Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 10165 del 28/04/2010

Cassazione civile sez. lav., 28/04/2010, (ud. 21/01/2010, dep. 28/04/2010), n.10165

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCIARELLI Guglielmo – Presidente –

Dott. LAMORGESE Antonio – rel. Consigliere –

Dott. D’AGOSTINO Giancarlo – Consigliere –

Dott. DI CERBO Vincenzo – Consigliere –

Dott. NOBILE Vittorio – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 8646-2006 proposto da:

POSTE ITALIANE S.P.A., in persona del legale rappresentante pro

tempore elettivamente domiciliata in ROMA, VIA PO 25/B, presso lo

studio dell’avvocato PESSI ROBERTO, che la rappresentata e difende,

giusta delega a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

S.S., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA FLAMINIA

195, presso lo studio dell’avvocato VACIRCA SERGIO, che la

rappresenta e difende unitamente all’avvocato LALLI CLAUDIO, giusta

delega a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 366/2005 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE,

depositata il 18/03/2005 R.G.N. 1932/04;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

21/01/2010 dal Consigliere Dott. ANTONIO LAMORGESE;

udito l’Avvocato GIOVANNI G. GENTILE per delega PESSI ROBERTO ;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

MATERA Marcello che ha concluso per inammissibilità del ricorso.

 

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza depositata il 18 marzo 2005 la Corte di appello di Firenze, in parziale riforma della decisione di primo grado, che aveva dichiarato la nullità della clausola di apposizione del termine del contratto di lavoro stipulato fra la società Poste Italiane e S.S. e la conversione del rapporto in quello di lavoro a tempo indeterminato a decorrere dal 1 giugno 2000, ha accolto anche la domanda della lavoratrice di condanna della società al pagamento delle retribuzioni nel frattempo maturate, liquidandole dalla data della domanda giudiziale.

La Corte territoriale ha, invece, rigettato l’appello incidentale della società, che si era doluta dell’accertamento circa la trasformazione del rapporto di lavoro a tempo indeterminato.

Il giudice del gravame ha osservato come il contratto era intervenuto quando era in vigore il nuovo ccnl dei dipendenti postali, stipulato il 11 gennaio 2001, il quale prevede all’art. 25 nuove ipotesi, aggiuntive rispetto a quelle legali, di contratti lavoro a tempo determinato: mentre le ipotesi derogatorie indicate al primo comma della citata disposizione contrattuale sono specificamente indicate, quelle richiamate nel secondo comma ricalcano, in sostanza, le previsioni dell’art. 8 del precedente ccnl, come integrato dall’accordo del 25 settembre 1997.

Nella specie, ha proseguito il medesimo giudice, il contratto di assunzione della lavoratrice si era limitato a riprodurre la formula del ccnl, senza indicare le specifiche esigenze che nell’ambito territoriale avevano reso necessario il ricorso a quelle assunzioni a termine.

La cassazione di questa sentenza è ora domandata dalla società, con ricorso basato su due motivi.

La lavoratrice ha resistito con controricorso.

Entrambe le parti hanno depositato memorie.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Il primo motivo denuncia, unitamente a vizio di motivazione, violazione e falsa applicazione della L. 26 febbraio 1987, n. 56, art. 23 nonchè dell’art. 1362 e ss. cod. civ.. Critica la sentenza impugnata perchè pur avendo ritenuto sussistenti le esigenze derivanti dalla ristrutturazione della società, correttamente ed esaurientemente individuate dalla clausola collettiva, ha poi affermato, con un ragionamento contraddittorio, la necessità di concretizzare la clausola collettiva in un’altra causale, diversa per ogni singolo contratto di lavoro, che rechi l’indicazione della particolare situazione dell’ufficio di destinazione del lavoratore assunto a termine e delle mansioni in concreto assegnate. Tale assunto contrasta oltre che con la realtà dei fatti, con la L. n. 56 del 1987, art. 23 e con i principi, espressamente richiamati, elaborati la giurisprudenza in ordine all’onere probatorio in materia dei contratti a termine del settore. Il denunciato art. 23, come sottolineato dalla giurisprudenza, opera un’ampia delega alla contrattazione, la quale è libera e sovrana nell’individuazione delle fattispecie in relazione alle quali è possibile l’apposizione di un termine al contratto di lavoro, con l’unico limite della determinazione della percentuale dei lavoratori da assumere a tempo determinato, rispetto a quelli già impiegati a tempo indeterminato, ed il giudice del merito non può, come invece ha fatto la sentenza impugnata, interpretare la normativa contrattuale introducendo ulteriori elementi, non espressamente previsti dalle parti contrattuali.

