta ricostruzione, a parere della ricorrente, sarebbe priva di adeguata spiegazione e frutto di argomentazioni contraddittorie, oltre a porsi obiettivamente in contrasto con il diverso accertamento implicitamente contenuto nella sentenza di primo grado, contro il quale la I.F.A. non aveva proposto alcuno specifico motivo d’impugnazione e che doveva perciò ritenersi ormai coperto da giudicato. Donde la censura per difetto di motivazione espressa nel secondo motivo di ricorso e quella per violazione degli artt. 112 e 346 c.p.c. contenuta nel terzo motivo.

1.2. Nessuna delle riferite doglianze coglie nel segno.

1.2.1. Occorre subito osservare che il secondo motivo del ricorso, quello con cui si lamentano vizi di motivazione dell’impugnata sentenza, non è formulato in conformità al disposto dell’art. 366- bis c.p.c. (applicabile ratione temporis al caso in esame) e risulta pertanto inammissibile.

Ai sensi della citata disposizione, infatti, la formulazione delle censure previste dall’art. 360 c.p.c., n. 5 deve contenere, a pena d’inammissibilità, la chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, ovvero le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la renda inidonea a giustificare la decisione; e deve trattarsi di un momento di sintesi (omologo al quesito di diritto prescritto per i motivi di ricorso proposti a norma degli altri numeri del medesimo art. 360) che ne circoscriva puntualmente i limiti, in maniera da non ingenerare incertezze in sede di formulazione del ricorso e di valutazione della sua ammissibilità (così Sez. un., 1 ottobre 2007, n. 20603, ed altre conformi pronunce di legittimità).

Nell’esposizione del motivo in esame, viceversa, la formulazione di questo autonomo momento di sintesi fa difetto, essendosi la banca ricorrente limitata a prospettare una pluralità di argomentazioni che, a suo dire, dimostrerebbero l’insufficienza o la contraddittorietà della motivazione del provvedimento impugnato.

Argomentazioni che però, per il modo in cui sono esposte, non consentono nè di distinguere compiutamente l’una dall’altra fattispecie di vizio denunciato – l’insufficienza della motivazione dalla sua contraddittorietà – nè di circoscrivere adeguatamente le specifiche ragioni dell’impugnazione nè, soprattutto, di sceverare in maniera ben netta le censure davvero afferenti alla struttura logica della motivazione da quelle che sconfinano nel merito.

1.2.2. Poichè anche le doglianze espresse nel terzo motivo del ricorso principale attengono alle modalità con cui si è proceduto all’estinzione del debito della I.F.A. nei confronti della banca, conviene esaminarle subito.

Si tratta di doglianze manifestamente infondate: innanzitutto perchè il presupposto dal quale esse muovono – cioè che nella sentenza di primo grado fosse contenuto un accertamento implicito della “natura eminentemente virtuale dell’accredito” di cui si discute – è assolutamente indimostrato; poi perchè, in ogni caso, è comunque da escludere che un siffatto eventuale accertamento, di per sè solo considerato, potesse aver acquisito il valore di un giudicato e che, per rimetterlo in discussione nel giudizio d’appello, fosse necessario un atto d’impugnazione da parte della I.F.A., non trattandosi di un capo o di un punto di decisione autonomo, bensì della mera ricostruzione storica dei fatti posti a fondamento della domanda, accolta dal tribunale ma ancora contestata in appello.

Più in generale, peraltro, giova rimarcare come l’impostazione stessa nel ricorso della questione di cui s’è detto sia in effetti fuorviante. Non si tratta di contrapporre un modo di estinzione “virtuale” del debito che la società insolvente aveva verso la banca, attuato mediante un’operazione contabile, ad un modo di estinzione realizzato “con versamento effettivo di denaro allo sportello”, perchè non da questo è dipesa la conclusione cui la corte d’appello è pervenuta. Che oggidi i rapporti creditori o debitori tra banca e cliente si realizzino per lo più in forme scritturali è del tutto ovvio, ma, appunto per questo, non e affatto rivelatore del meccanismo giuridico sottostante. Meccanismo che, nel caso in esame, è stato ricostruito dalla corte di merito non in termini di diretto utilizzo dei fondi depositati sui libretti di risparmio dati in pegno alla banca per estinguere parzialmente il debito della società correntista, bensì in termini di rinuncia al pegno e di restituzione di tali fondi a detta società, prima, e di autonomo e separato versamento di denaro ad opera di quest’ultima in favore della banca, poi.

