Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 10129 del 09/05/2014


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Civile Sent. Sez. L Num. 10129 Anno 2014
Presidente: ROSELLI FEDERICO
Relatore: TRICOMI IRENE

SENTENZA

sul ricorso 1493-2012 proposto da:
TELECOM ITALIA S.P.A. P.I. 00488410010, in persona del
legale rappresentante

pro tempore,

elettivamente

domiciliata in ROMA,J , L.G. FARAVELLI 22, presso lo
studio degli avvocati MARESCA ARTURO, BOCCIA FRANCO
RAIMONDO, ROMEI ROBERTO,
2014

che la rappresentano e

difendono giusta delega in atti;
– ricorrente –

596

contro

BETRO’ ANDREA C.F. BTRNDR6OL131266V, CODAMO CARLO C.F.
CDMCRL70A22C352N,

FIORENTINO

GIUSEPPE

C.F.

Data pubblicazione: 09/05/2014

FRNGPP7OH25C352M,

GUARIGLIA

ANTONIO

C.F.

GRGNTN72P27C352R, tutti elettivamente domiciliati in
ROMA, VIA COLA DI RIENZO 28, presso lo studio
dell’avvocato BOLOGNESI RICCARDO, che li rappresenta e
difende giusta delega in atti;

nonchè contro

ROMANO ANTONINO, HEWLETT PACKARD DISTRIBUTED COMPUTING
SERVICES S.R.L.;
– intimati –

avverso la sentenza n. 986/2011 della CORTE D’APPELLO
di CATANZARO, depositata il 17/10/2011 r.g.n.
1289/2009 + 1;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica
udienza del 18/02/2014 dal Consigliere Dott. IRENE
TRICOMI;
uditi gli Avvocati BOCCIA FRANCO RAIMONDO e ROMEI
ROBERTO;
udito l’Avvocato BOLOGNESI RICCARDO;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. GIOVANNI GIACALONE che ha concluso per
il rigetto del ricorso.

