Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 10181 del 30/04/2013


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Civile Sent. Sez. L Num. 10181 Anno 2013
Presidente: LAMORGESE ANTONIO
Relatore: ARIENZO ROSA

SENTENZA
sul ricorso 16461-2008 proposto da:
POSTE

ITALIANE S.P.A.,

in persona del

legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata
in ROMA, VIA PO 25-B, presso lo studio dell’avvocato
PESSI ROBERTO, che la rappresenta e difende giusta
delega in atti;
– ricorrente –

2013

contro

1067

.

FELCETI TIZIANA;
– intimata –

avverso la sentenza n. 216/2007 della CORTE D’APPELLO

Data pubblicazione: 30/04/2013

di PERUGIA, depositata il 23/06/2007 r.g.n. 575/05;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica
udienza del 21/03/2013 dal Consigliere Dott. ROSA
ARIENZO;
udito l’Avvocato DE MARINIS NICOLA per delega ROBERTO

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. IGNAZIO PATRONE, che ha concluso per
raccoglimento sulle conseguenze economiche.

PESSI;

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con sentenza del 23.6.2007, la Corte di Appello di Perugia confermava la sentenza del
Tribunale di Orvieto con la quale era stata accolta la domanda di Felcetti Tiziana nel senso
della declaratoria di nullità del termine apposto al primo dei contratti stipulati dalla S.p.a.
Poste Italiane con la predetta, risalente al 1.4.1999, della riammissione in servizio della
ricorrente e della condanna della società al risarcimento delle danno come dalle parti

31.5.1999 ricadeva in un periodo di tempo successivo a quello in cui l’apposizione del
termine per effetto della pattuizione collettiva del 25.9.1997, dei successivi accordi
integrativi e di quanto disposto dall’art. 23 comma 1 I. 56/87 poteva considerarsi legittima,
essendo venuta meno la validità della clausola autorizzatoria.
Per la cassazione di tale decisione ricorre la s.p.a. Poste Italiane con quattro motivi,
illustrati nella memoria depositata ai sensi dell’art. 378 c.p.c.
La Felcetti è rimasta intimata.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo, la società denunzia violazione o falsa applicazione dell’art. 23 della I.
56/87 e dell’art. 1362 e ss. c. c., nonché omessa, insufficiente o contraddittoria
motivazione circa un punto decisivo della controversia, ex art. 360, nn. 3 e 5, c.p.c.,
sostenendo che alcun limite temporale poteva essere fissato per la validità del patto
collettivo del 1997 e che in base ai criteri ermeneutici validi in tema di contrattazione
collettiva, che privilegiano criteri ulteriori rispetto a quello letterale, la volontà delle parti
era quella di introdurre un’ipotesi valida fino alla scadenza del c.c.n.l. 1994 e che quindi
l’accordo del 25.9.1997 non conteneva in sé alcuna limitazione temporale, in quanto
integrativo della disciplina del c.c.n.I., per cui non poteva che valere per l’intera durata di
questo. Assume che gli accordi posteriori a quello del 25.9.1997 avevano valenza
meramente ricognitiva della sussistenza delle condizioni in fatto legittimanti il ricorso all’
apposizione dei termine, senza circoscrivere in alcun modo il ricorso a tale strumento solo
al periodo temporale ivi indicato.

1

quantificato. Rilevava che doveva ritenersi che il contratto del 1.4.1999 con termine al

Con il secondo motivo, la ricorrente lamenta violazione o falsa applicazione dell’art. 1372,
commi 1 e 2, c. c., nonché omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un
fatto controverso e decisivo per il giudizio, ex art. 360, nn. 3 e 5, c.p.c..e, con quesito
formulato ai sensi dell’art. 366 bis, c.p.c., domanda se, al pari dell’esecuzione, anche il suo
contrario assume valore dichiarativo, per cui il comportamento inerte delle parti, protratto
nel tempo, che si risolve nella totale mancanza di operatività di un rapporto, deve essere

