Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 10167 del 09/05/2011

Cassazione civile sez. II, 09/05/2011, (ud. 24/03/2011, dep. 09/05/2011), n.10167

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ODDO Massimo – Presidente –

Dott. GOLDONI Umberto – Consigliere –

Dott. BURSESE Gaetano Antonio – Consigliere –

Dott. BIANCHINI Bruno – rel. Consigliere –

Dott. D’ASCOLA Pasquale – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso (iscritto al n.r.g. 25137/05) proposto da:

T.A.M., T.A., parti entrambe rappresentate e

difese dall’avv. CANOPOLI Gavino del Foro di Tempio Pausania ed

elettivamente domiciliate presso lo studio dell’avv. D’ERCOLE

Annarita in Roma, Via Nicolo Zagaglia n. 11, giusta procura in calce

al ricorso per cassazione;

– ricorrenti –

contro

C.A., rappresentato e difeso dall’avv. KERSEVAN Aldo

del Foro di Tempio Pausania, in unione con il prof. avv. Oberdan

Tommaso Scozzafava ed elettivamente domiciliato presso lo studio del

secondo in Roma, Via G. Antonelli n. 15, giusta procura in calce al

controricorso;

– controricorrente –

nonchè nei confronti di:

T.G.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 612/2004 della Corte di Appello di Cagliari –

sezione distaccata di Sassari – depositata il 26/11/2004;

Udita la relazione della causa svolta nell’udienza pubblica del

24/03/2011 dal Consigliere Dott. Bruno Bianchirli;

Udito l’avv. Tito Festa, per le parti ricorrenti, che ha insistito

per l’accoglimento del ricorso;

Udito l’avv. Patrizia Marino, per la parte controricorrente, che ha

insistito per il rigetto del ricorso;

Udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore

Generale Dott. RUSSO Libertino Antonio, che ha concluso per

l’accoglimento del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Tu.Gi., proprietaria di un’abitazione in (OMISSIS), citò innanzi al Tribunale di Tempio Pausania il confinante C.A., per sentirlo condannare a ripristinare lo stato dei luoghi, modificato da una costruzione – posta a distanza non regolamentare dai confini – ricavata sfruttando i muri di contenimento del terreno adibito a giardino e scavando la massa rocciosa sottostante il piano di campagna originario nonchè pavimentando la copertura del manufatto così ricavato, si da costituire una terrazza dalla quale avrebbe esercitato un non consentito potere di veduta sulla proprietà di essa attrice. Il convenuto, costituendosi, negò che al manufatto potessero applicarsi le norme sulle distanze tra costruzioni, essendo completamente interrato e affermando che, trattandosi di muro di cinta di altezza inferiore a tre metri, non sarebbe neppure stato interessato dal divieto di cui all’art. 878 cod. civ..

Il Tribunale adito, pronunziando sentenza n. 285/2003, dichiarò l’illegittimità della servitù di veduta e condannò il C. ad eliminarla “mediante la realizzazione delle opere necessarie a tale fine”, specificando che non sarebbe stata necessaria la demolizione del locale interrato, essendo all’uopo sufficiente l’apprestamento di opere idonee ad impedire la inspectio e la prosperitio sul fondo Tu.. La Corte di Appello di Cagliari, sezione distaccata di Sassari, pronunziando sentenza n. 612/2004, in accoglimento del gravame del C., riformò la pronunzia del giudice di primo grado, respingendo la domanda della Tu. – e, a seguito della costituzione in giudizio di appello, dei suoi eredi A.M., G. ed T.A. – ritenendo che la conformazione del parapetto, posto a protezione della superficie pavimentata, non permettesse un comodo e sicuro affaccio nel fondo del vicino, pur considerando l’esistenza di fioriere poste sulla sommità della balaustra.

Contro tale decisione hanno proposto ricorso per cassazione A. M. ed T.A., sulla base di tre motivi, illustrati da memoria; si è costituito il C., resistendo con controricorso; T.G. non ha svolto difese.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1 – Con il primo motivo i ricorrenti denunziano la “violazione o falsa applicazione delle norme di diritto di cui agli artt. 112, 342 e 345 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., punto 3, 4 e 5”, sostenendo che la Corte distrettuale avrebbe travalicato i limiti della domanda introducendo un tema di indagine – quello relativo all’incidenza dell’esistenza di un parapetto al fine di esercitare agevolmente la contestata servitù di veduta – non sollevato dall’allora convenuto, il quale aveva invece incentrato le proprie difese esclusivamente sulla non applicabilità al muro di cinta della normativa codicistica sulle distanze – art. 873 c.c., richiamato dall’art. 878 cod. civ.; sotto diverso profilo poi i ricorrenti lamentano la contraddizione in cui sarebbe incorsa la Corte territoriale là dove, accogliendo la prospettazione da ultimo riportata, aveva però ritenuto, su altre basi, fondato l’appello;

infine assumono i deducenti che il giudice del gravame, accogliendo l’argomentazione difensiva del C. – che neppure rivestiva la specificità del motivo di appello – in merito alla inesistenza del parapetto, avrebbe consentito – in contrasto con l’art. 345 c.p.c. – che venisse introdotto un nuovo tema di indagine.

