Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 10145 del 28/05/2020

Cassazione civile sez. trib., 28/05/2020, (ud. 18/12/2019, dep. 28/05/2020), n.10145

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANZON Enrico – Presidente –

Dott. CATALLOZZI Paolo – Consigliere –

Dott. SUCCIO Roberto – Consigliere –

Dott. PUTATURO DONATI VISCIDO DI NOCERA Maria Giuli – Consigliere –

Dott. LEUZZI Salvato – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 1471/2015 R.G. proposto da

Aikon car s.r.l. in liquidazione, in persona del liquidatore p.t.,

rappresentata e difesa dall’Avv. Luigi Marsico, elettivamente

domiciliata in Roma, viale Regina Margherita n. 262;

– ricorrente –

contro

Amministrazione dell’Economia e delle Finanze dello Stato, in persona

del Ministro p.t., rappresentata e difesa ope legis dall’Avvocatura

Generale dello Stato;

– resistente –

e contro

Agenzia delle entrate, rappresentata e difesa dall’Avvocatura

Generale dello Stato, in persona del Direttore p.t., con domicilio

eletto presso gli uffici della predetta Avvocatura, in Roma, via dei

Portoghesi, n. 12;

– controricorrente incidentale –

e contro

Agenzia delle entrate – Direzione provinciale di Roma – Ufficio

Controlli, in persona del direttore p.t., rappresentata e difesa ope

legis dall’Avvocatura Generale dello Stato;

– resistente –

avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale del Lazio

depositata il 19 maggio 2014, n. 3331/10/14.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 18 dicembre

2019 dal Cons. Salvatore Leuzzi.

Fatto

RILEVATO

CHE:

In data 29 dicembre 2008 venivano notificati ad Unioncar s.r.l., cui succedeva l’odierna ricorrente Aikon car s.r.l. in liquidazione, due distinti avvisi di accertamento – relativi l’uno all’anno di imposta 2003, l’altro al 2004 – scaturenti da due processi verbali di constatazione, rispettivamente redatti da funzionari dell’Agenzia delle dogane e dell’Agenzia delle entrate;

– Mediante tali gli avvisi veniva recuperata a tassazione – avuto riguardo a ciascun anno di imposta – l’IVA dovuta su acquisti intracomunitari, ascrivendosi alla società, operante nel campo della importazione dall’estero e successiva rivendita di autovetture usate, d’avere illegittimamente applicato alle operazioni di cessione svolte in tale ambito commerciale il c.d. “regime del margine” IVA (ovvero la facoltà, per il venditore di beni usati, di calcolare l’imposta da riscuotere dall’acquirente non sul prezzo di vendita, ma sulla differenza tra il prezzo dovuto dal cessionario del bene e quello a suo tempo pagato dal cedente al momento del suo acquisto, aumentato delle spese di riparazione e di quelle accessorie);

– Successivamente, il 5 maggio 2009, veniva notificato ulteriore avviso alla Unioncar con riferimento all’anno di imposta 2005; ancora una volta veniva recuperata a tassazione l’IVA dovuta, contestandosi l’illegittimità del ricorso al “regime del margine”;

– Ancorchè la contribuente presentasse istanza di adesione in rapporto a tutti e tre gli atti impositivi, non si approdava ad alcun accordo;

– Nelle date del 25 maggio 2009 e del 12 novembre 2009, la Unioncar presentava separati ricorsi, mediante i quali investiva rispettivamente – i due avvisi di accertamento relativi agli anni 2003 e 2004, da una parte, l’avviso concernente il 2005, dall’altra;

– La CTP di Roma, riuniti i ricorsi, li rigettava con sentenza n. 72/24/12, depositata il 7 febbraio 2012; la CTR, adita dalla contribuente, ne accoglieva solo parzialmente l’appello, testualamente ritenendo la fondatezza della “doglianza dell’appellante relativa alla circostanza che il primo giudice abbia omesso completamente di pronunciarsi sull’eccezione di asserita duplicazione d’imposta, in particolare per mancata detrazione di quanto già applicato dalla contribuente, sia pure con il regime del margine, dall’importo della maggior IVA pretesa”; soggiungendo che “le eccezioni attinenti alla concreta quantificazione della maggiore pretesa impositiva, a prescindere dalla circostanza che sono state formalmente riproposte soltanto con la memoria depositata il 14 febbraio 2014, sono esposte in modo generico ed anche parzialmente divergente tra ricorso introduttivo e memoria del 14 febbraio 2014 quanto all’importo che, relativamente agli anni 2003 e 2005, sarebbe da detrarre” e che “esse, inoltre, si scontrano col dato oggettivo che ben tre organi accertatori hanno operato, in tempi diversi, con le medesime modalità”; concludendo che “va comunque rilevato che lo stesso Ufficio… ha evidenziato la possibilità che, in caso di puri errori di calcolo, si possa sempre procedere alla rettifica al ribasso degli avvisi di accertamento”;