Con il terzo motivo si duole della omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione, ex
art. 360, n. 5, c.p.c., domandando se il rapporto tra contratto a tempo indeterminato ed a
tempo determinato debba, alla luce della normativa nazionale ed europea, essere
governato dal principio “regola” ed “eccezione” e se le parti sociali possano, ancora, con
l’entrata in vigore del d. lgs 368/2001, intervenire nella individuazione di fattispecie
autorizzatorie dell’apposizione del termine con efficacia per tutti i dipendenti in ragione
della inscindibilità del potere organizzativo e perchè, altrimenti, si consentirebbero
discriminazioni per ragioni sindacali .
Con il quarto motivo, deduce la violazione o falsa applicazione di norme di diritto, nonchè
omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione, ex art. 360, nn. 3 e 4, c.p.c.,
contestando la identificazione dell’offerta della prestazione lavorativa nella richiesta del
tentativo obbligatorio di conciliazione ritenuta dalla Corte del merito e l’automatica
equivalenza del risarcimento ai compensi retributivi perduti. Con quesito di diritto chiede
se, in caso di domanda di risarcimento dei danni a seguito di intervenuto scioglimento del
rapporto determinatosi per effetto dell’iniziativa del datore fondata su clausola risolutiva
contrattuale nulla, rimanga a carico dello stesso lavoratore, in qualità di attore, l’onere di
allegare e provare il danno da scioglimento del rapporto e se tale danno possa equivalere
alle retribuzioni perdute — detratto l’

aliunde perceptum — a causa della mancata

esecuzione delle prestazioni lavorative, ma presupponga che queste siano state offerte
dal lavoratore e che il datore le abbia illegittimamente rifiutate; se il risarcimento sia da
escludersi ove si accerti che il danno del lavoratore si sia ridotto in misura corrispondente
ad altri compensi percepiti per prestazioni lavorative svolte presso altri datori di lavoro.
Il ricorso è infondato.

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valutato in modo socialmente tipico quale dichiarazione risolutoria

Va ribadito in fatto che il contratto a termine di cui si discute risulta stipulato per il periodo
dal 1.4.1999 al 31.5.1999, ex art. 8 del ccnI 26.11.94, come integrato dall’accordo 26.9.97,
per “esigenze eccezionali conseguenti alla fase di ristrutturazione e rimodulazione degli
assetti occupazionali in corso, quale condizione per la trasformazione della natura
giuridica dell’Ente ed in ragione della graduale introduzione di nuovi processi produttivi, di
sperimentazione di nuovi servizi e in attesa dell’attuazione del progressivo e completo

In relazione ai vizi denunziati di violazione di legge e delle norme della contrattazione
collettiva intercorse a regolazione delle assunzioni a termine dei dipendenti di Poste
Italiane s.p.a., deve darsi continuità al consolidato orientamento assunto in materia da
questa Corte. La giurisprudenza della Corte di cassazione ritiene che la L. 28 febbraio
1987, n. 56, art. 23 nel demandare alla contrattazione collettiva la possibilità di individuare
– oltre le fattispecie tassativamente previste dalla L. 18 aprile 1962, n. 230, art. 1 nonché
dal D.L. 29 gennaio 1983, n. 17, art. 8 bis conv. dalla L. 15 marzo 1983. n. 79 – nuove
ipotesi di apposizione di un termine alla durata del rapporto di lavoro, configura una vera e
propria delega in bianco a favore dei sindacati, i quali, pertanto, non sono vincolati
all’individuazione di figure di contratto a termine comunque omologhe
a quelle previste per legge (v. S.U. 2.3.06 n. 4588). Dato che in forza di tale delega le
parti sindacali hanno individuato, quale nuova ipotesi di contratto a termine, quella di cui
all’accordo integrativo del 25.9.97, la giurisprudenza ritiene corretta l’interpretazione dei
giudici di merito che, con riferimento al distinto accordo attuativo sottoscritto in pari data ed
al successivo accordo attuativo sottoscritto in data 16.1.98, ha ritenuto che con tali accordi
le parti abbiano convenuto di riconoscere la sussistenza fino al 31.1.98 (e poi in base al
secondo accordo attuativo, fino al 30.4.98), della situazione di fatto integrante le esigenze
eccezionali menzionate dal detto accordo integrativo. Con la conseguenza che, per far
fronte alle esigenze derivanti da tale situazione, l’impresa poteva procedere (nei suddetti
limiti temporali) ad assunzione di personale straordinario con contratto tempo determinato;
da ciò deriva che deve escludersi la legittimità dei contratti a termine stipulati dopo il 30
aprile 1998 in quanto privi di presupposto normativo. In altre parole, dato che le parti
collettive avevano raggiunto originariamente un’intesa priva di termine ed avevano
successivamente stipulato accordi attuativi che avevano posto un limite temporale alla
possibilità di procedere con assunzioni a termine, fissato inizialmente al 31.1.98 e
successivamente al 30.4.98, l’indicazione di tale causale nel contratto a termine legittima
3