Erroneamente, poi, ad avviso della ricorrente, la Corte territoriale ha richiamato, quale ulteriore ragione per rigettare l’appello della società, l’omessa dimostrazione dell’esperimento della procedura di confronto sindacale prevista dall’art. 25 del ccnl 2001, malgrado l’inesistenza di qualsiasi rilievo in proposito da parte della resistente.

Si assume ancora l’errata valenza attribuita dal medesimo giudice all’accordo del 18 gennaio 2001, teso non solo a definire il contenzioso in ordine alla legittimità dei contratti a termine stipulati dalla società e sorto anteriormente al ccnl del 11 gennaio 2001, ma a fronteggiare per il futuro i processi di riorganizzazione e di ristrutturazione aziendali già considerati dall’art. 8 del ccnl 25 novembre 1994, come modificato dall’accordo del 25 settembre 1997.

Il secondo motivo denuncia violazione ed erronea applicazione degli artt. 1206 e 1217 cod. civ., nonchè vizio di motivazione. Censura la Corte di merito per avere ritenuto la costituzione in mora della società con la notifica del ricorso introduttivo del giudizio di primo grado, non potendosi desumere da tale atto, se non implicitamente, la volontà di prosecuzione del rapporto di lavoro e la messa a disposizione da parte del lavoratore delle prestazioni lavorative, peraltro in modo generico e perciò inidoneo a realizzare la mora accipiendi.

Il primo motivo è fondato.

Anzitutto, rileva la Corte, è assolutamente incontroverso in atti che il contratto in questione fu concluso fra le parti allorchè era già in vigore il ccnl del 2001 dei dipendenti di Poste Italiane, stipulato il 11 gennaio 2001. Ciò va evidenziato, in quanto l’affermata esistenza di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato con decorrenza dal 1 giugno 2000, secondo la statuizione del primo giudice riportata nell’esposizione in fatto della sentenza impugnata, lascerebbe necessariamente presupporre una conclusione del contratto anteriore a tale ultima data, con la conseguente applicazione della precedente disciplina contrattuale, che indurrebbe a conclusioni diverse. L’indicazione del 1 giugno 2000 è peraltro superata da quella successiva di risoluzione del rapporto, specificata più avanti in sentenza dalla Corte nel 30 settembre 2001, che vale a confermare, trattandosi, come è noto, di contratti trimestrali, l’inizio del rapporto al 1 giugno 2001, quindi rientrante nella disciplina dettata dal citato ccnl 2001, art. 2, secondo le deduzioni svolte dalla stessa lavoratrice nel controricorso.

E posto che il contratto fu stipulato, ai sensi della disposizione contrattuale ora richiamata, in data anteriore al D.Lgs. 6 settembre 2001, n. 368 (pubblicato sulla G.U. del 9 ottobre 2001 ed entrato in vigore il 16 ottobre 2001), nella fattispecie trova innanzitutto applicazione l’art. 11, comma 3 del medesimo Decreto, in virtù del quale “I contratti individuali definiti in attuazione detta normativa previgente, continuano a dispiegare i loro effetti fino alla scadenza”.

Nel regime, quindi, anteriore al citato D.Lgs., in base all’indirizzo ormai consolidato affermato da questa Corte con riferimento ai contratti a termine conclusi ai sensi dell’art. 25 del ccnl del 2001, le censure della ricorrente risultano fondate.

In particolare questa Corte Suprema (v. fra le altre Cass. 26 settembre 2007 n. 20162, Cass. 1 ottobre 2007 n. 20608) decidendo in casi analoghi, ha cassato la sentenza del giudice di merito che aveva dichiarato illegittimo il termine apposto ad un contratto stipulato in base alla previsione della norma contrattuale sopra citata, osservando, in linea generale, che la L. 28 febbraio 1987, n. 56, art. 23 nel demandare alla contrattazione collettiva la possibilità di individuare – oltre le fattispecie tassativamente previste dalla L. 18 aprile 1962, n. 230, art. 1 e successive modifiche nonchè dal D.L. 29 gennaio 1983, n. 17, art. 8 bis convertito con modificazioni dalla L. 15 marzo 1983, n. 79 – nuove ipotesi di apposizione di un termine alla durata del rapporto di lavoro, configura una vera e propria delega in bianco a favore dei sindacati, i quali, pertanto, non sono vincolati all’individuazione di figure di contratto a termine comunque omologhe a quelle previste per legge (principio ribadito dalle Sezioni Unite di questa Suprema Corte con sentenza 2 marzo 2006 n. 4588), e che in forza della sopra citata delega in bianco le parti sindacali hanno individuato, quale ipotesi legittimante la stipulazione di contratti a termine, quella di cui al citato art. 25, comma 2, del ccnl 11 gennaio 2001.

