Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 10179 del 28/05/2020

Cassazione civile sez. I, 28/05/2020, (ud. 04/11/2019, dep. 28/05/2020), n.10179

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PETITTI Stefano – Presidente –

Dott. MELONI Marina – Consigliere –

Dott. PARISE Clotilde – rel. Consigliere –

Dott. SCALIA Laura – Consigliere –

Dott. ROSSETTI Marco – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 34476/2018 proposto da:

D.M., rappresentato e difeso dall’avvocato Daniela

Gasparin del Foro di Milano, giusta procura speciale allegata al

ricorso;

– ricorrente –

contro

Ministero dell’Interno, in persona del Ministro pro tempore,

elettivamente domiciliato in Roma, Via Dei Portoghesi 12, presso

l’Avvocatura Generale dello Stato, che lo rappresenta e difende ope

legis;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 2528/2018 della CORTE D’APPELLO di MILANO,

depositata il 22/05/2018;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

04/11/2019 dal Cons. Dott. PARISE CLOTILDE.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Con sentenza n. 2528/2018 depositata il 22-05-2018 la Corte d’Appello di Milano ha respinto l’appello proposto da D.M., cittadino del (OMISSIS), avverso l’ordinanza del Tribunale di Milano che aveva rigettato la sua domanda avente ad oggetto in via gradata il riconoscimento dello status di rifugiato, della protezione sussidiaria e di quella umanitaria. Il richiedente riferiva di aver lasciato il proprio Paese solo per motivi economici, non essendo egli in grado di mantenere la propria numerosa famiglia, di essere partito verso la Libia, dove aveva contratto un prestito che non aveva potuto onorare, di aver lasciato la Libia quando era scoppiata la guerra e di non voler rientrare in Bangladesh perchè ormai privo di casa e lavoro, nonchè impossibilitato a restituire i soldi avuti in prestito. La Corte territoriale ha ritenuto che non ricorressero i presupposti per il riconoscimento di alcuna forma di protezione, avuto anche riguardo alla situazione generale del Bangladesh, descritta nella sentenza impugnata, con indicazione delle fonti di conoscenza.

2. Avverso il suddetto provvedimento, il ricorrente propone ricorso per cassazione, affidato a tre motivi, nei confronti del Ministero dell’Interno, che si è costituito tardivamente e al solo fine dell’eventuale partecipazione all’udienza di discussione.

3. Il ricorso è stato fissato per l’adunanza in Camera di consiglio ai sensi dell’art. 375 c.p.c., u.c. e art. 380 bis 1 c.p.c..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo il ricorrente lamenta “Violazione o falsa applicazione di legge in relazione al D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 2, 3, 4,5,6,7, D.Lgs. n. 25 del 2008, artt. 8 e 27, artt. 2 e 3 CEDU, nonchè omesso esame di fatti decisivi e assenza di motivazione, nonchè violazione dei parametri normativi relativi agli atti di persecuzione e minacce subite nel proprio Paese di origine ex art. 360, nn. 3 e 5”. Rileva di aver dedotto di essere stato minacciato dal suo creditore in Libia, si duole del mancato esame della drammatica situazione del Bangladesh causata dalla povertà e adduce che, nel corso dell’audizione davanti al Tribunale, nessun chiarimento gli era stato chiesto, sicchè ne doveva discendere un giudizio di credibilità dei fatti dallo stesso narrati. Richiama fonti internazionali da cui risulta che in Bangladesh è perpetrata grave violazione dei diritti umani, deduce di aver sufficientemente allegato il rischio di persecuzione, nella specie di massima gravità per le minacce di morte e violenze subite, anche in ragione dell’estrema povertà, e per l’impossibilità di fare ricorso alla giustizia, anche per motivi economici.

2. Con il secondo motivo lamenta “Violazione dei parametri normativi relativi alla credibilità delle dichiarazioni del richiedente fissati nel D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, lett. e), in violazione degli obblighi di cooperazione istruttoria incombenti sull’autorità giurisdizionale. Omesso esame di fatti decisivi; Violazione o falsa applicazione dè legge in relazione al D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 2, 3, 14, D.Lgs. n. 25 del 2008, artt. 8 e 27, artt. 2 e 3 CEDU. Violazione dei parametri normativi per la definizione di un danno grave. Violazione di legge in riferimento agli artt. 6 e 13 della Convenzione EDU, all’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea ed art. 46 della direttiva Europea n. 2013/32”. Censura la valutazione di non credibilità che assume effettuata dalla Corte territoriale per mancato rispetto dei criteri legali, afferma che le sue dichiarazioni per il Giudice erano generiche ma non contraddittorie e lamenta il mancato assolvimento del dovere di cooperazione ufficiosa, anche in ordine al rispetto dei diritti umani e all’emergenza climatica, richiamando pronunce di merito con cui era stata riconosciuta la protezione internazionale a cittadini del Bangladesh.