equilibrio sul territorio delle risorse umane”.

l’assunzione solo ove il contratto scada in data non successiva al 30.4.98 (v., ex plurimis,
Cass. 23.8.06 n.18378). Conseguentemente i contratti stipulati al di fuori di tale limite
sono illegittimi, in quanto non rientrano nel complesso legislativo-collettivo costituito dalla
L. 28 febbraio 1987, n. 56, art. 23 e dalla successiva legislazione collettiva che consente la
deroga alla L. n. 230 del 1962.
Quanto alla rilevanza del successivo ccril 18.1.01, la giurisprudenza di questa Corte (v., ex

operata dai giudici di merito che hanno assegnato irrilevanza all’accordo in quanto
stipulato dopo circa due anni dalla scadenza dell’ultima proroga, e cioè quando il diritto del
soggetto si era già perfezionato. Ammesso che le parti avessero espresso l’intento di
interpretare autenticamente gli accordi precedenti, con effetti comunque di sanatoria delle
assunzioni a termine effettuate senza la copertura dell’accordo 25 settembre 1997
(scaduto in forza degli accordi attuativi), la giurisprudenza ritiene che suddetta conclusione
deve comunque ritenersi conforme alla regola dell’indisponibilità dei diritti dei lavoratori già
perfezionatisi, dovendosi escludere che le parti stipulanti avessero il potere, anche
mediante lo strumento dell’interpretazione autentica (previsto solo per lo speciale settore
del lavoro pubblico, secondo la disciplina nel D. Lgs. n. 165 del 2001), di autorizzare
retroattivamente la stipulazione di contratti a termine non più legittimi per effetto della
durata in precedenza stabilita (v. per tutte Cass. 12.3.04 n. 5141).
All’esito di questa disamina,

ribadito che

il

contratto a termine de

quo non rientrava tra quelli di cui la contrattazione collettiva consentiva la stipulazione per
periodo successivo al 30.4.98, deve rigettarsi il motivo esaminato.
Quanto al secondo motivo, deve rilevarsi come questa Corte abbia più volte affermato
che “nel giudizio instaurato ai fini del riconoscimento della sussistenza di un unico rapporto
di lavoro a tempo indeterminato, sul presupposto dell’illegittima apposizione al contratto di
un termine finale ormai scaduto, affinché possa configurarsi una risoluzione del rapporto
per mutuo consenso, è necessario che sia accertata — sulla base del lasso di tempo
trascorso dopo la conclusione dell’ultimo contratto a termine, nonché del comportamento
tenuto dalle parti e di eventuali circostanze significative — una chiara e certa comune
volontà delle parti medesime di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo; la
valutazione del significato e della portata del complesso di tali elementi di fatto compete al
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plurimis, Cass. 23.8.06 n. 18378) ritiene corretta la ricostruzione della volontà delle parti

giudice di merito, le cui conclusioni non sono censurabili in sede di legittimità se non
sussistono vizi logici o errori di diritto” (v. Cass. 10-11-2008 n. 26935, Cass. 28-9-2007 n.
20390, Cass. 17-12-2004 n. 23554, Cass. 11-12-2001 n. 15621).
Tale principio va enunciato anche in questa sede, rilevando, inoltre che, come pure è
stato precisato, “grava sul datore di lavoro, che eccepisca la risoluzione per mutuo
consenso, l’onere di provare le circostanze dalle quali possa ricavarsi la volontà chiara e

