Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 10199 del 28/05/2020

Cassazione civile sez. I, 28/05/2020, (ud. 04/11/2019, dep. 28/05/2020), n.10199

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PETITTI Stefano – Presidente –

Dott. MELONI Marina – Consigliere –

Dott. PARISE Clotilde – Consigliere –

Dott. SCALIA Laura – Consigliere –

Dott. RUSSO Rita – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 32109/2018 proposto da:

A.T., elettivamente domiciliato in Avellino via

Tranquillino Benigni 10, presso lo studio dell’avv. Antonio Barone

che lo rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

Ministero dell’Interno, in persona del Ministro pro tempore;

– intimato –

avverso la sentenza n. 2058/2018 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI,

depositata il 07/05/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

04/11/2019 da Dott. RUSSO RITA.

Fatto

RILEVATO

CHE:

1.- A.T. ha chiesto la protezione internazionale, deducendo di essere originario del (OMISSIS), di avere sostenuto il partito dell'(OMISSIS) nel 2006 e di avere timore di essere arrestato. La Commissione territoriale ha negato la protezione ritenendo il

racconto dei fatti non plausibile. Il richiedente ha opposto il provvedimento e il Tribunale di Napoli ha riconosciuto il diritto ad un permesso di soggiorno per motivi umanitari. Propone appello il richiedente, per il riconoscimento dello status di rifugiato o in subordine della protezione sussidiaria.

La Corte d’appello di Napoli, con sentenza del 7 maggio 2018, ha rigettato l’appello dando atto che in (OMISSIS) attualmente vi è una governo democraticamente eletto, dopo la fuga del dittatore J. (21.1.2017), e che non sussistono pertanto i presupposti per il riconoscimento dello status o della protezione sussidiaria.

2.- Avverso la predetta sentenza propone ricorso per cassazione il richiedente affidandosi a quattro motivi.

Diritto

RITENUTO

CHE:

3.- Con il primo motivo di ricorso si lamenta la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 3 e 5 nonchè del D.Lgs. n. 25 del 2008, artt. 8 e 27.

Secondo il ricorrente sia il Tribunale che la Corte d’appello avrebbero violato il principio di diritto secondo il quale il giudice non può fondare il proprio convincimento esclusivamente sulla credibilità soggettiva del richiedente ma deve verificare le condizioni di persecuzione acquisendo informazioni sulle condizioni del paese di origine, nell’ambito del dovere di cooperazione.

Il motivo è inammissibile in quanto generico, intrinsecamente contraddittorio e non pertinente alle effettive motivazioni rese dalla Corte d’appello.

La parte deduce che “il giudice non può formare il proprio convincimento esclusivamente sulla base della credibilità soggettiva del richiedente” ma afferma poi – quando si trova a dover citare la giurisprudenza di questa Corte – esattamente il contrario, e cioè che la riferibilità al richiedente del fumus persecutionis può essere fondata anche solo sulla credibilità delle dichiarazioni. Così facendo la parte pur deducendo una (presunta) violazione dell’onere di cooperazione, non spiega in che cosa effettivamente esso consiste; in particolare non è chiaro se deduce che esso costituisca un onere per il giudice anche a fronte di un preliminare giudizio di difetto di credibilità. Si può qui ricordare, in ogni caso, che il principio di diritto affermato da questa Corte è invece nel senso che il compito del giudice si definisce nell’integrare “il giudizio di veridicità delle dichiarazioni del richiedente con l’assunzione delle informazioni relative alla condizione generale del Paese” (cfr. Cass. n. 16202/2012; Cass. n. 10202/2011), mentre di contro il potere-dovere di cooperazione istruttoria non sorge in presenza di dichiarazioni intrinsecamente inattendibili alla stregua degli indicatori di genuinità soggettiva contenuti nel D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3 (cfr. Cass. n. 7333/2015). Inoltre la critica svolta non è neppure pertinente alle motivazioni rese dalla Corte di merito, che ha acquisito informazioni aggiornate sulla condizione del paese di origine, oggi sorretto da un governo democratico, e le ha utilizzate al fine di escludere che sussista il rischio di persecuzione o danno grave. Di contro il richiedente non specifica neppure quali altre informazioni – in ipotesi – il giudice avrebbe dovuto acquisire e da quali fonti.

Con il secondo motivo del ricorso la parte lamenta la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 2, 7, 8 e 11 e del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 2. Secondo il ricorrente la Corte avrebbe errato a non ritenere che dai fatti rappresentati si desume il rischio di subire atti di persecuzione gravi.

Il motivo è inammissibile, trattandosi solo di generiche e stereotipate enunciazioni sul rischio di persecuzione, senza alcun riferimento nè alla concreta vicenda che ha interessato il ricorrente, nè alle argomentazioni esposte dalla Corte.

Con il terzo motivo del ricorso si lamenta la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c).

La parte lamenta che ha errato il Tribunale (e non la Corte) a ritenere insussistenti i presupposti per il riconoscimento della protezione sussidiaria, non tenendo conto delle gravi violazioni dei diritti umani in (OMISSIS) e della situazione di violenza ad opera di gruppi armati.

Il motivò è inammissibile, perchè generico e intrinsecamente contraddittorio e privo di riferimento alla storia individuale.

Nella illustrazione del motivo si fa riferimento, al tempo stesso, alla violazione dei diritti umani, che non integra il presupposto di cui all’art. 14 cit., lett. c ed alla situazione di violenza indiscriminata che sarebbe incontestata, ma senza spiegare in che cosa esattamente consista questo presunto conflitto esistente nel (OMISSIS). Le censure sono stereotipate e prive di qualsivoglia riferimento alle motivazioni rese dalla Corte d’appello, che non viene neppure menzionata. Si menzionano, infatti, in più occasioni, agli errori che sarebbero stati commessi dal Tribunale, ma senza riportare o riassumere le motivazioni del giudice di primo grado, meno che mai le motivazioni rese dal giudice d’appello e senza spiegare in cosa consisterebbe in concreto l’errore, se non con generici ed inconferenti riferimenti alla sentenza della CGUE nel caso Elgafaji e all’art. 8. della Direttiva 2004/83/CE.

Con il quarto e ultimo motivo di ricorso si lamenta la violazione o falsa applicazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6. Secondo la parte il “decreto” impugnato sarebbe erroneo nella parte in cui ritiene insussistenti i presupposti per il riconoscimento della protezione umanitaria.

Il motivo è inammissibile e la sua stessa esposizione indica che il ricorso è con ogni probabilità frutto di un automatica e stereotipata riproduzione del ricorso di primo grado. Il provvedimento impugnato non è un decreto, ma una sentenza, e la protezione umanitaria è stata già riconosciuta dal Tribunale e confermata dalla Corte d’appello.

Il ricorso è pertanto inammissibile. Nulla sulle spese in difetto di costituzione del Ministero.

Il richiedente non risulta ammesso al patrocinio a spese dello Stato e pertanto è tenuto al versamento del contributo unificato, nonchè dell’ulteriore importo di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater (cfr. Cass. 7368/2017; Cass. n. 32319/ 2018), se ed in quanto dovuto.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso. Nulla sulle spese.

Ricorrono i presupposti per l’applicazione del doppio contributo di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater se dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 4 novembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 28 maggio 2020

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