Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 10211 del 28/04/2010

Cassazione civile sez. I, 28/04/2010, (ud. 11/01/2010, dep. 28/04/2010), n.10211

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VITTORIA Paolo – Presidente –

Dott. FELICETTI Francesco – rel. Consigliere –

Dott. RORDORF Renato – Consigliere –

Dott. PICCININNI Carlo – Consigliere –

Dott. GIANCOLA Maria Cristina – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 26498-2008 proposto da:

G.L.M. (c.f. (OMISSIS)), elettivamente

domiciliata in ROMA, VIA TOSCANA 10, presso l’avvocato RIZZO ANTONIO,

che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato BERNARDINI DE

PACE ANNAMARIA, giusta procura speciale per Notaio CARLOS E.

RODRIGUEZ di BUENOS AIRES – n. F 004 601641 del 9/10/08;

– ricorrente –

contro

G.F. (c.f. (OMISSIS)), elettivamente

domiciliato in ROMA, VIALE BRUNO BUOZZI 99, presso l’avvocato PUNZI

CARMINE, che lo rappresenta e difende, giusta procura a margine del

controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 2283/2008 della CORTE D’APPELLO di MILANO,

depositata il 06/08/2008;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

11/01/2010 dal Consigliere Dott. FRANCESCO FELICETTI;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

PRATIS PIERFELICE che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso.

 

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1. Il sig. G.F., con citazione notificata il 6 ottobre 2006 alla sig.ra G.M.M., chiedeva alla Corte di Appello di Milano di dichiarare efficace nello Stato italiano la sentenza emessa dal Tribunale ecclesiastico regionale ligure il 9 maggio 2005, confermata con decreto del Tribunale ecclesiastico di appello di Torino del 6 aprile 2006, resa esecutiva in data 14 giugno 2006, che aveva dichiarato la nullità del matrimonio concordatario celebrato fra le parti il 5 aprile 1998. la convenuta si costituiva opponendosi alla delibazione della sentenza in quanto contraria all’ordine pubblico e chiedendo, in via subordinata, la fissazione in proprio favore di una provvisionale ex art. 129 bis c.c.. La Corte di Appello, con sentenza depositata il 6 agosto 2008 dichiarava l’efficacia nello Stato italiano della sentenza ecclesiastica, mentre respingeva la domanda relativa alla provvisionale. La G. ha proposto ricorso a questa Corte avverso la su detta sentenza, con atto notificato il giorno 11 (Ndr: testo originale non comprensibile) 2008 al G., il quale resiste con controricorso notificato il 19 dicembre 2008. il G. ha anche depositato memoria.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo si denuncia la violazione degli artt. 796 e 797 c.p.c. e della L. n. 218 del 1985, art. 64. Si deduce al riguardo che la Corte di Appello avrebbe erroneamente applicato alla fattispecie l’art. 64 su detto anzichè gli artt. 796 e 797 c.p.c. i quali, ancorchè abrogati dalla L. n. 218 del 1995, art. 72, continuano a trovare applicazione nei giudizi di delibazione delle sentenze ecclesiastiche di nullità dei matrimoni concordatari, come affermato dalla giurisprudenza di questa Corte.