12-2002 n. 17070).
Nella specie la Corte d’Appello, confermando sul punto la sentenza del Tribunale di
Orvieto, ha osservato, con motivazione immune da vizi logico giuridici, che non vi era
stato alcun comportamento della lavoratrice che potesse far presumere una sua
acquiescenza alla risoluzione del rapporto e che il solo decorrere del tempo tra la
cessazione di quest’ultimo ed il tentativo di conciliazione non poteva essere in alcun modo
interpretato come volontà di accettazione della risoluzione per mutuo consenso.
Il terzo motivo, con il quale si deduce un vizio motivazionale, pone richiamo alla
normativa di cui al d. Igs. 368/2001 intervenuta successivamente alla stipulazione del
presente contratto a termine, e quindi non applicabile ratione temporis, per sostenere che
la stessa, in quanto attuativa della direttiva europea, legittimi una piena fungibilità del
contratto a tempo indeterminato e di quello a tempo determinato, sebbene l’evoluzione
giurisprudenziale sia nel senso di un rovesciamento rispetto all’obiettivo del riformatore. Il
motivo si conclude con un quesito inidoneo ad integrare il richiesto momento di sintesi,
come tale inammissibile. Ed invero è principio pacifico, affermato dalla giurisprudenza di
questa Corte quello alla cui stregua, ove venga in rilievo il motivo di cui al n. 5 dell’art. 360
cod. proc. civ. (il cui oggetto riguarda il solo “iter” argomentativo della decisione
impugnata), è richiesta una illustrazione che, pur libera da rigidità formali, si deve
concretizzare in una esposizione chiara e sintetica del fatto controverso – in relazione al
quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria – ovvero delle ragioni per le quali
la dedotta insufficienza rende inidonea la motivazione a giustificare la decisione (cfr. Cass.
25.2.2009 n. 4556 e, da ultimo, Cass. 18.11.2011 n. 24255).
Il quarto motivo per un verso si rivela privo di autosufficienza, in quanto, pur
evidenziando l’inidoneità della richiesta del tentativo obbligatorio di conciliazione a
5

certa delle parti di volere porre definitivamente fine ad ogni rapporto di lavoro” (v. Cass. 2-

configurare valido atto di messa in mora, non ne riporta il contenuto, al fine di consentire
alla Corte di valutare la fondatezza del rilievo. Sotto altro versante, nella parte in cui
prospetta violazione di norme in relazione alla ritenuta automatica equivalenza del
risarcimento ai compensi retributivi perduti, nella sostanza si presenta astratto e generico,
oltre che inconferente, atteso che con lo stesso non viene specificamente censurata la
decisione nella parte in cui nega che gravi sul lavoratore l’allegazione e prova dell’aliunde

Infine, osserva il Collegio che, con la memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c. la società
ricorrente invoca, in via subordinata, ma in modo inconferente, l’applicazione dello ius
superveniens, rappresentato dall’art. 32, commi 5 0 , 6° e 7° della legge 4 novembre 2010
n. 183, in vigore dal 24 novembre 2010.
Va premesso, in via di principio, che costituisce condizione necessaria per poter applicare
nel giudizio di legittimità lo ius superveniens che abbia introdotto, con efficacia retroattiva,
una nuova disciplina del rapporto controverso, il fatto che quest’ultima sia in qualche modo
pertinente rispetto alle questioni oggetto di censura nel ricorso, in ragione della natura del
controllo di legittimità, il cui perimetro è limitato dagli specifici motivi di ricorso (cfr. Cass. 8
maggio 2006 n. 10547, Cass. 27.2.2004 n. 4070). Tale condizione non sussiste nella
fattispecie, benché, con sentenza della Corte Costituzionale n. 303/2011 siano state
dichiarate non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 32, commi 5, 6 e 7,
della legge 4 novembre 2010, n. 183, sollevate, con riferimento agli artt. 3, 4, 11, 24, 101,
102, 111 e 117, primo comma, della Costituzione.
Il ricorso va, in conclusione, respinto. Nulla va statuito sulle spese di lite del presente
giudizio, essendo la Felcetti rimasta intimata.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Nulla per spese.
Così deciso in Roma il 21.3.2013

perceptum. La censura è da ritenersi, pertanto, complessivamente inammissibile.

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