Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 10155 del 09/05/2011

Cassazione civile sez. II, 09/05/2011, (ud. 01/03/2011, dep. 09/05/2011), n.10155

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ODDO Massimo – Presidente –

Dott. GOLDONI Umberto – Consigliere –

Dott. MIGLIUCCI Emilio – Consigliere –

Dott. BIANCHINI Bruno – Consigliere –

Dott. FALASCHI Milena – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

O.A., rappresentato e difeso, in forza di procura speciale

a margine del ricorso, dall’Avv.to Patrone Alberto del foro di Udine

e dall’Avv.to Giovanni Meineri del foro di Roma, ed elettivamente

domiciliato presso lo studio del secondo in Roma, via Salaria, n.

162;

– ricorrente –

contro

E.R., rappresentata e difesa dall’Avv.to De Marco Franco

del foro di Udine e dall’Avvio Mario Giuseppe Ridola del foro di

Roma, in virtù di procura speciale apposta a margine del

controricorso, ed elettivamente domiciliata presso lo studio di

quest’ultimo in Roma, via del Babuino, n. 51;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Corte d’appello di Trieste n. 521/05

depositata il 14 luglio 2005.

Udita la relazione della causa svolta nell’udienza pubblica de 1

marzo 2011 dal Consigliere relatore Dott.ssa Milena Falaschi;

udito l’Avv.to Mario Giuseppe Ridola per parte resistente;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore

Generale Dott. SCARDACCIONE Vittorio Eduardo, che ha concluso per il

rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con atto di citazione notificato il 3 maggio 1991 O.A. evocava in giudizio, dinanzi al Tribunale di Udine, E.R. esponendo che fra le parti era stato concluso, il 9.4.1991, contratto preliminare di compravendita in forza del quale la convenuta si era obbligata a vendere all’attore un fabbricato ubicato in (OMISSIS), per il prezzo di L. 650.000.000, di cui L..

100.000.000 erano state corrisposte a titolo di caparra e principio di pagamento al momento della sottoscrizione del preliminare;

aggiungeva che avendo tratto la convinzione che la promittente venditrice era intenzionata ad alienare a terzi il bene ad un prezzo superiore rispetto a quello pattuito, chiedeva accertarsi la validità del preliminare di compravendita e l’obbligo della venditrice a stipulare la vendita del bene.

Instauratosi il contraddittorio, la convenuta, nel costituirsi, ribadiva la piena disponibilità a concludere il contratto, per cui, attesa la evidente pretestuosità della domanda, chiedeva la condanna dell’attore alla rifusione delle spese di lite.

A detto giudizio veniva riunita altra causa, introdotta successivamente, con la quale la E. chiedeva la risoluzione del contratto ed il risarcimento dei danni, stante l’inadempienza della controparte alla stipula del definitivo, domanda dalla quale l’ O. si difendeva affermando di non avere stipulato il rogito giacchè la E. non aveva documentato la proprietà di un vano ripostiglio sovrastante la macelleria, inserita nel complesso immobiliare, di proprietà di terzi.

All’esito dell’istruzione della causa, il Tribunale adito rigettava tutte le domande evidenziando la nullità del preliminare per mancata indicazione della concessione edilizia.

In virtù di rituale appello interposto dalla E. con il quale lamentava che il giudice di prime cure avesse esteso – contrariamente all’insegnamento della Suprema Corte – la nullità a mente della L. 28 gennaio 1977, n. 10, art. 15, comma 7, anche agli atti con efficacia obbligatoria, la Corte di appello di Trieste, nella condivisione dell’appellato, accoglieva parzialmente il gravame e in riforma della sentenza impugnata dichiarava la risoluzione del contratto preliminare per inadempimento del promissario acquirente, rigettando per il resto le domande proposte dalle parti.

A sostegno dell’adottata sentenza, la Corte territoriale riconosceva la fondatezza della contestazione dell’appellante relativamente alla declaratoria di nullità del contratto preliminare e, nel merito, evidenziava l’inadempimento dell’ O. che, nonostante fosse stato concluso contratto di vendita a corpo e non a misura, aveva mosso contestazioni circa il vano ripostiglio di incerta proprietà per non addivenire alla stipula del definitivo, ciò pur avendo la promittente venditrice provveduto a regolarizzare detto vano anche sotto il profilo catastale.

La Corte territoriale, inoltre, affermava che non poteva essere accolta la domanda di risarcimento del danno avanzata dalla appellante in mancanza di prova, non utilizzabile nella specie l’art. 1226 c.c. nè quella di trattenimento della caparra ex art. 1385 c.c. in quanto recesso alternativa alla risoluzione.