Al riguardo va considerato che, a norma della L. n. 121 del 1985, art. 8, n. 2 le sentenze di nullità dei matrimoni pronunciate dai tribunali ecclesiastici possono avere efficacia nell’ordinamento dello Stato italiano ove ricorrano le condizioni di cui alle lett. a), b) e c) cioè: (lett. a) “che il giudice ecclesiastico era il giudice competente a conoscere della causa in quanto matrimonio celebrato in conformità del presente articolo”; (lett. b) “che nel procedimento dinanzi ai tribunali ecclesiastici è stato assicurato alle parti il diritto di agire e di resistere in giudizio in modo non difforme dai principi fondamentali dell’ordinamento giuridico italiano”; (lett. c) “che ricorrono le altre condizioni richieste dalla legislazione italiana per la dichiarazione di efficacia delle sentenze straniere”. Va inoltre considerato che tale rinvio, avendo natura di rinvio materiale e non formale (Cass. 10 maggio 2006, n. 10796), va riferito al testo dell’art. 797 c.p.c., vigente all’epoca dell’entrata in vigore della L. n. 121 del 1985, e non alla L. n. 218 del 1995 (art 64), successivamente entrata in vigore. Infatti, come è stato già affermato da questa Corte (Cass. 8 luglio 2009, n. 16051; 11 febbraio 2008, n. 3186; 8 giugno 2005, n. 12010; 25 maggio 2005, n. 11020; 30 maggio 2003, n. 8764), l’abrogazione dell’art. 797 c.p.c., sancita dalla L. 31 maggio 1995, n. 218 (art. 73) di riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato non è idonea, in ragione della fonte di legge formale ordinaria da cui è disposta, a spiegare efficacia sulle disposizioni dell’Accordo, con protocollo addizionale, di modificazione del Concordato lateranense, firmato a Roma il 18 febbraio 1984 e reso esecutivo con la L. 25 marzo 1985, n. 121, disposizioni le quali – con riferimento alla dichiarazione di efficacia, nella Repubblica italiana, delle sentenze di nullità di matrimonio pronunciate dai tribunali ecclesiastici – contengono un espresso riferimento all’applicazione degli artt. 796 e 797 c.p.c., (cosi l’art. 4 del protocollo addizionale, in relazione all’art 8 dell’Accordo). Ne consegue che il giudice italiano, al fine di decidere sulla domanda avente ad oggetto la predetta dichiarazione di efficacia, deve continuare ad applicare i menzionati articoli del codice di procedura civile, i quali risultano perciò connotati – relativamente a tale specifica materia ed in forza del principio concordatario accolto dall’art. 7 Cost., (comportante la resistenza all’abrogazione delle norme pattizie, le quali sono suscettibili di essere modificate, in mancanza di accordo delle parti contraenti, soltanto attraverso leggi costituzionali) – da una vera e propria ultrattività.

Peraltro nel caso di specie, pur avendo la sentenza impugnata fatto erroneamente riferimento – con la conseguenza che sul punto la sua motivazione va corretta ai sensi dell’art. 384 c.p.c. – ai fini della declaratoria di efficacia nello Stato italiano della sentenza ecclesiastica alla L. n. 218 del 1995, art. 64, in effetti ha riscontrato la sussistenza delle condizioni previste della L. n. 121 del 1985, sopra menzionato art. 8, n. 2, lett. a) e b), nonchè la ricorrenza di quelle previste dall’art. 797 c.p.c., nei limiti in cui integra detto art. 8. A tal fine ha intatti riscontrato, oltre al rispetto delle garanzie di difesa della convenuta, costituitasi nel giudizio ecclesiastico e posta pienamente in condizione di fare valere le sue ragioni, che la sentenza della quale si chiedeva l’efficacia era passata in giudicato secondo le regole dell’ordinamento canonico e non risultava in contrasto con altra sentenza definitiva del giudice italiano. Ha inoltre riscontrato la compatibilità “della ritenuta causa di nullità per simulazione unilaterale del marito, consistente nell’esclusione dell’indissolubilità e della prole con l’ordine pubblico italiano”, ritenendone e motivandone la conoscenza o, quanto meno, la conoscibilità, da parte dell’altro coniuge, come richiesto appunto, dai principi dell’ordine pubblico italiano.

Ne deriva che il motivo va rigettato.