Che siffatti passaggi si siano realizzati in virtù di scritturazioni contabili non toglie che, nella ricostruzione operatane dalla corte territoriale, si sia trattato di passaggi distinti, l’uno successivo all’altro, e che proprio per questo, in punto di fatto, il versamento in conto corrente dal quale è dipesa la parziale estinzione del credito della banca non sia stato considerato riconducibile all’operatività del pegno irregolare avente ad oggetto i predetti libretti di deposito, ormai estinto, restando per ciò stesso preclusa la possibilità di configurare la compensazione propugnata dalla difesa della banca.

1.2.3. Le considerazioni che precedono consentono di disattendere agevolmente anche la doglianza in punto di diritto espressa nel primo motivo del ricorso principale.

Una volta escluso, infatti, che la banca si sia avvalsa del peculiare meccanismo di “autosoddisfazione” del proprio credito, insito nel pegno irregolare (sul quale si vedano, tra le altre, Sez. un. 14 maggio 2001, n. 202; Cass. 28 maggio 2008, n. 14067; Cass. 15 febbraio 2008, n. 3794; Cass. 1 febbraio 2008, n. 2456; Cass. 5 novembre 2004, n. 21237; e Cass. 3 aprile 2003, n. 5111), sfuma evidentemente anche ogni possibilità d’individuare in tale meccanismo le ragioni della non revocabilità del fatto estintivo del credito, in presenza delle altre condizioni richieste in proposito dalla L. Fall., art. 67.

Nè a diversa conclusione può condurre il mero rilievo secondo cui, comunque, l’estinzione consensuale del pegno irregolare avrebbe fatto sorgere un debito restitutorio della banca verso la società correntista, come tale idoneo a compensarsi col contrapposto debito di quest’ultima nei confronti della banca. Vi osta il già richiamato accertamento operato in punto di fatto dalla corte territoriale, dal quale emerge come l’accredito in conto corrente delle somme provenienti dall’estinzione dei libretti dati in pegno sìa stato frutto di un espresso atto di disposizione della stessa società correntista: il che evidentemente esclude l’operatività di qualsiasi meccanismo di compensazione, non avendo le parti inteso avvalersene ed avendo invece distintamente provveduto a rimettere le somme prima vincolate alla garanzia pignoratizia nella disponibilità della società correntista, che ha poi autonomamente provveduto ad ordinarne il versamento sul conto scoperto così realizzando un vero e proprio atto di pagamento.

Situazione, questa, nella quale trova applicazione il costante indirizzo giurisprudenziale secondo cui l’accredito in un conto corrente di somme – vuoi se rimesse da terzi, vuoi se provenienti da distinta posizione debitoria dell’istituto di credito – costituisce un’operazione che, salvo patto contrario, s’inserisce nell’ambito dell’unitario complesso rapporto di conto corrente e non realizza un’obbligazione autonoma della banca, suscettibile di compensazione legale con il saldo passivo, determinando una semplice variazione quantitativa del debito del correntista, la quale può configurare, secondo le circostanze, o un atto ripristinatorio della disponibilità del correntista medesimo, ovvero un atto direttamente solutorio del debito di questi, risultante dal saldo contabile (cfr., tra le altre, Cass. 19 novembre 2002, n. 16261).

1.3. Come s’è già detto, il quarto ed il quinto motivo del ricorso della banca sì rifersicono alla revoca di una serie di operazioni compiute sul conto corrente intestato alla I.F.A., nei quali la corte d’appello ha ravvisato altrettanti versamenti destinati a ripianare le passività di volta in volta causate dalla caduta in protesto di cambiali precedentemente poste allo sconto dalla medesima I.F.A. e che, viceversa, la banca ricorrente sostiene esser state mere annotazioni contabili, cui avrebbero fatto da contrappeso uguali annotazioni di segno opposto su un diverso “conto corrente di servizio” destinato appunto a registrare la situazione degli insoluti cambiari.

Più in dettaglio, la ricorrente lamenta che la corte territoriale abbia violato l’art. 2697 c.c., avendo reputato che gravasse sulla banca l’onere di provare le risultanze del suindicato “conto di servizio”, ad onta del principio per cui compete invece all’attore di dimostrare i fatti posti a base della domanda (quarto motivo).

Sostiene inoltre la ricorrente che la motivazione sul punto dell’impugnata sentenza risulti omessa, insufficiente o contraddittoria (quinto motivo).

1.4. Nemmeno tali motivi sono suscettibili di favorevole apprezzamento.

1.4.1. Il quinto motivo è senz’altro inammissibile, perchè anch’esso difetta della formulazione dell’autonomo momento di sintesi occorrente nella proposizione dei ricorsi a norma dell’art. 360 c.p.c., n. 5, e quindi per le medesime ragioni esposte a proposito del secondo motivo, da intendersi qui richiamate.