Avverso l’indicata sentenza della Corte di appello di Trieste ha proposto ricorso per cassazione l’ O., che risulta articolato su un unico motivo, seppure sviluppato sotto molteplici profili, al quale ha resistito con controricorso la E..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con l’unico motivo il ricorrente deduce la violazione o falsa applicazione degli artt. 1362, 1453, 1454, 1460, 1538, 1480, 1489, 2643, 2644, 2645 c.c., nonchè degli artt. 345, 116 e 252 c.p.c. e art. 2735 c.c., oltre che per insufficiente o contraddittoria motivazione circa diversi punti decisivi della controversia ampiamente prospettati dalle parti o rilevabili di ufficio.

In sostanza il ricorrente censura la decisione, “caratterizzata per una sommarietà di giudizio”, per avere omesso di valorizzare, ai fini dell’adempimento, la corresponsione da parte del promissario acquirente della caparra di L. 100.000.000 e per non avere tenuto conto dell’invito da lui rivolto alla controparte a comparire dinanzi al notaio P.R. per la stipula del definitivo.

Chiarisce, inoltre, che “non intende censurare le valutazioni di merito che hanno portato la Corte di appello di Trieste a giudicare se e quale delle due parti possa ritenersi inadempiente all’obbligo di stipulare il contratto definitivo, ma solamente alcuni errori giuridici e procedurali che lo rendono illegittimo”; la sentenza non avrebbe, inoltre, valutato la circostanza che anche la controparte alla data dell’8.5.1992 non era in grado di trasferire la proprietà dell’unità abitativa erroneamente sminuita e degradata a vano ripostiglio. La corte di merito non avrebbe, altresì, adeguatamente valorizzato, ai sensi dell’art. 1362 c.c., comma 2, che il vano in contestazione era incluso nel preliminare, circostanza che risultava documentata dall’attività svolta dalla promittente venditrice per l’aggiornamento catastale, comportamento successivo rilevante ai sensi dell’art. 2735 c.c.; in tal senso, inoltre, era da interpretare la espressa garanzia, prestata in forma scritta, sia dalla E. sia dal suo difensore.

Aggiunge, che il giudice del gravame avrebbe falsamente applicato l’art. 1538 c.c., relativo alla vendita a corpo, mentre avrebbe dovuto trovare applicazione l’art. 1481 c.c., stante i pericolo che la cosa potesse essere rivendicata da terzi. Afferma, altresì, che “è proprio quella specifica stanza la cui incerta proprietà ha ostacolato la conclusione del contratto”, per cui “se le parti concordano nel considerare oggetto di questa specifica vendita immobiliare anche e soprattutto quella specifica stanza interna al fabbricato, il giudice chiamato a verificare la legittimità dell’eccezione di inadempimento del promittente compratore, non può prescindere dalla documentazione della effettiva proprietà in capo E. di quella parte dell’immobile che lo stesso c.t.u. ha considerato incerta”. Del resto, la previsione della vendita dell’intero fabbricato includeva necessariamente quel vano, essendo stati esclusi solo i vani terranei. Inoltre sottolinea che l’accatastamento e la dichiarazione del proprietario dei locali terranei erano successivi alla data fissata per il definitivo e privi di conferire certezza sulla proprietà, come agevolmente desumibile dagli artt. 1643 e 1644 c.c. applicabili alla fattispecie, a conferma, peraltro, delle dichiarazioni testimoniali rese dal notaio P. sul punto. Contesta l’applicazione delle disposizioni, con la conseguenza che il giudice del gravame avrebbe falsamente applicato l’art. 1453 c.c..

Il ricorrente – con l’indicazione di numerose norme del codice civile e di quello di rito, esposte le censure con motivazioni sovrabbondanti, come sopra illustrate – nella sostanza lamenta la valutazione delle risultanze probatorie effettuata dal giudice di merito e ciò è evidente soprattutto allorchè, con la denuncia di incongrua motivazione, sovrappone la manifestazione di volontà delle parti desumibile dal preliminare (la cui rilevanza è disciplinata anche dal rigore della forma scritta: art. 1321 c.c.), alla condotta successiva tenuta dalla promittente venditrice per definire stragiudizialmente la controversia, attivandosi per la regolarizzazione catastale del vano tecnico in questione.

Premesso che a detto comportamento non può essere attribuito alcun valore ricognitivo di obblighi non dimostrati, occorre rilevare che la ratio della decisione è che la mancanza di proprietà del vano in questione era un dato ininfluente ai fini della stipula dei contratto definitivo, in quanto non avrebbe comportato nessuna modifica nè in ordine al prezzo di compravendita nè in relazione all’oggetto compravenduto.