2.1. Con il secondo motivo sì denunciano la violazione dell’art. 8, comma 2, lett. c) dell’accordo di revisione del Concordato 18 febbraio 1984, ratificato con L. n. 121 del 1985, dell’art. 116 c.p.c. e vizi motivazionali. Si deduce che erroneamente la sentenza impugnata avrebbe negato il contrasto della sentenza ecclesiastica con l’ordine pubblico, inteso quale complesso di principi fondamentali dell’ordinamento italiano. Ciò in quanto, come è costante insegnamento giurisprudenziale, la sentenza ecclesiastica dichiarativa della nullità del matrimonio concordatario per esclusione da parte di uno solo dei coniugi dei “bona matrimonii”, trova ostacolo nell’ordine pubblico ove detta esclusione sia rimasta nella sfera psichica del suo autore, perchè non conosciuta nè conoscibile dall’altro coniuge e il relativo accertamento deve essere compiuto dal giudice della delibazione in via autonoma, sulla base degli elementi di prova acquisiti nel processo ecclesiastico. Si deduce in proposito che la sentenza impugnata avrebbe recepito acriticamente le risultanze della sentenza ecclesiastica, facendo un generico riferimento al “complesso dei provvedimenti resi dal giudice ecclesiastico”‘, senza vagliare autonomamente gli atti di quel processo. In particolare, avrebbe assunto a fondamento del proprio convincimento le dichiarazioni delle parti, che nel nostro ordinamento non costituiscono prova, con specifico riferimento a quelle del G., che essendo l’attore di quel processo era del tutto inattendibile. Avrebbe inoltre assunto come prova le dichiarazioni dell’odierna ricorrente riferite a situazioni precedenti alla data del matrimonio, trascurando altre, di segno opposto, che si riferivano all’epoca immediatamente precedente ai matrimonio, così come avrebbe fatto per le testimonianze, da nessuna delle quali sarebbe stata desumibile la conoscenza o conoscibilità sulla base di fatti univoci, da parte della Ga., della riserva mentale del G., che non risulta a lei esternata, risultando in tal modo la sentenza non adeguatamente motivata.

Il motivo si conclude con il seguente questo: “Dica la Corte se il giudice, chiamato a pronunciarsi in sede di delibazione in Italia della sentenza ecclesiastica di nullità matrimoniale, fondata sull’esclusione da parte di uno soltanto dei coniugi dei bona matrimonii, debba procedere a un’autonoma valutazione delle prove secondo le regole del processo civile e debba procedere, In sede di accertamento della conoscenza e conoscibilità della riserva mentale da parte del coniuge deceptus a una valutazione degli elementi atti a sopportare tale condizione di psicologica conoscenza, fondando il proprio convincimento su fatti rigorosi, univoci ed espressi”.

Il controricorrente ha eccepito l’inammissibilità del motivo sotto vari profili. In particolare ne ha dedotto la mancanza di autosufficienza, con specifico riferimento all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3, nonchè dell’art. 366 bis c.p.c. in relazione al dedotto vizio motivazionale della sentenza impugnata, non accompagnato dalla sintesi richiesta ai sensi di detto articolo, nè dalla individuazione specifica delle fonti di prova citate e dalla indicazione degli atti dove si trovavano, nè dalla loro testuale riproduzione. Ne ha dedotto inoltre l’inammissibilità sotto il profilo che il motivo sì risolveva in un’ammissibile richiesta di una nuova valutazione delle prove, non consentita in questa sede, nonchè per la commistione fra il profilo della violazione di legge e quello del vizio motivazionale, a sua volta non consentita dall’art. 366 c.p.c..

In relazione a tali eccezioni d’inammissibilità del motivo, va considerato che effettivamente, allorchè nel motivo si lamenti un vizio di motivazione della sentenza impugnata in merito a un fatto controverso, l’onere d’indicare chiaramente tale fatto, ovvero le ragioni per le quali la motivazione si reputa insufficiente, imposto dall’art. 366 bis c.p.c. – applicabile nel caso di specie “ratione temporis” – deve essere adempiuto non solo illustrando il relativo motivo di ricorso, ma anche formulando, al termine di esso, un’indicazione riassuntiva e sintetica che costituisca un “quid pluris” rispetto all’illustrazione del motivo e che consenta al giudice di valutare immediatamente l’ammissibilità del ricorso (Cass. Sez. un. 7 aprile 2008, n. 8897; 1 ottobre 2007. n. 20603). Va inoltre considerato che, secondo la giurisprudenza di questa Corte (Cass. Sez. un. 31 marzo 2009, n. 7770) in linea di principio è ammissibile il motivo di ricorso con il quale sì denuncino congiuntamente violazioni di legge e vizi di motivazione, ma sempre che siano rispettate le prescrizioni dell’art. 366 bis. Il che implica la formulazione, a conclusione del motivo, sia di idonei quesiti di diritto, sia della sintesi richiesta in relazione ai profili attinenti ai vizi motivazionali dedotti.