1.4.2. Il quarto motivo, se non del pari inammissibile, è infondato:

per l’assorbente ragione che, lungi dal porre a carico del convenuto l’onere della prova degli elementi di fatto posti a base della domanda, la Corte territoriale ha reputato che tale onere fosse stato nella specie adeguatamente assolto attraverso la documentazione degli accrediti operati sui conto corrente intestato alla I.F.A., in concomitanza con il protesto dei titoli in precedenza scontati dalla banca.

Muovendo da questa premessa, del tutto correttamente la stessa Corte ha poi considerato che, se la banca intendeva rovesciare l’evidenza di tali annotazioni sostenendo che esse avevano un significato diverso da quello apparente, ossia che si trattava di annotazioni derivanti da un mero giroconto cui non aveva corrisposto un’effettiva riduzione della posizione debitoria della società correntista, avrebbe dovuto la medesima banca farsi carico di dimostrare le circostanze su cui tale diversa ricostruzione si basava. Rilievo, quest’ultimo, pienamente coerente anche col cosiddetto principio di vicinanza della prova, connesso con l’effettiva possibilità per l’una o per l’altra parte di offrirla, che evidentemente ha portato ad individuare proprio nella banca il soggetto in grado di dimostrare l’esistenza del preteso “conto corrente di servizio” e le risultanze di esso.

Aggiungasi che la mancata produzione in giudizio di tale conto, ad opera della banca, è stata anche espressamente considerata dalla Corte d’appello come comportamento significativo, da cui trarre elemento di prova a norma del capoverso dell’art. 116 c.p.c.. Non solo, cioè, il giudice di merito ha ritenuto non provata l’esistenza delle pretese annotazioni di segno contrario sul “conto corrente di servizio”, dalle quali si sarebbe dovuto dedurre il valore meramente contabile degli accrediti figuranti sul conto ordinario, ma ha desunto dal comportamento della banca la prova negativa dell’esistenza di detto “conto corrente di servizio”, o almeno delle annotazioni che la banca medesima pretendeva vi figurassero, giacchè altrimenti sarebbe stato del tutto agevole per essa produrre in giudizio siffatto conto. Ma tale ultimo rilievo è completamente trascurato nel motivo di ricorso, che anche per questo non appare idoneo a scalfire la decisione impugnata.

2. Occorre ora procedere all’esame del ricorso proposto dalla I.F.A., che s’è già detto avere assunto la veste di ricorso incidentale e che esprime due distinte doglianze: l’una riguardante la riduzione dell’importo dei pagamenti revocabili operata dalla Corte d’appello, rispetto a quanto aveva in precedenza statuito il Tribunale (primo motivo), e l’altra – logicamente subordinata – concernente il quantum della somma che la medesima I.F.A., avendo beneficiato della provvisoria esecuzione della pronuncia del tribunale, è stata poi condannata a restituire alla banca in conseguenza della parziale riforma di detta sentenza (secondo motivo).

2.1. Il primo motivo del ricorso incidentale lamenta, oltre a vizi di motivazione dell’impugnata sentenza, la violazione dell’art. 112 c.p.c..

La società ricorrente sottolinea come il Tribunale avesse revocato pagamenti (con conseguente condanna della banca alla restituzione) per un importo complessivamente non superiore a quello richiesto nell’atto di citazione. La Corte d’appello, tuttavia, accogliendo parzialmente il gravame formulato dalla banca, ha ritenuto che la revoca disposta dal primo giudice avesse ecceduto con riguardo ad una parte della domanda – quella contenuta nel punto 18 della citazione – i limiti del richiesto, ed ha perciò ridotto la condanna entro tali limiti, mentre ha affermato di non poter corrispondentemente aumentare l’importo dei pagamenti da revocare in relazione a quanto richiesto al punto 20 della medesima citazione perchè l’attrice non aveva proposto impugnazione incidentale al riguardo. Del che la ricorrente ora si duole sostenendo che la sentenza di primo grado aveva unificato le diverse domande formulate nella citazione, senza che le parti si fossero di ciò lamentate, e che pertanto la corte d’appello, avendo tale unificazione acquisito forza di giudicato, lungi dallo scomporre nuovamente il contenuto di quelle domande, avrebbe dovuto arrestarsi al rilievo che l’importo complessivamente richiesto corrispondeva a quello indicato nella pronuncia del tribunale, da considerarsi perciò immune da vizi di ultrapetizione.