La corte di merito ha ampiamente motivato detta ratio decidendi anche con le dimensioni del locale (cui si accede da una apertura di cm 52 larghezza e cm 67 di altezza – altezza interna utile cm 12 – al cui interno vi sono tubazioni di scarico acque bianche e nere pvc provenienti dalle unità sovrastanti, tubazioni per probabile alimentazione di gas ed acqua, conduttori per energia elettrica), deducendone la ininfluenza nell’economia del regolamento negoziale concordato fra le parti.

Tale ratio non risulta impugnata dal ricorrente che si limita a denuncie per taluni aspetti generiche e che in ogni caso fanno riferimento non al contratto preliminare ma ad atti successivi (come la garanzia prestata in ordine alla proprietà del vano). D’altro canto ai fini del ricorso per Cassazione, è giuridicamente irrilevante la censura che investa un principio di diritto enunciato dal giudice di merito e ritenuto erroneo dal ricorrente quando detto principio non costituisca la ratio decidendi della sentenza impugnata, o concorra con altri principi, autonomi ed indipendenti, che siano esatti e da soli sufficienti a giustificare la decisione adottata (v. Cass. 22 novembre 2010 n. 23635; Cass. 15 febbraio 2008 n. 3796). Va, altresì, specificato che le soluzioni possibili rispetto al vano in contesa erano due; non essendo stato dedotto che il bene fosse comune: o il vano tecnico (non accatastato) costituiva una pertinenza della proprietà della promittente venditrice, nel qual caso sarebbe stato trasferito unitamente al fabbricato, anche senza una sua specifica menzione nel preliminare; ovvero era una pertinenza del negozio di macelleria ed allora era implicitamente escluso dalla vendita.

Ciò precisato, i rilievi critici che vengono mossi dal ricorrente in punto di condotta inadempiente e di interpretazione della portata dell’obbligazione in esame, ritiene il collegio che siano per un verso inammissibili, trattandosi, per taluni aspetti, di una quaestio facti, e, per altro verso, infondati, avendo il giudice del gravame ritenuto pacificamente ininfluente una circostanza non espressamente prevista nel contratto preliminare, quale il trasferimento del vano tecnico. Del resto nel denunciare la violazione e falsa applicazione degli artt. 1453, 1454 e 1460 c.c., nonchè l’omessa e contraddittoria motivazione in ordine ad un punto decisivo della controversia, il ricorrente nella sostanza sostiene che la sentenza impugnata, ignorando l’insegnamento giurisprudenziale secondo cui l’importanza dell’inadempimento va valutata alla stregua di criteri oggettivi e con riguardo all’interesse sostanziale delle parti, non certo ad apprezzamenti personali del contraente che lamenti l’inadempienza, avrebbe valorizzato esclusivamente ed unidirezionalmente l’interesse soggettivo della promittente venditrice, prescindendo completamente da qualsiasi valutazione della rilevanza, anche economica, dell’inadempimento ascritto ad essa controricorrente. Anche dette censure non possono essere condivise.

La sentenza impugnata, muovendo dalla unitaria ricostruzione del preliminare di vendita concluso dalle parti nel senso che il vano tecnico, non espressamente menzionato nell’atto negoziale, al più era da considerare una pertinenza della proprietà compravenduta, ha coerentemente collegato la risoluzione dell’intero rapporto all’inadempimento del promissario acquirente, non reputando sì grave da compromettere la funzionalità del complessivo sinallagma contrattuale l’eventuale non disponibilità del locale in contesa. In tal caso vi è stato spazio solo per una valutazione di conformità a buona fede del rifiuto ad adempiere opposto dalla controparte, omettendo di recandosi avanti al notaio da lui stesso indicato il giorno 8.5.1992, valutazione prescritta dall’art. 1460 c.c. nonchè dal principio generale dettato per l’esecuzione dei contratti dall’art. 1375 c.c.. Nel caso in esame il giudice d’appello, ancorchè non abbia fatto esplicito riferimento alle norme ora menzionate, ha correttamente ritenuto ingiustificato il rifiuto del promissario acquirente ad intervenire per il rogito notarile, versando il saldo del prezzo, in considerazione della tenue importanza attribuita nell’economia del regolamento negoziale al valore del vano in questione, peraltro, si ribadisce, non espressamente previsto nell’atto negoziale.

Del resto è di tutta evidenza che nell’acquisto di un intero fabbricato, con esclusione del solo piano terraneo, il disporre o meno di un vano delle dimensioni esposte, con una mera funzione di servizio, non integra un inadempimento tale da giustificare la mancata comparizione dell’ O. avanti al notaio da lui stesso indicato il giorno 8 maggio 1992. Conclusivamente, il ricorso va respinto e, pertanto, secondo l’ordinario criterio, il ricorrente va condannata a rimborsare alla controricorrente le spese del giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di Cassazione, che liquida in complessivi Euro 5.700,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre accessori come per legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, il 1 marzo 2011.

Depositato in Cancelleria il 9 maggio 2011

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