Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 10125 del 16/04/2021

Cassazione civile sez. I, 16/04/2021, (ud. 12/01/2021, dep. 16/04/2021), n.10125

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE CHIARA Carlo – Presidente –

Dott. VALITUTTI Antonio – Consigliere –

Dott. MERCOLINO Guido – Consigliere –

Dott. TERRUSI Francesco – Consigliere –

Dott. NAZZICONE Loredana – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 13624/2017 proposto da:

Banca Monte dei Paschi di Siena S.p.a., in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, Via

Flaminia n. 133, presso lo studio dell’avvocato Berti Arnoaldi Veli

Alessandro, rappresentata e difesa dall’avvocato Berti Arnoaldi Veli

Giuliano, giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

U.G., U.M., in proprio e quali eredi di

B.G., domiciliati in Roma, Piazza Cavour, presso la

Cancelleria Civile della Corte di Cassazione, rappresentati e difesi

dall’avvocato Martini Alessandro, giuste procure in calce al

controricorso;

U.F., in proprio e quale erede di B.G.,

elettivamente domiciliato in Roma, Via Mendola n. 32, presso lo

studio dell’avvocato Pinto Giuseppe Pompeo, che lo rappresenta e

difende, giusta procura speciale per Notaio Q.C. di

(OMISSIS);

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 906/2017 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA,

depositata il 07/04/2017;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

12/01/2021 dal Cons. Dott. NAZZICONE LOREDANA.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

La Corte d’appello di Bologna con sentenza del 7 aprile 2017, n. 906, in accoglimento dell’impugnazione, ha revocato il Decreto Ingiuntivo per Euro 130.554,41, oltre ad Euro 7.875,98 nei soli confronti di U.M., concesso dal Tribunale di Bologna su istanza della Banca Monte dei Paschi di Siena s.p.a. contro i fideiussori della United Klima Technologies s.r.l., dopo che la banca era receduta dai rapporti di affidamento, concessi alla società.

Ha ritenuto la corte territoriale, per quanto ancora rileva che: a) il recesso operato dalla banca, con riguardo al rapporto di apertura di credito in essere con la società, fosse illegittimo per la circostanza emergente dalla relazione del curatore L. Fall., ex art. 33, depositata in appello, ma ammissibile in quanto documento indispensabile per la decisione – che la debitrice “non aveva mai sconfinato dal fido”, come del resto dalla banca non contestato, restando invece del tutto irrilevanti gli indici di inaffidabilità evidenziati dalla creditrice, quale, in particolare, l’emissione di ricevute bancarie in assenza di rapporto contrattuale sottostante, fatto che non costituisce un abusivo ricorso al credito e che resta irrilevante nei rapporti fra le parti, anche perchè la banca è comunque “tutelata” dal carattere irrevocabile del mandato all’incasso e dalla garanzia del cd. salvo buon fine; b) il credito della banca è provato mediante gli estratti conto, che però, nonostante il rapporto risalga alla data dell’8 marzo 2001, sono stati prodotti solo dal 1 marzo 2002, quindi nessun credito può essere riconosciuto; c) restano assorbiti i motivi degli appellanti concernenti il preteso addebito di interessi ultralegali, commissioni di massimo scoperto e capitalizzazione trimestrale.

Per la cassazione di tale sentenza ricorre la banca, sulla base di sei motivi.

Resistono gli intimati con controricorsi.

Le parti hanno depositato la memoria.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. – I motivi di ricorso possono essere così riassunti:

1) omesso esame di fatti decisivi, concernenti l’esistenza di vari indici di inaffidabilità della debitrice principale, accanto a quello, ritenuto come unico e insufficiente dalla corte territoriale, dell’avvenuta emissione di due ricevute bancarie (ri.ba.) non corrispondenti ad un effettivo credito nei confronti della medesima: invero, non occorreva una giusta causa per il recesso, dato che l’art. 6 del contratto di conto corrente prevede la facoltà per l’istituto di recedere dall’apertura di credito, con preavviso convenzionale di due giorni, ma tale giusta causa comunque esisteva ed era stata sin dall’inizio allegata dalla banca, che aveva evidenziato il saldo passivo costantemente in peggioramento, le partite quasi tutte di segno negativo, l’esistenza di tre effetti ritirati ed uno insoluto; tutti elementi idonei a far insorgere dubbi sulla solvibilità della correntista ed atti, quindi, a fondare il diritto di recesso; a ciò, si era aggiunto l’ulteriore elemento delle due ri.ba. non supportate da un rapporto contrattuale sottostante, ma la corte del merito ha preso in considerazione (erroneamente disattendendone la gravità) solo quest’ultimo;