– controricorrenti –

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
1. La Corte d’Appello di Catanzaro, con la sentenza n. 986 del 2011,
pronunciando sull’appello proposto Hewlett Packard Distributed Computing Service srl
nei confronti di Betrò Andrea, Codamo Carlo, Fuiorentino Giuseppe e Guariglia
Antonio e Romano Antonino, nonchè Telecom Italia spa e sull’appello di Telecom
Italia spa nei confronti di Betrò Andrea, Codamo Carlo, Fiorentino Giuseppe e
Guariglia Antonio e Romano Antonino, nonchè di Hewlett Packard Distributed
Computing Service srl, avverso la sentenza del Tribunale di Catanzaro, rigettava le
impugnazioni.
Il Tribunale di Catanzaro aveva dichiarato la inefficacia della cessione di ramo
d’azienda IT User Support da Telecom Italia srl a Hewlett Packard distributed
computing service srl, con conseguente passaggio dei dipendenti interessati al suddetto
ramo, a decorrere dal 16 aprile 2003, alle dipendenze della società cessionaria.
Il Tribunale affermava che la società cessionaria non aveva assolto all’onere
probatorio di fornire la dimostrazione della preesistente, rispetto alla cessione,
sussistenza di una articolazione funzionalmente autonoma, individuabile come I.T. User
Support, nonché della inerenza della attività svolta dai lavoratori ceduti al ramo ceduto,
e cioè, in concreto, del fatto che i lavoratori, anche dopo la cessione, abbiano continuato
a svolgere le stesse mansioni espletate in epoca anteriore alla stessa.
2. Per la cassazione della sentenza resa in grado di appello ricorre Telecom Italia
spa, prospettando tre motivi di ricorso.
3. Resistono con controricorso i suddetti lavoratori, che hanno depositato
memoria in prossimità dell’udienza.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Preliminarmente, occorre ricordare che la Corte d’Appello di Catanzaro,
ritenuta la sussistenza dell’interesse ad agire dei lavoratori, nel rigettare gli appelli delle
società affermava che era stato dimostrato, attraverso l’audizione dei testi e la
documentazione allegata, che l’articolazione del ramo d’azienda “IT User Support”, nei
termini individuati e descritti nel contratto di cessione di ramo d’azienda, era stata
costituita soltanto alcuni mesi prima della stipulazione del suddetto contratto, allorché
IT Telecom – incorporante nel dicembre 2002 della Netsiel spa, alla quale Telecom
Italia spa aveva trasferito dal 10 gennaio 2001, il “settore esercizio dei sistemi
informativi”- ebbe a costituire il settore “Control Room”, facendovi confluire tutti i
dipendenti che operavano nel settore esercizio, ad eccezione di quei dipendenti che,
nell’ambito dello stesso settore, facevamo parte di Customer care, GISP, Asset
Management e del Desktop Management. Affermava, altresì, la Corte d’Appello, che
la individuazione e composizione strutturale del settore denominato “IT User Support” è
avvenuta mediante la inclusione di personale, nello stesso, di personale e servizi del
tutto eterogeni ed in assenza di una propria identità nonché di autonomia funzionale e
organizzativa.
Tanto premesso, e prima di passare all’esame di emotivi di ricorso, occorre
ricordare che nella specie trattasi di asserita cessione di ramo d’azienda, avvenuta
pacificamente in data 16 aprile 2003.
Onde verificare la reale ricorrenza della fattispecie di cui all’art. 2112 cod. civ.,
la Corte d’appello ha correttamente esaminato le vicende che avevano preceduto la
cessione.
2. Con il primo motivo del ricorso principale è dedotta violazione e falsa
applicazione dell’art. 100 cpc, e degli artt. 1406, 2094 e 2112 cod. civ., in relazione
all’art. 360, n. 3, cpc.
Espone la ricorrente che mancherebbe in capo alla lavoratrice l’interesse ad
agire che si specifica nel rapporto di utilità intercorrente tra la lesione di un diritto ed il
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provvedimento di tutela giurisdizionale che viene richiesto, atteso che non è stata
dedotta, nella specie, la lesione di alcun diritto e di alcuna conseguenza negativa
derivante dal trasferimento del rapporto di lavoro nell’ambito del trasferimento del ramo
d’azienda di cui facevano parte i lavoratori. In proposito, espone la ricorrente che è
insufficiente la motivazione della Corte d’Appello che si è limitata ad affermare che
l’interesse a far accertare la illegittimità di un trasferimento del ramo d’azienda e il
conseguente mutamento del datore di lavoro comporta di per se stesso l’interesse ad
agire.
2.1. Il motivo non è fondato e deve essere rigettato.
Nel rapporto obbligatorio il debitore è, di regola, indifferente al mutamento
della persona del creditore, mentre il mutamento della persona del debitore può ledere
l’interesse del creditore. In base a questo principio — espresso negli artt. 2740, 1268,
primo comma, 1273, primo comma, e 1406 del codice civile — deve considerarsi
inefficace la cessione del contratto di lavoro qualora il lavoratore, titolare di crediti
verso il datore, non abbia prestato il consenso di cui all’art. 1406 cit. L’art. 2112 cod.
civ., che permette all’imprenditore il trasferimento dell’azienda, con successione del
cessionario negli obblighi del cedente e senza necessità di consenso del lavoratore,
costituisce eccezione al detto principio e non si applica se non sia identificabile, quale
oggetto del trasferimento, un’azienda o un suo ramo, da intendere come entità
economica organizzata in maniera stabile e con idoneità alla produzione e allo scambio
di beni o di servizi.
Di conseguenza sussiste l’interesse del lavoratore ad accertare in giudizio la non
ravvisabilità di un ramo d’azienda in un complesso di beni oggetto del trasferimento e
perciò l’inefficacia di questo nei suoi confronti, in assenza di consenso. Né questo
interesse è escluso dalla solidarietà tra cedente e cessionario stabilita dal capoverso
dell’art. 2112, la quale ha per oggetto solo i crediti del lavoratore ceduto “esistenti” al
momento del trasferimento e non quelli futuri, onde ben può configurarsi un
pregiudizio a carico del ceduto nel caso di cessione dell’azienda a soggetto meno
solvibile.
3. Con il secondo motivo di ricorso è dedotta violazione e falsa applicazione
dell’art. 2112 cod. civ., in relazione all’art. 360, n. 3, cpc.
Ad avviso della ricorrente tra le condizioni previste dal legislatore per operare il
trasferimento di azienda non è compresa la preesistenza del ramo. Né, in proposito si
può richiamare la giurisprudenza della Corte di Giustizia, occorrendo solo che il
soggetto subentrante abbia proseguito la stessa attività utilizzando del tutto tutti o in
parte i mezzi o riassumendo in tutto o in parte il personale del precedente complesso
aziendale.
In ogni caso, il ramo in questione esisteva già da un anno circa prima del suo
trasferimento, ed era esistente con quelle caratteristiche che poi ha mantenuto fino al
suo trasferimento e ciò in virtù di una decisione organizzativa di Telecom che no può
essere sindacata in sé. Né è ravvisabile eterogeneità delle funzioni svolte dal ramo.
4. Con il terzo motivo di ricorso è prospettato il vizio di insufficiente e
contraddittoria motivazione ai sensi dell’art. 360, n. 5, cpc. Ad avviso della ricorrente,
la sentenza impugnata pone delle premesse in diritto che non hanno riscontro negli
elementi di fatto posti a base della decisione, non illustrando quali circostanze di fatto
non consentiscano di ritenere che il ramo trasferito non avesse mantenuto la propria
autonomia funzionale ed essendo lacunosa in relazione al rapporto tra cedente e
cessionario.
5. I suddetti motivi devono essere trattati congiuntamente in ragione della loro
cormessione. Gli stessi non sono fondati e devono essere rigettati.
4