In specie, quale conseguenza della suddetta delega in bianco conferita dal citato art. 23, questa Corte ha precisato che i sindacati, senza essere vincolati alla individuazione di figure di contratto a termine comunque omologhe a quelle previste per legge, possono legittimare il ricorso al contratto di lavoro a termine per causali di carattere oggettivo ed anche alla stregua di esigenze riscontrabili a livello nazionale o locale – per ragioni di tipo meramente “soggettivo”, costituendo l’esame congiunto delle parti sociali sulle necessità del mercato idonea garanzia per i lavoratori e per un’efficace salvaguardia dei loro diritti.

Premesso, poi, che l’art. 25, secondo comma, del ccnl 11 gennaio 2001 prevede, come si è visto, quale ipotesi legittimante la stipulazione di contratti a termine, la presenza di esigenze di carattere straordinario conseguenti a processi di riorganizzazione, ivi ricomprendendo un più funzionale riposizionamento di risorse sul territorio, anche derivanti da innovazioni tecnologiche ovvero conseguenti all’introduzione e/o sperimentazione di nuove tecnologie, prodotti o servizi, questa Corte ha ritenuto viziata l’interpretazione dei giudici del merito che, sull’assunto della assoluta genericità della disposizione in esame, avevano affermato che la stessa non contiene alcuna autorizzazione ad avvalersi liberamente del tipo contrattuale del lavoro a termine, senza l’individuazione di ipotesi specifiche di collegamento tra i singoli contratti e le esigenze aziendali cui gli stessi sono strumentali.

Tale orientamento va confermato in questa sede, e si deve perciò escludere la necessità, invece ritenuta dalla Corte territoriale, nel contratto individuale di lavoro a termine di specificazioni ulteriori rispetto a quelle menzionate nella norma collettiva (v. fra le altre Cass. 14 marzo 2008 n. 6988, 28 gennaio 2009 n. 4175), interpretazione questa che, come evidenziato in numerose altre pronunce concernenti ricorsi avverso decisioni rese dai giudici di merito in analoghe controversie, si muove pur sempre nella prospettiva che il legislatore non avrebbe conferito una delega in bianco ai soggetti collettivi, imponendo al potere di autonomia i limiti ricavabili dal sistema di cui alla L. n. 230 del 1962.

Detta “interpretazione dell’accordo è stata, perciò, condizionata dal pregiudizio che le parti stipulanti non avrebbero potuto esprimersi considerando le specificità di un settore produttivo (quale deve considerarsi il servizio postale, nella situazione attuale di affidamento ad un unico soggetto) e autorizzando Poste Italiane s.p.a. a ricorrere (nei limiti della percentuale fissata) allo strumento del contratto a termine, senza altre limitazioni, con giustificazione presunta del lavoro temporaneo; questo pregiudizio, erroneo alla stregua del principio di diritto sopra enunciato, determina l’erroneità dell’interpretazione secondo cui l’accordo sindacale avrebbe autorizzato la stipulazione dei contratti di lavoro a termine solo nella sussistenza concreta (da specificare nel singolo contratto a termine) di un collegamento tra l’assunzione del singolo lavoratore e le esigenze di carattere straordinario richiamate per giustificare l’autorizzazione, con riferimento alla specificità di uffici e di mansioni; al riguardo, elementi utili per l’interpretazione si sarebbero potuto ricavare dal successivo (di pochi giorni) accordo 18 gennaio 2001 col quale le OO.SS. …

convengono ancora che i citati processi, tuttora in corso, saranno fronteggiati in futuro anche con il ricorso a contratti a tempo determinato, stipulati nel rispetto della nuova disciplina pattizia delineata dal ccnl 11 gennaio 2001 per ricostruire in modo coerente l’intenzione delle parti quanto alla portata dell’autorizzazione stessa” (v. la sentenza già citata 4175/09).

In definitiva, va esclusa l’illegittimità della clausola di apposizione del termine al contratto de quo.

L’accoglimento del primo motivo determina l’assorbimento del secondo.

Il ricorso va dunque accolto e la sentenza impugnata deve essere cassata. Considerato che le ragioni, per le quali la apposizione del termine al contratto in esame è stata ritenuta illegittima, sono basate su una violazione di legge che ha altresì comportato una interpretazione errata della norma collettiva de qua, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa va decisa nel merito con il rigetto della domanda della lavoratrice.

Tenuto conto della complessità delle questioni trattate, e che solo piuttosto di recente la giurisprudenza di legittimità si è consolidata nei termini di cui innanzi, le spese del giudizio di cassazione e delle precedenti fasi merito vanno interamente compensate fra le parti.

P.Q.M.

la Corte accoglie il ricorso; cassa la sentenza impugnata e decidendo nel merito, rigetta la domanda della lavoratrice; compensa integralmente fra le parti le spese dell’intero processo.

Così deciso in Roma, il 21 gennaio e il 14 aprile 2010.

Depositato in Cancelleria il 28 aprile 2010

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