– Il ricorso per cassazione della contribuente è affidato a due motivi;

– L’Agenzia delle entrate si è costituita con controricorso, proponendo, altresì, ricorso incidentale incentrato su un’unica censura;

– Amministrazione dell’Economia e delle Finanze dello Stato e l’Amministrazione Agenzia delle entrate – Direzione provinciale di Roma – Ufficio Controlli sono rimaste intimate.

Diritto

CONSIDERATO

CHE:

Con il primo motivo del ricorso principale, la contribuente contesta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione o falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 7, art. 654 c.p.p., per avere la CTR omesso di prendere in considerazione l’esito del giudizio penale riguardante il legale rappresentante della società contribuente, giudizio conclusosi con sentenza di assoluzione per insussistenza del fatto relativamente all’imputazione per dichiarazione infedele;

Con il secondo motivo del ricorso principale, la contribuente censura, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., del D.L. n. 41 del 1995, art. 36, del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, per avere la CTR erroneamente escluso la sussistenza dei presupposti soggettivi richiesti ai fini dell’applicazione sull’IVA del “regime del margine”;

Con l’unico motivo del ricorso incidentale, l’Agenzia delle entrate lamenta la violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 53, degli artt. 324 e 329 c.p.c., con riferimento al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 1, comma 2, e la falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 56, nonchè la violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 57, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per avere la CTR mancato di rilevare l’inammissibilità della questione relativa alla pretesa duplicazione d’imposta, veicolata tardivamente dalla contribuente mediante memoria del 14 febbraio 2014, anzichè riproposta tempestivamente con l’atto d’appello.

Va preliminarmente disattesa l’eccezione di inammissibilità del ricorso principale, sollevata dalla controricorrente, con riferimento al precetto dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3.

Il ricorso si mostra rispettoso del principio di autosufficienza, prescritto, a pena di inammissibilità, dalla norma or ora evocata; esso, infatti, consente la comprensione dell’oggetto della pretesa e del tenore della sentenza impugnata, evincibile anche alla stregua dei motivi dell’impugnazione in esso articolati, tesi a rimarcare l’asserita incidenza di una sentenza penale di assoluzione nel giudizio tributario in corso e a riproporre il thema decidendum dell’applicabilità del c.d. “regime del margine”. La ricorrente ha, pertanto, assolto all’onere di operare una chiara esposizione, funzionale alla piena valutazione delle censure dedotte, consentendo a questa Corte, in base alla sola lettura del ricorso, di verificare se quanto lo stesso afferma trovi effettivo riscontro.

Ciò premesso, il primo motivo del ricorso principale è infondato e va rigettato.

Nella specie, la CTR, con un giudizio autonomo e indipendente dalla sentenza penale, ha valutato specificamente la sentenza penale al fine della formazione del proprio “libero convincimento”, svalutandone la pregnanza probatoria, sul significativo presupposto, da un lato, dell’omessa produzione della sentenza in parola, dall’altro, della mancata documentazione del suo passaggio in giudicato.

Non v’è, dunque, stata la dedotta violazione di legge lamentata dal contribuente, dovendosi rammentare il principio giurisprudenziale consolidato secondo cui, in materia di contenzioso tributario, nessuna automatica autorità di cosa giudicata può attribuirsi alla sentenza penale irrevocabile, di condanna o di assoluzione, emessa in materia di reati fiscali, ancorchè i fatti esaminati in sede penale siano gli stessi che fondano l’accertamento degli Uffici finanziari, dal momento che nel processo tributario vigono i limiti in tema di prova posti dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 7, comma 4, e trovano ingresso, invece, anche presunzioni semplici, di per sè inidonee a supportare una pronuncia penale di condanna. Ne consegue che l’imputato assolto in sede penale, anche con formula piena, per non aver commesso il fatto o perchè il fatto non sussiste, può essere ritenuto responsabile fiscalmente qualora l’atto impositivo risulti fondato su validi indizi, insufficienti per un giudizio di responsabilità penale, ma adeguati, fino a prova contraria, nel giudizio tributario (v. Cass. n. 16262 del 2017; Cass. n. 17536 del 2019).