3. Con il terzo motivo lamenta “Violazione o falsa applicazione di legge in relazione al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 e art. 19 comma 2 e art. 10, comma 3, motivazione apparente in relazione alla domanda di protezione umanitaria e alla valutazione di assenza di specifica vulnerabilità; omesso esame di fatti decisivi circa della sussistenza dei requisiti di quest’ultima. Violazione ex art. 360 c.p.c., n. 3, D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 3, 4, 7, 14, 16, 17; D.Lgs. n. 25 del 2008, artt. 8,10,32; D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6; art. 10 Cost.. Omesso esame circa un fatto decisivo ex art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, in relazione ai presupposti della protezione umanitaria; mancanza o quantomeno l’apparenza della motivazione e della nullità della sentenza per violazione di varie disposizioni – artt. 112, 132 c.p.c. e art. 156 c.p.c., comma 2, art. 111 Cost., comma 6”. Deduce il ricorrente di aver dichiarato nell’audizione avanti il Tribunale e, tramite il difensore, nel giudizio di appello, di svolgere un lavoro, quale addetto alla vendita presso una bancarella di fiori, non regolarizzato. Rimarca che in Italia ha un lavoro e una vita normale che nel suo Paese non potrebbe avere, in quanto la grave situazione economica a cui si troverebbe esposto in caso di rimpatrio è indice di serio pericolo per la sua stessa sopravvivenza. Censura pertanto la valutazione della Corte territoriale circa la propria vulnerabilità, lamenta la mancata acquisizione di informazioni circa le persecuzioni lamentate e richiama la sentenza di questa Corte n. 4455/2018 circa la comparazione tra il Paese di origine e il nostro quanto al rispetto dei diritti umani.

4. I primi due motivi, da esaminarsi congiuntamente per la loro connessione, sono inammissibili.

4.1. Non colgono la ratio decidendi le censure relative al giudizio di credibilità, considerato che il ricorrente è stato ritenuto migrante economico, come, peraltro, risulta anche dalle allegazioni svolte in ricorso, mentre le doglianze sulla situazione del Paese di origine sono dirette a prospettare una ricostruzione fattuale difforme da quella accertata nel giudizio di merito.

L’accertamento della situazione di “violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale”, che sia causa per il richiedente di una sua personale e diretta esposizione al rischio di un danno grave, quale individuato dalla medesima disposizione, implica un apprezzamento di fatto rimesso al giudice del merito, non censurabile in sede di legittimità al di fuori dei limiti di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (Cass. n. 32064/2018 e Cass. n. 30105/2018).

L’esame della situazione del Paese di origine è stata effettuata, con l’indicazione delle fonti di conoscenza, dalla Corte territoriale, che, pur dando atto della persistenza di scontri violenti, della diffusa criminalità e di atti terroristici, ha affermato che le condizioni di povertà della popolazione sono migliorate ed ha escluso la situazione di violenza indiscriminata in atto. Anche la rilevanza, nel caso concreto, della situazione della Libia è stata esclusa, motivatamente, dalla Corte d’appello, sul rilievo che le lamentate persecuzioni e minacce del creditore erano state, in ogni caso, per l’appunto perpetrate in Libia ed erano, quindi, irrilevanti ad integrare rischio o pericolo in caso di rimpatrio nel Bangladesh.

5. Anche il terzo motivo è inammissibile.

5.1. La giurisprudenza di questa Corte (Cass. n. 3681/2019) ha chiarito che “La protezione umanitaria, nel regime vigente “ratione temporis”, tutela situazioni di vulnerabilità – anche con riferimento a motivi di salute – da riferirsi ai presupposti di legge ed in conformità ad idonee allegazioni da parte del richiedente. Ne deriva che non è ipotizzabile nè un obbligo dello Stato italiano di garantire allo straniero “parametri di benessere”, nè quello di impedire, in caso di ritorno in patria, il sorgere di situazioni di ” estrema difficoltà economica e sociale”, in assenza di qualsivoglia effettiva condizione di vulnerabilità che prescinda dal risvolto prettamente economico”.

5.2. Nel caso di specie il ricorrente si limita genericamente a richiamare la normativa di riferimento e pronunce di merito, nonchè ad allegare la propria grave situazione economica, pur dando atto, nel contempo, che non vi sia riscontro alcuno, come affermato dalla Corte d’appello, circa lo svolgimento, nel territorio italiano, da parte sua di attività lavorativa, che lo stesso ricorrente assume mai regolarizzata. Pertanto è anche non pertinente rispetto al decisum il richiamo della rilevanza della sua integrazione sociale e lavorativa in Italia, ritenuta, si ribadisce, non dimostrata dai Giudici di merito, e in ogni caso si tratta di un fattore che diventa recessivo, in assenza, come nella specie, di vulnerabilità soggettiva e oggettiva, proprio in base alla giurisprudenza di questa Corte citata in ricorso (Cass. n. 4455/2018).

6. In conclusione, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile, nulla dovendosi disporre sulle spese del presente giudizio, stante la tardiva costituzione del Ministero.

7. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, deve darsi atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso per cassazione, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, ove dovuto (Cass. n. 23535/2019).

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso per cassazione, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, ove dovuto.

Così deciso in Roma, il 4 novembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 28 maggio 2020

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