2) omesso esame di fatto decisivo, consistente nel parallelo conto corrente intestato a Bu.Mo., il quale palesava un saldo costantemente scoperto, nonostante l’assenza di qualsiasi rapporto di affidamento e la mancanza dei fondi necessari al rimborso di un finanziamento concessole: ma la corte territoriale ha addirittura omesso qualunque esame del conto corrente in questione;

3) violazione e falsa applicazione degli artt. 1703,1813 e 1842 c.c., per avere la corte territoriale ritenuto irrilevante la circostanza dell’emissione di ben due ricevute bancarie su credito inesistente da parte della debitrice principale, che pure aveva così ottenuto indebitamente le relative anticipazioni, pur trattandosi di mendacio bancario ex art. 137 t.u.b., dal momento che la società affermò fatti non veritieri per ottenere credito; ha errato, quindi, la sentenza impugnata a ritenere irrilevante tale grave condotta, per il solo fatto che la società non avesse ecceduto dall’affidamento, quando, invece, si sarebbe dovuta considerare la gravità di tale comportamento, atto a minare la fiducia della banca, indotta a concedere un credito ulteriore sulla base di dichiarazioni non veritiere; nè può dirsi, come sostiene la corte territoriale, che comunque la banca era “tutelata” dalla clausola del salvo buon fine, posto che anche le somme poste a disposizione della cliente mediante l’apertura di credito sempre dalla medesima banca provenivano;

4) violazione e falsa applicazione degli artt. 1321,1322,1373,1375 e 1845 c.c., per non avere la corte territoriale considerato come dal sistema normativo emerga, addirittura, la non necessità di una giusta causa per il recesso, dovendo unicamente essere rispettato il termine pattuito per il preavviso: anzi, la corte del merito, dapprima, ha convenuto sulla non necessità di una giusta causa, salvo poi negarne l’esistenza, pretendendo a tal fine la prova della commissione di illeciti da parte della correntista: era, invece, onere di questa provare la totale irragionevolezza della banca e dimostrare la propria perdurante garanzia patrimoniale, avendo cagionato un pregiudizio economico alla finanziatrice e la sfiducia nella propria correttezza; anche quanto al conto corrente individuale, analoghe considerazioni sono svolte nel motivo;

5) violazione degli artt. 24 e 111 Cost., in quanto la corte territoriale si è espressa anche sul quantum del credito, pur dopo avere ritenuto il recesso inefficace, in tal modo restando precluso l’esame dell’ammontare del credito, che risulta una mera pronuncia resa ad abundantiam;

6) violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., artt. 112,115,342 c.p.c., in via subordinata all’accoglimento del quinto motivo, perchè il tribunale aveva rilevato la mancata contestazione del credito ad opera degli opponenti, e gli appellanti non avevano al riguardo formulato un motivo di appello specifico, nè avevano mosso alcuno specifico rilievo alle voci di credito, limitandosi a sollevare generici dubbi circa la “tenuta della contabilità” della banca: pertanto, la corte d’appello, da un lato, ha obliterato la non contestazione, nonostante la completa aspecificità dell’impugnazione al riguardo, pretendendo una diversa prova del credito della banca; dall’altro lato, ha introdotto d’ufficio una doglianza diversa, relativa al periodo di copertura degli estratti conto prodotti dalla banca, mai sollevata da controparte.

2. – Il ricorso pone, nei suoi motivi primo, terzo e quarto – che, dunque, conviene anzitutto trattare – la questione del recesso dal rapporto di apertura di credito e del sindacato giudiziale sull’esercizio di tale facoltà da parte dell’istituto di credito.