Nel caso di specie il motivo in esame si conclude solo con un quesito riferibile unicamente al dedotto vizio di diritto, mentre risulta non adempiuta la prescrizione dell’art. 366 bis in relazione ai dedotti vizi motivazionali. Ne deriva che, in analogia con quanto ritenuto da questa Corte (Cass. sez. un 9 marzo 2009, n. 5624) per il caso di proposizione di motivi formalmente unici ma in effetti plurimi, per le diverse ed autonome censure di diritto proposte, in relazione ai quali solo per talune censure sia riscontrabile l’adempimento alle prescrizioni dell’art. 366 bis, il motivo deve essere ritenuto ammissibile in relazione al profilo attinente alla dedotta violazione di legge ed inammissibile per la parte attinente ai dedotti vizi motivazionali.

2.2. Quanto al profilo relativo alla violazione del Concordato ratificato con la L. n. 121 del 1985, art. 8, comma 2, lett. c), inerente alla negazione da parte della sentenza impugnata del contrasto della sentenza ecclesiastica con l’ordine pubblico, per avere ritenuto conosciuta o conoscibile da parte della ricorrente l’esclusione da parte dell’altro coniuge dei “bona matrimonii” costituiti dall’indissolubilità del vincolo matrimoniale e della prole essenzialmente sulla base di una ricezione acritica delle risultanze della sentenza ecclesiastica, senza un autonomo esame degli atti del processo ecclesiastico, secondo le regole del processo civile, esso è infondato.

Al riguardo va considerato che, secondo il consolidato indirizzo giurisprudenziale di questa Corte (ex multis Cass. 19 ottobre 2007, n. 22011; 19 ottobre 2007, n. 22011; 7 dicembre 2005, n. 27078; 16 luglio 2003, n. 11137) la declaratoria di esecutività della sentenza del tribunale ecclesiastico che abbia pronunciato la nullità del matrimonio concordatario per esclusione, da parte di uno soltanto dei coniugi dei “bona matrimonii” (cioè per divergenza unilaterale tra volontà e dichiarazione) postula che tale divergenza sia stata da questo manifestata all’altro coniuge, ovvero che sia stata da questo effettivamente conosciuta, ovvero che non gli sia stata nota soltanto a causa della sua negligenza, atteso che, ove le su indicate situazioni non ricorrano, la delibazione trova ostacolo nella contrarietà con l’ordine pubblico italiano, nel cui ambito va ricompreso il principio fondamentale di tutela della buona fede e dell’affidamento incolpevole.

Va parimenti considerato (Cass. 1 febbraio 2008, n. 2467) che, in sede di delibazione della sentenza di nullità matrimoniale emessa dal giudice ecclesiastico per esclusione dei “bona matrimonii”, il giudice italiano è vincolato ai fatti accertati in quella pronuncia, non essendogli concesso nè un riesame del merito nè il rinnovo dell’istruttoria con acquisizione di nuovi materiali probatori. Fermo questo principio, peraltro, il giudice della delibazione, essendo diversa la natura dei due giudizi – quello ecclesiastico teso ad accertare la “voluntas simulandi” di un coniuge e quello di delibazione incentrato sulla necessità di verificare il profilo di conoscenza o conoscibilità di tale riserva unilaterale – ha piena autonomia nel giudicare della conoscenza o conoscibilità, da parte dell’altro coniuge, della su detta “voluntas simulandi” (Cass. 29 aprile 2004, n. 8205; 6 marzo 2003, n. 3339; 8 gennaio 2001, n. 198), che può desumere sia dalla sentenza ecclesiastica delibanda, ove giudichi gli elementi da essa emergenti a ciò sufficienti, sia integrando tali elementi con le risultanze di. altri atti del processo canonico, ove prodotti.