Giova ulteriormenre precisato che nel processo tributario, la sentenza penale irrevocabile di assoluzione dal reato tributario, emessa con la formula “perchè il fatto non sussiste” rappresenta un semplice elemento di prova, liberamente valutabile – e nella specie senz’altro valutato – in rapporto alle ulteriori risultanze istruttorie, anche di natura presuntiva (Cass. n. 28174 del 2017; Cass. n. 2938 del 2015; Cass. n. 21873 del 2016; Cass. n. 4924 del 2013).

Il secondo motivo del ricorso principale è, del pari, infondato.

Suo tramite si agita la questione relativa all’asserita sussistenza, pure esclusa dalla CTR, dei presupposti per l’applicazione del “regime del margine”.

La contribuente contesta, in particolare, l’inidoneità degli elementi addotti dall’Agenzia delle entrate a supporto della ritenuta inapplicabilità di detto regime; l’insussistenza di elementi utili a fondare qualsiasi presunzione; il sovvertimento degli oneri probatori in materia; l’indebita valorizzazione “a campione” delle fatture relative a talune soltanto delle cessioni; la mancata considerazione dell’affidamento incolpevole del contribuente.

Ciò detto, i presupposti ed i limiti per l’applicazione del regime “del margine” alle compravendite di veicoli usati sono stati stabiliti da due recenti decisioni: l’una della Corte di giustizia dell’Unione Europea (Corte giust., 18.5.2017, in causa C-624/15, Litdana), l’altra delle Sezioni Unite di questa Corte (Cass. n. 21105 del 2017).

Queste due decisioni, lette unitariamente, hanno stabilito in subiecta materia una regola ed un’eccezione.

La regola è che l’amministrazione fiscale non può esigere che il soggetto passivo il quale intenda esercitare il diritto di applicare il regime “del margine” verifichi se la persona dalla quale sta acquistando beni usati abbia soddisfatto i propri obblighi di dichiarazione e di pagamento dell’IVA (Corte giust. 18.5.2017 cit., p. 40).

L’eccezione è che chi acquisti un bene usato per poi rivenderlo ha tuttavia l’obbligo di verificare, con l’ordinaria diligenza, la effettiva applicabilità del regime del margine, quando vi sia qualche indizio “che faccia sospettare l’esistenza di irregolarità o di evasione” da parte del fornitore (ibidem, p. 44).

Nel caso di compravendita di autoveicoli usati, un indizio di questo tipo deve ritenersi sussistente in tutti i casi in cui il venditore del veicolo usato sia un imprenditore commerciale che svolga professionalmente l’attività di rivendita, noleggio o concessione in leasing di autoveicoli.

In tal caso, infatti, deve ritenersi in base all’id quod plerumque accidit che il venditore, quando acquistò il veicolo poi rivenduto come usato, abbia esercitato il diritto alla detrazione dell’IVA pagata sul relativo prezzo d’acquisto, “in quanto bene destinato ad essere impiegato nell’esercizio dell’attività propria dell’impresa” (così Cass. Sez. Un. 21105 del 2017 cit. in motivazione).

Per accertare, poi, se il venditore del veicolo usato (od il suo dante causa) sia o no un imprenditore commerciale, l’acquirente ha l’onere, di norma di agevole assolvimento e non contrario al principio di proporzionalità, di verificare l’identità dei precedenti proprietari per come risultante dalla “carta di circolazione” (il c.d. “libretto”) di cui agli artt. 93, 110 e 114 Codice della strada (D.L. n. 285 del 1992).

Su queste premesse, chi acquista veicoli usati per poi rivenderli, ai fini della decisione circa l’applicabilità del “regime del margine” non può certo limitarsi a recepire acriticamente quanto dichiaratogli dal venditore (nella specie, dai venditori) circa l’applicabilità di tale regime.