2 – Con il secondo motivo viene dedotta la “violazione e falsa applicazione della norma di ad all’art. 905 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., punto 3 e 5 ed agli artt. 2727 e 2729 c.c.” per avere, la Corte distrettuale, con ragionamento apodittico, tratto dalle risultanze di causa il convincimento che il parapetto e le fioriere che vi erano poste sopra comunque non avrebbero reso agevole l’affaccio. Assumono infine i ricorrenti che, così operando, il Giudice del gravame avrebbe altresì non correttamente applicato le norme codicistiche in materia di presunzioni – relative all’affaccio non agevole, il cui utilizzo non sarebbe stato necessario (eppertanto processualmente non corretto) in presenza di altri elementi valutativi da trarre dagli atti di causa.

3. – Con il terzo mezzo è denunziata la “violazione e falsa applicazione della norma di cui all’art. 91 c.c. in ordine alla condanna alle spese del giudizio, in relazione all’art. 360 c.p.c., punto 3” lamentando i ricorrenti di esser stati condannati al pagamento delle spese di entrambi i gradi del giudizio, nonostante fosse stato ritenuto fondato il primo motivo di appello relativo alla contestata violazione delle distanze dell’intero manufatto dal confine.

1/a – Il primo motivo è infondato in quanto innanzi tutto non vi era stata una immutazione del petitum sostanziale atteso che, per come emerge dalla lettura della sentenza, sin dall’inizio la Tu.

aveva lamentato che attraverso la praticabilità della terrazza ricavata dalla sommità del locale interrato, veniva esercitata una non legittima servitù di veduta: di conseguenza apparteneva già al processo come presupposto per l’accoglimento della domanda di riduzione in pristino anche la verifica delle caratteristiche della veduta; il richiamo degli eredi della Tu. alla esistenza di un parapetto idoneo a permettere l’affaccio, contenuto nell’appello, non introduceva dunque alcun nuovo motivo di gravame.

2/a – E’ invece fondata la seconda censura.

Ritiene innanzitutto questa Corte condivisibile il presupposto generale dal quale è partito il giudice dell’appello, secondo cui in tema di distanze per l’apertura di vedute dirette e balconi, ai sensi dell’art. 905 cod. civ., la semplice esistenza di un terreno sopraelevato – come quello di proprietà dei T. – posto a confine, senza che vi sia un parapetto che consenta l’affaccio sul fondo del vicino, esclude l’applicazione della norma sulle distanze appena richiamata e, quindi, la ricorrenza dell’affaccio, che può essere esercitata solo con la costruzione di tale protezione (cfr.

Cass. 23572/2007) in quanto è la posizione sopraelevata dello sporto, del balcone e del lastrico solare a render necessario il parapetto (Cass. 6576/2005; Cass. 7267/2003).

2/b – Ciò posto e peraltro evidente che nel delibare la idoneità del parapetto – ripetesi: pur sempre necessario al fine dell’applicazione della normativa in materia di distanze per l’apertura di vedute dirette e dei balconi – a permettere di guardare nell’altrui fondo obliquamente e lateralmente, ritorna ad essere importante la posizione reciproca delle due proprietà, tale che, se quella dalla quale si esercita la veduta è sopraelevata rispetto a quella che ne è assoggettata, la prosperitio ed a maggior ragione la inspertio ne possono risultare agevolate anche senza l’apporto determinante di un parapetto ad altezza “normale”, potendo non essere necessario che la parte si appoggi al manufatto di protezione al fine di esercitare la visione circolare all’intorno: altro è – ma anche sul punto la valutazione della Corte di merito è mancata – il sostenere e dimostrare che il parapetto abbia, per la sua conformazione ed altezza, la mera funzione di delimitare la platea sulla quale l’osservatore potrebbe esercitare la veduta (sul punto:

cfr. Cass. 9446/1994).

2/c – Ciò posto la Corte, sassarese ha giudicato che, pur in presenza di un parapetto di altezza media pari a 50 centimetri – in corso di causa sormontato da pesanti fioriere in cemento – l’affaccio non fosse agevole e non ha con ciò esaminato, da un lato le considerazioni di diritto sopra esposte, dall’altro le opposte conclusioni alle quali era pervenuto il consulente tecnico.

2/d – La sentenza va allora cassata in accoglimento del motivo in esame, rimanendo assorbito il terzo, e l’esame di merito va rimesso alla Corte di Appello di Cagliari che provvedere anche sulle spese del presente giudizio di legittimità.

P.Q.M.

LA CORTE Respinge il primo motivo; accoglie il secondo e cassa la sentenza in relazione ad esso, restando assorbito il terzo mezzo; rinvia per nuovo esame alla Corte di Appello di Cagliari che provvederà anche sulle spese del presente giudizio.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile della Corte di Cassazione, il 24 marzo 2011.

Depositato in Cancelleria il 9 maggio 2011

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