Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 10167 del 28/05/2020

Cassazione civile sez. trib., 28/05/2020, (ud. 28/01/2020, dep. 28/05/2020), n.10167

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CIRILLO Ettore – Presidente –

Dott. NAPOLITANO Lucio – Consigliere –

Dott. GUIDA Riccardo – rel. Consigliere –

Dott. FEDERICI Francesco – Consigliere –

Dott. D’ORAZIO Luigi – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 17960/2016 R.G. proposto da:

M.G., rappresentato e difeso da sè medesimo,

elettivamente domiciliato presso il proprio studio in Roma, via

Frattina n. 41;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del direttore pro tempore,

rappresentata dall’Avvocatura Generale dello Stato, con domicilio

legale in Roma, via dei Portoghesi, n. 12, presso l’Avvocatura

Generale dello Stato;

– resistente con atto di costituzione –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della

Lombardia, sezione n. 1, n. 22/1/16, pronunciata il 19/10/2015,

depositata l’08/01/2016;

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 28 gennaio

2020 dal Consigliere Guida Riccardo.

Fatto

RILEVATO

che:

l’avv. M.G. ricorre, sulla base di due motivi, contro l’Agenzia delle entrate, che resiste con atto di costituzione e ha depositato una memoria, per la cassazione della sentenza della Commissione tributaria regionale della Lombardia, menzionata in epigrafe, che – in controversia concernente l’impugnazione di un avviso di accertamento che recuperava a tassazione IRPEF, IRAP, IVA, per il periodo d’imposta 2007, il maggiore reddito non dichiarato derivante dall’esercizio della libera professione, ricostruito tramite indagini bancarie, D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 ex art. 32 – ha respinto l’appello principale del contribuente e l’appello incidentale dell’Agenzia (in punto di compensazione delle spese processuali e di mancata condanna del ricorrente al risarcimento dei danni per lite temeraria), avverso la sentenza di primo grado che aveva rigettato il ricorso introduttivo;

la Commissione regionale, per quanto ancora rileva, ha stabilito che: (a) trattandosi dell’accertamento, tramite indagini bancarie, di un reddito di lavoro autonomo, l’Amministrazione finanziaria, in autotutela, aveva parzialmente annullato l’atto impositivo, in relazione alle riprese correlate ai prelevamenti dal conto corrente verificato, uniformandosi ai dettami della sentenza della Corte costituzionale n. 228/2014; (b) il contribuente non aveva mosso alcuna censura alla sentenza di primo grado, riguardo ai versamenti in conto corrente, limitandosi a ripetere le difese già proposte al giudice di prossimità; (c) le giustificazioni addotte dal medesimo appellante sui versamenti in conto corrente non integravano quella prova contraria idonea a superare la presunzione legale d’imponibilità dei versamenti sospetti, anche su conti cointestati, nei riguardi di tutti i contribuenti, a prescindere dall’attività che essi svolgono.

Diritto

CONSIDERATO

che:

con il primo motivo del ricorso (I) Omessa pronuncia in riferimento alle censure riguardanti gli accertamenti bancari su soggetti terzi – violazione art. 112 c.p.c. in riferimento al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, comma 1, nn. 2 e 7 – art. 360 c.p.c., n. 4), il ricorrente premette che, fin dal ricorso introduttivo del giudizio, aveva allegato che gran parte dei movimenti di conto corrente che l’Amministrazione finanziaria aveva ritenuto non giustificati si riferiva ad un conto corrente (c/c n. (OMISSIS)) intestato alla fondazione P.P., ente “non profit”, estraneo alla sfera familiare e professionale del contribuente, il quale aveva operato su detto conto solo in qualità di presidente del medesimo ente; censura la sentenza impugnata per essersi limitata a ripetere le motivazioni poste a fondamento della decisione di primo grado, senza tenere conto della dedotta posizione di “soggetto terzo” della fondazione, sulla quale poggiava la difesa dell’interessato;

con il secondo motivo (II) Violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, in riferimento allo stesso D.P.R., art. 37, comma 3. Violazione delle norme e dei principi in materia di presunzioni – art. 360 c.p.c., n. 3), il ricorrente censura la sentenza impugnata per avere fatto riferimento all’art. 32, cit., senza tuttavia applicarlo correttamente, in relazione al (successivo) art. 37, posto che, in presenza di un conto intestato ad un soggetto terzo, sarebbe stato onere dell’Amministrazione finanziaria fornire adeguata motivazione dell’accertamento tributario, offrendo presunzioni gravi, precise e concordanti che, nel caso di specie, non erano state addotte;

i due motivi, da esaminare congiuntamente per connessione, sono infondati;

le doglianze in essi contenute, infatti, presuppongono un identico elemento oggettivo, ossia che uno dei quattro conti correnti oggetto dell’indagine bancaria (cfr. pag. 2 della sentenza impugnata) non fosse intestato al contribuente, bensì a una fondazione e che il contribuente avesse operato su di esso in qualità di presidente dell’ente non profit;

facendo leva su questo dato di fatto, il ricorrente lamenta, da un lato, l’error in procedendo in cui sarebbe incorsa la Commissione regionale, per non avere affrontato il tema della titolarità, in capo a soggetti terzi, del conto (primo motivo), e, da altro lato, la mancata applicazione del meccanismo presuntivo del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37, comma 3, in tema di movimentazioni su conti correnti posseduti dal contribuente per interposta persona (secondo motivo);

questa prospettazione dei fatti, però, collide con quanto stabilito dalla Commissione regionale, la quale, laddove afferma che l’AF è legittimata a effettuare accertamenti fiscali per versamenti sospetti, anche su “conti cointestati” (cfr. pag. 3 della sentenza impugnata), in sostanza, esclude che l’accertamento tributario abbia riguardato conti correnti posseduti tramite soggetti interposti, ossia conti correnti intestati a terzi, ma nell’effettiva disponibilità del ricorrente, per i quali valgono le presunzioni dell’art. 37, comma 3, cit.;

ciò è sufficiente al fine di disattendere entrambe le censure, dovendosi qui solo ricordare che, comunque, i dedotti vizi d’omessa pronuncia e di violazione di norme di diritto sarebbero inammissibili nel caso in cui, loro tramite, il contribuente mirasse a sollecitare questa Corte a compiere un nuovo apprezzamento delle circostanze di fatto, già insindacabilmente censite nel giudizio di merito;

ne consegue il rigetto del ricorso;

le spese del giudizio di legittimità, liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza.

PQM

la Corte rigetta il ricorso, condanna il ricorrente a corrispondere all’Agenzia delle entrate le spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 3.000,00, a titolo di compenso, oltre alle spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del citato art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 28 gennaio 2020.

Depositato in Cancelleria il 28 maggio 2020

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