Il contribuente, per contro, alla stregua della ordinaria diligenza esigibile da un operatore economico medio (secondo il modello desumibile dall’art. 1176 c.c., comma 2), ha l’onere di compiere quelle attività minime che, senza oneri aggiuntivi, gli consentirebbero agevolmente un fondato giudizio sulla “storia” del veicolo oggetto dell’acquisto: in particolare, esaminando la carta di circolazione, e riscontrando se tra i precedenti possessori su essa indicati vi fossero stati imprenditori commerciali.

Solo se nemmeno da tale riscontro fosse emersa la precedente appartenenza del veicolo ad un soggetto legittimato alla detrazione dell’IVA, potrà dirsi incolpevole e scusabile la condotta dell’acquirente nazionale, il quale applichi senza averne diritto il regime del “margine”.

La pronuncia impugnata ha fatto applicazione dei principi passati in rassegna. La CTR ha valorizzato alcuni convergenti profili: le “informazioni pervenute sia dall’Autorità fiscale tedesca, sia dall’Autorità fiscale francese”, dalle quali era d’uopo evicere che le operazioni di vendita effettuate verso la Unioncar s.r.l. dagli operatori tedeschi e francesi rientravano nelle “operazioni di vendita comunitarie imponibili IVA nel Paese di destinazione (Italia)”; la connotazione testuale delle fatture; l’esito delle interrogazioni al c.d. “VIES” (Vat Information Exchange System), finalizzato al controllo delle transazioni commerciali in ambito comunitario e dei soggetti IVA che le pongono in essere; la collocazione temporale in un anno diverso da quelli oggetto di accertamento dell’accordo sottoscritto il 18 ottobre 2002 con la Daimler Chrysler AG; le dichiarazioni rese dal rappresentante di quest’ultima all’Amministrazione fiscale tedesca sul regime fiscale adottato nelle vendite di autovetture alla Unioncar.

Gli aspetti evidenziati si incentrano, peraltro, sulla circostanza, invero incontroversa, rappresentata dagli acquisti dei veicoli, da parte della contribuente, presso fornitori comunitari operanti nel settore del mercato delle autonobili. Nella tracciata cornice, la CTR ha escluso che il cessionario potesse fruire del regime fiscale speciale in quanto nella catena delle operazioni di cessione tra le società danti causa, figuravano soggetti passivi IVA che per le qualità soggettive rivestite (società di commercianti veicoli) erano legittimate a portare in detrazione l’imposta sugli acquisti delle medesime vetture successivamente rivendute agli intermediari nazionali.

La pronuncia impugnata ha correttamente attribuito al cessionario un onere della prova connesso alla particolare vicenda posta alla sua attenzione, in cui è venuto in rilievo che le vetture acquistate avevano, come titolari precedenti, imprese operanti nel settore della vendita degli autoveicoli. A fronte di questo dato pacifico, il contribuente ha omesso di fornire elementi di valutazione utili e necessari, suscettibili di condurre a ritenere non applicabile il regime ordinario concernente gli scambi intracomunitari a vantaggio di quello del “margine”.

Non vale, peraltro, allegare la estrema gravosità dell’onere di diligenza che graverebbe sul concessionario per svolgere gli accertamenti in ordine alle condizioni di soggetti residenti in altro Paese membro, quando “nel caso di autoveicoli, l’eventuale insussistenza di tali requisiti può talvolta essere agevolmente desunta dai libretti di circolazione…, cosicchè va senz’altro affermata l’esistenza di un particolare onere di diligenza in capo all’acquirente, anche mediato, riguardo a dati risultanti dai libretti di circolazione” (v. Cass. n. 3427 del 2010);

Nella specie ricorre lo schema legale della presunzione ex artt. 2727 e 2729 c.c., atteso che da un lato, dal fatto certo (qualità soggettiva degli operatori economici) è ben possibile in linea teorica pervenire, mediante applicazione dello schema probatorio presuntivo, alla conoscenza di distinti fatti ignorati, dall’altro occorre rilevare come, nel caso di specie, la strumentalità del bene (ovvero la “inerenza” od “afferenza” del bene acquistato all’esercizio della attività economica) non si identifica con l’oggetto della prova presuntiva, ma costituisce soltanto uno degli elementi ricostruttivi del fatto ignorato (detrazione della imposta) che è da ritenersi l’unico fatto oggetto di prova, in quanto fatto impeditivo del diritto alla fruizione del regime fiscale c.d. del margine (v. anche Cass. n. 32402 del 2018).