Occorre ricordare come questa Corte ha già affermato (Cass., sentenza 4
dicembre 2012, n. 21711, 6 febbraio 2013 n. 2766), in linea con la prevalente dottrina
formatasi sul punto, che in materia di trasferimento di parte (c.d. ramo) di azienda, tanto
la normativa comunitaria (direttive CE nn. 98/50 e 2001/23) quanto la legislazione
nazionale (art. 2112 c.c., comma 5) perseguono il fine di evitare che il trasferimento si
trasformi in semplice strumento di sostituzione del datore di lavoro, in una pluralità di
rapporti individuali, con altro sul quale i lavoratori possano riporre minore affidamento
sul piano sia della solvibilità sia dell’attitudine a proseguire con continuità l’attività
produttiva. La citata direttiva del 1998 richiede, pertanto, che il ramo d’azienda oggetto
del trasferimento costituisca un’entità economica con propria identità, intesa come
insieme di mezzi organizzati per un’attività economica, essenziale o accessoria, e,
analogamente, l’art. 2112 c.c., comma 5, si riferisce alla “parte d’azienda, intesa come
articolazione funzionalmente autonoma di un’attività economica organizzata”. Deve,
quindi, trattarsi di un’entità economica organizzata in modo stabile e non destinata
all’esecuzione di una sola opera (cfr. Corte di Giustizia CE, sentenza 24 gennaio 2002,
C-51/00), ovvero di un’organizzazione quale legame funzionale che renda le attività dei
lavoratori interagenti e capaci di tradursi in beni o servizi determinati (Cass. 8 giugno
2009 n. 13171). Ne consegue che, nonostante talune difformi opinioni basate sul dato
letterale dell’assenza, nelle Direttive comunitarie, del concetto di preesistenza (pur
essendo previsto quello della conservazione dell’identità), l’entità economica trasferita
deve in realtà ritenersi preesistente al trasferimento, non potendo conservarsi quel che
non c’è (cfr. sul punto Cass. 13 ottobre 2009 n. 21697). Il concetto di preesistenza deve
poi ritenersi necessariamente riferito ad una articolazione funzionalmente autonoma
dell’azienda, posto che qualunque lavorazione aziendale, per poter essere ceduta, non
potrebbe che preesistere al negozio traslativo, essendone il necessario oggetto
contrattuale. Tale conclusione risulta obbligata anche alla luce della legge delega n. 30
del 2003, considerando che essa prevedeva la sussistenza del requisito dell’autonomia
funzionale del ramo d’azienda al momento del suo trasferimento, dovendosi
conseguentemente ritenere non consentito attribuire unicamente alle parti
imprenditoriali di individuare a quali cessioni si applichi la fondamentale garanzia di cui
all’art. 2112 cod. civ., risultando peraltro arduo sostenere che competa unicamente al
datore di lavoro decidere sull’applicabilità di disposizioni inderogabili a garanzia dei
lavoratori.
Ed invero, seppure può oggi ritenersi che l’autonomia funzionale del ramo di
azienda ceduto non coincida con la materialità dello stesso (quanto a strutture, beni
strumentali ed attrezzature, etc.), ma possa consistere anche in un ramo
“smaterializzato” o “leggero”, costituito in prevalenza da rapporti di lavoro organizzati
in modo idoneo, anche potenzialmente (od al netto dei supporti generali sussistenti
presso l’azienda cedente), allo svolgimento di un’attività economica, ciò non toglie che
tale autonomia dell’entità ceduta debba essere obiettivamente apprezzabile, sia pur con
possibili interventi integrativi imprenditoriali ad opera del cessionario, al fine di
verificarne l’imprescindibile requisito comunitario della sua “conservazione”. Non può
ammettersi invece -alla luce dei principi comunitari, cfr. C.G.E. 24 gennaio 2002, causa
C-51/00- che tale legame funzionale possa derivare (soggettivamente) solo dalla
qualificazione fattane dal cedente e dal cessionario al momento del trasferimento,
consentendo ai soggetti stipulanti il negozio traslativo (peraltro neppure portatori di
superiori interessi pubblici o collettivi), la libera definizione della fattispecie cui la
norma inderogabile si applica, e ciò in contrasto con la disciplina comunitaria in ordine
all’inderogabilità dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimento di azienda.
D’altro canto è principio consolidato nella giurisprudenza comunitaria (cfr. C.G.E. 14
5