2.2. La riferita doglianza è in parte inammissibile ed in parte manifestamente infondata.

Inammissibile è la censura rivolta alla motivazione della sentenza impugnata, che ancora una volta risulta priva dell’indispensabile momento di sintesi contenente la chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, ovvero le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la renda inidonea a giustificare la decisione, e non è perciò rispettosa del precetto dettato dall’art. 366-bis c.p.c..

Del tutto privo di fondamento è l’assunto secondo il quale, avendo il primo giudice in alcuni passaggi della motivazione e del dispositivo della sua sentenza indicato cumulativamente l’importo dei pagamenti revocati e della somma che conseguentemente la banca avrebbe dovuto restituire, si sarebbe determinata una ormai inscindibile unificazione di quelli che già nell’atto di citazione erano stati prospettati (nè avrebbe potuto esser altrimenti) come pagamenti da revocare e come domande di restituzione distinti.

E’ invero di assoluta evidenza che, in presenza di una pluralità di atti solutori assoggettabili a revoca a causa dell’insolvenza di chi li ha compiuti, non può che aversi una corrispondente pluralità di domande, ciascuna caratterizzata da un proprio petitum e da una propria causa petendi, pur se cumulate in un medesimo atto di citazione. Ed appare altrettanto chiaro che l’espressione con la quale il giudice si pronuncia sul cumulo di tali domande, pur se formulata in termini sintetici ed omnicomprensivi, non vale a farne venir meno l’autonomia (e tanto meno è suscettibile di unificarle con effetto di giudicato): con la conseguenza che la corrispondenza o meno tra il richiesto ed il pronunciato deve pur sempre essere verificata, ove un tal problema di ponga nel successivo grado di giudizio, avendo riguardo al contenuto di ogni singola domanda in sè sola considerata.

2.3. Il secondo motivo del ricorso incidentale nuovamente fa cenno a vizi di motivazione della sentenza impugnata e vi aggiunge una doglianza per violazione dell’art. 2033 c.c..

E’ in questione l’importo da restituire in conseguenza della provvisoria esecuzione della sentenza di primo grado, parzialmente riformata in appello. Importo che, a parere della società ricorrente, sarebbe stato mal calcolato dalla Corte territoriale finendo per comprendere anche una quota riferibile alle spese processuali di primo grado, benchè in altra parte della propria sentenza la stessa Corte d’appello avesse dichiarato di voler tenere ferma la condanna della banca al pagamento di tali spese.

2.4. Neppure tali doglianze colgono nel segno.

Nuovamente va rilevata l’inammissibilità della censura per vizi di motivazione del provvedimento impugnato, non formulata neppure questa volta nei termini prescritti dal citato art. 366-bis.

Quanto al lamentato errore di diritto (ammesso che possa dirsi tale), la sua rilevabilità, nei termini in cui la ricorrente lo denuncia, è condizionata dalla possibilità di verificare che effettivamente l’importo della condanna alla restituzione dell’indebito pronunciata dalla Corte d’appello ha finito per comprendere anche quanto la I.F.A. ricevette a titolo di rimborso delle spese processuali di primo grado. Ma una tale verifica non è possibile in questa, sede, essendo precluso al giudice di legittimità l’esame diretto delle risultanze di causa acquisite nel giudizio di merito ed avendo d’altronde la stessa Corte d’appello espressamente chiarito che il bonifico e la quietanza di pagamento prodotti nel corso del giudizio di secondo grado non risultavano più reperibili in atti al momento della decisione, con la conseguenza che, pur potendosi ritenere provato, in difetto di contestazione, l’avvenuto pagamento di complessivi Euro 881.810, 93 da parte della banca in esecuzione della sentenza di primo grado, risultava già allora impossibile controllare i calcoli effettuati per giungere a quella somma (ragion per cui la condanna alla restituzione è stata pronunciata enunciando “non la somma esatta, bensì tutti i criteri matematici necessari e sufficienti per calcolarla”).

Tanto meno, ovviamente, è possibile controllare l’esattezza del calcolo ora prospettato nel motivo di ricorso di cui si sta parlando:

il che basta ad impedire l’accoglimento della doglianza.

3. Il rigetto di entrambi i ricorsi determina una situazione di soccombenza reciproca che induce a compensare tra le parti le spese del giudizio di legittimità.

PQM

La Corte rigetta entrambi i ricorsi e compensa tra le parti le spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 3 febbraio 2010.

Depositato in Cancelleria il 28 aprile 2010

 

 

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