L’unico motivo del ricorso incidentale è fondato e va accolto per quanto di ragione.

Mediante detto mezzo l’Agenzia denuncia la nullità della sentenza in relazione al D.Lgs. n. 546 del 1992, artt. 53 e 56, evidenziando che nell’appello della contribuente non venivano tempestivamente riproposte la questioni, non accolte in primo grado, afferenti la lamentata duplicazione dell’imposta e la pretesa sussistenza di errori di calcolo del quantum dovuto.

Invero, la CTR dà atto che le questioni segnalate non venivano affatto riproposte con l’atto d’appello, bensì inammissibilmente accluse in una successiva memoria illustrativa del 14 febbraio 2014. Ed in buona sostanza, ancorchè ne accerti per un verso la tardiva deduzione, il giudice d’appello ufficiosamente ne sana l’irritualità, di fatto pronunciandosi su un punto controverso già coperto dal giudicato.

Nel caso di specie, la questione relativa alla doppia imposizione non si pone in rapporto di dipendenza rispetto alla questione espressamente definita dal giudice del gravame di merito concernente la sussistenza dei presupposti di applicabilità del “regime del margine”.

La contribuente, rimasta soccombente su detta autonoma questione, non ha proposto tempestiva impugnazione attingendo il punto controverso con uno specifico motivo d’appello. In tal senso, essa ha assunto un comportamento incompatibile con la volontà di far valere, nel giudizio di impugnazione, la relativa questione, pure suscettibile di dar luogo ad un capo autonomo della sentenza e non ad un mero passaggio interno della decisione di merito.

In tal senso, avendo la contribuente prestato acquiescenza al riguardo, con le conseguenti preclusioni sancite dall’art. 324 c.p.c. e art. 329 c.p.c., comma 2, non era legittimata recuperare tardivamente la questione con una memoria illustrativa in corso di giudizio. Men che meno, a fronte del giudicato interno che la investiva, detta questione si prestava ad essere rilevata d’ufficio e decisa dal giudice del gravame di merito, il quale è, pertanto, incorso in un error in procedendo, che ha determinato la nullità della sentenza in parte qua, censurabile ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4

Giova anche ricordare che questa Corte ha chiarito, in plurime occasioni, che “Nel processo tributario, il D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 56, nel prevedere che le questioni e le eccezioni non accolte in primo grado, e non specificamente riproposte in appello, si intendono rinunciate, fa riferimento, come il corrispondente art. 346 c.p.c., all’appellato, e non all’appellante – principale o incidentale che sia -, in quanto l’onere dell’espressa riproposizione riguarda, nonostante l’impiego della generica espressione “non accolte”, non le domande o le eccezioni respinte in primo grado, bensì solo quelle su cui il giudice non abbia espressamente pronunciato (ad esempio, perchè ritenute assorbite), non essendo ipotizzabile, in relazione alle domande o eccezioni espressamente respinte, la terza via – riproposizionerinuncia – rappresentata dal citato D.Lgs., art. 556 e dall’art. 346 c.p.c., rispetto all’unica alternativa possibile dell’impugnazione principale o incidentale – o dell’acquiescenza, totale o parziale, con relativa formazione di giudicato interno” (Cass. n. 1545 del 2007; Cass. n. 7702 del 2013; Cass. 14534 del 2018).

In ultima analisi, il ricorso principale va rigettato; va accolto, per converso, l’unico motivo del ricorso incidentale e per l’effetto la sentenza va cassata.

Non occorrendo ulteriori accertamenti di merito, la causa va decisa nel merito, con il rigetto degli originari ricorsi della contribuente.

Le spese sono regolate dalla soccombenza e vanno liquidate nella misura espressa in dispositivo. Si da atto dell’applicazione del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater.

PQM

La Corte rigetta il ricorso principale. Accoglie il ricorso incidentale. Cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, rigetta gli originari ricorsi della contribuente. Condanna la ricorrente in via principale al rimborso delle spese processuali sostenute dall’Agenzia delle entrate nel presente giudizio, che liquida in Euro 10.000,00, oltre alle spese prenotate a debito. Compensate le spese dei gradi di merito.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Tributaria della Suprema Corte di Cassazione, il 18 dicembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 28 maggio 2020

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