Nel caso di specie la Corte d’appello risulta avere preso dettagliatamente in esame (pagg. 6-8 della sentenza) le decisioni adottate dai giudici ecclesiastici nei vari gradi del giudizio canonico, traendo da esse, ritenute a ciò idonee e sufficienti, l’autonomo e diffusamente motivato convincimento, fondato su molteplici elementi (e non solo dalle dichiarazioni dell’odierno resistente) – fra i quali anche lo stile di vita e i tratti salienti della personalità del marito – desunti da una pluralità di fonti probatorie specificamente esaminate e riportate, che la ricorrente doveva conoscere e non poteva ignorare le riserve del marito in ordine ai “bona matrimonii” che hanno determinato la pronuncia di nullità del matrimonio concordatario e, ove le avesse ignorate, ciò era conseguenza della sua negligenza.

Ne consegue che la dedotta violazione di legge, prospettata sotto tale profilo, non sussiste.

3. Con il terzo motivo si denunciano la violazione dell’art. 129 bis cod. civ. e vizi motivazionali, per avere la sentenza impugnata respinto la domanda di una provvisionale erroneamente ritenendo dimostrata la conoscenza o conoscibilità da parte della ricorrente Ga. della causa di nullità del matrimonio.

Il motivo va dichiarato inammissibile.

Il provvedimento, la cui legittimità si contesta, risulta adottato sulla base dell’art. 8, n. 2, dell’Accordo tra la Repubblica italiana e la Santa Sede del 18 febbraio 1984, di revisione del Concordato lateranense (reso esecutivo con L. n. 121 de 1985), il quale riconosce alla Corte d’appello, in sede di delibazione delle sentenze dei tribunali ecclesiastici dichiarative della nullità dei matrimoni concordatari, il potere di disporre, in via provvisoria, una congrua indennità e la corresponsione di alimenti al coniuge di buona fede.

In proposito questa Corte ha già avuto modo di statuire (Cass. 11 febbraio 2008, n. 3186; 18 maggio 2007, n. 11654; 19 novembre 2003, n. 17535) che il provvedimento con il quale la Corte d’appello, chiamata a delibare la sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio concordatario, disponga, a norma dell’art. 8, n. 2, dell’Accordo sopra citato, di revisione del Concordato lateranense, misure economiche provvisorie a favore di uno dei coniugi il cui matrimonio sia stato dichiarato nullo, rientra fra i provvedimenti aventi funzione strumentale e natura anticipatola ed è subordinato all’accertamento, in via di delibazione sommaria, del diritto del richiedente al conseguimento dell’indennità e degli alimenti (“fumus boni iuris”), nonchè del pencolo del pregiudizio alla sua attuazione durante il tempo occorrente a farlo valere davanti al giudice competente per la decisione sulla materia. Conseguentemente, avverso detto provvedimento interinale, per sua natura inidoneo a conseguire efficacia di giudicato (sia dal punto di vista formale che sostanziale), non è esperibile nè il ricorso ordinario nè quello straordinario per cassazione ai sensi dell’art. 111 Cost..

4. Il ricorso, pertanto, deve essere rigettato, con la condanna della ricorrente alle spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M.

LA CORTE DI CASSAZIONE Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente alle spese del giudizio di cassazione, che liquida nella misura di Euro tremilaseicento, di cui Euro duecento per spese vive, oltre spese generali e accessori come per legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile, il 11 gennaio 2010.

Depositato in Cancelleria il 28 aprile 2010

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