novembre 1996, C-305/1994) quello per cui la vicenda traslativa si perfeziona ipso iure,
risultando irrilevante la contraria volontà delle parti del negozio traslativo.
Questa Corte ha poi già ritenuto che mentre nell’ipotesi della cessione di ramo di
azienda si realizza la successione legale nel rapporto di lavoro del cessionario senza
bisogno del consenso dei contraenti ceduti, nel caso della mera esternalizzazione di
servizi ricorre la fattispecie della cessione dei contratti di lavoro, che richiede per il suo
perfezionamento il consenso dei lavoratori ceduti (Cass. 16 ottobre 2006 n. 22125;
Cass. 5 marzo 2008 n. 5932).
Deve pertanto ritenersi operante, ai sensi dell’art. 2112 cod. civ., come tale
suscettibile di autonomo trasferimento vi riconducibile alla disciplina dettata per la
cessione di azienda, deve intendersi ogni entità economica organizzata la quale, in
occasione del trasferimento, conservi la sua identità – come del resto previsto dalla
prima parte dell’art. 32 del d.lgs. n. 276 del 2003 – pur potendosi individuare, nel
contratto di cessione, una porzione o frazione produttiva che precedentemente era
strettamente legata ai supporti logistici e materiali presenti nell’azienda cedente. Ciò
presuppone comunque una preesistente entità produttiva funzionalmente autonoma
(potendo conservarsi solo qualcosa che già esiste).
Ne consegue che può applicarsi la disciplina dettata dall’art. 2112 cod. civ.
anche in caso di frazionamento e cessione di parte dello specifico settore aziendale
destinato a fornire il supporto logistico sia al ramo ceduto che all’attività della società
cessionaria, purché esso presenti, all’interno della più ampia struttura aziendale oggetto
della cessione, la propria organizzazione di beni e persone al fine della fornitura di
particolari servizi per il conseguimento di obiettive finalità produttive, sicché i reciproci
rapporti vengono trasferiti dal cedente al cessionario, ai sensi dell’art. 2112 cod. civ.,
senza necessità dì un loro consenso (cfr. già Cass. 1° febbraio 2008 n. 2489; Cass. 17
marzo 2009 n. 6452; Cass. 13 ottobre 2009 n. 21697).
Alla luce dei suddetti principi la Corte d’Appello, esattamente e con congrua
motivazione esclude la ravvisabilità di un ramo d’azienda, oggetto di cessione ai sensi
dell’art. 2112 cod. civ., in un servizio consistente nella gestione e manutenzione di
strutture informatiche, privo di struttura aziendale autonoma e preesistente, non
identificabile sulla base di interessi del cessionario successivi alla cessione, ed anzi
esclusa dai criteri di designazione dei lavoratori trasferiti, provvisti di competenze
professionali non omogenee, e comunque ancora interagenti con operatori dell’impresa
cedente.
6. La recente sentenza della Corte di giustizia UE 6 marzo 2014 n. C-458/12
conferma quanto detto. Da essa risulta infatti che: a) non si ha trasferimento di ramo
d’azienda qualora il ramo non preesista alla cessione (dispositivo, n.1; considerato n.
32); b) in tal caso spetta all’ordinamento nazionale di garantire il lavoratore
(dispositivo, n. 1; considerato n. 3).
7. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.
PQM
La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese di
giudizio che liquida in euro cento per esborsi, euro tremila per compensi professionali,
oltre accessori.
Così deciso in Roma il 18 febbraio 2014.

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