2.1. – Importanti principi, da cui non vi è ragione di discostarsi, sono stati già affermati da questa Corte al riguardo.

L’art. 1845 c.c., in tema di recesso dall’apertura di credito bancario, prevede che, salvo patto contrario, la banca non possa recedere dal contratto prima della scadenza del termine se non per giusta causa; ove l’apertura di credito sia a tempo indeterminato, ciascuna delle parti può recedere dal contratto, mediante preavviso nel termine stabilito dal contratto, dagli usi o, in mancanza, in quello di quindici giorni.

La norma ammette il patto contrario, per definizione quindi lecito, con il quale le parti concordino la facoltà di recesso, anche nel contratto a tempo determinato, senza giusta causa.

Nel presente giudizio, l’assunto delle parti in causa è che questa fosse l’evenienza nel caso di specie, ed infatti la stessa sentenza impugnata riferisce come, nei contratti conclusi fra le parti, non fosse prevista una giusta causa di recesso, ma solo il termine di preavviso, e che esso fu del tutto rispettato.

Ciò posto, così come per tutti i diritti e le facoltà previsti dalla legge o dal contratto, la clausola generale della buona fede esige l’esercizio leale del diritto di recesso, che deve essere posto in essere senza che nessuna condotta abusiva, o tale da pregiudicare ingiustificatamente gli interessi dell’altro contraente, venga realizzata, ai sensi degli artt. 1175,1375 c.c.; tali clausole generali hanno, com’è noto, il loro substrato ultimo nella Carta costituzionale (artt. 2,3,41 Cost.); come tali, esse trovano dunque senz’altro applicazione anche nei rapporti bancari.

A questo riguardo, è stato enunciato dalla S.C. l’importante principio secondo cui, pur in presenza di un diritto di recesso in capo alla banca in costanza di rapporto di apertura di credito bancario, la relativa situazione giuridica soggettiva va esercitata non solo nel rispetto delle regole di legge e di contratto, ma anche secondo una condotta che non trasmodi nell’abuso del diritto, imponendo cioè a controparte un ingiustificato sacrificio delle proprie ragioni: come quando, a fronte di fatti solo pretestuosamente allegati o non rispondenti al vero o ai reali interessi della banca, questa provveda in modo arbitrario e scorretto alla revoca degli affidamenti, recedendo dal rapporto di apertura di credito (cfr. Cass. 24 agosto 2016, n. 17291; Cass. 14 luglio 2000, n. 9321; Cass. 21 maggio 1997, n. 4538).

In tal senso, si è dunque precisato che, pur quando la legittimità dell’esercizio del diritto di recesso da parte della banca non possa essere messa in discussione sotto il profilo dell’inesistenza di un’eventuale giusta causa, che non sia richiesta, tuttavia il modo di esercizio del diritto potestativo di recesso da parte della banca non resta del tutto insindacabile: perchè “(r)esta pur sempre da rispettare il fondamentale principio dell’esecuzione dei contratti secondo buona fede (art. 1375 c.c.), alla stregua del quale non può escludersi che, anche se pattiziamente consentito in difetto di giusta causa, il recesso di una banca dal rapporto di apertura di credito sia da considerare illegittimo, ove in concreto esso assuma connotati del tutto imprevisti ed arbitrari; connotati tali, cioè, da contrastare con la ragionevole aspettativa di chi, in base ai comportamenti usualmente tenuti dalla banca ed all’assoluta normalità commerciale dei rapporti in atto, abbia fatto conto di poter disporre della provvista creditizia per il tempo previsto, e non potrebbe perciò pretendersi sia pronto in qualsiasi momento alla restituzione delle somme utilizzate, se non a patto di svuotare le ragioni stesse per le quali un’apertura di credito viene normalmente convenuta” (così, in motiv., Cass. 21 maggio 1997, n. 4538)

Quindi, si è reputato giustificato il recesso, quando vi fossero condotte, poste in essere dal cliente, idonee ad incrinare la fiducia nei successivi adempimenti ai propri obblighi: come nel caso dell’esistenza di concreti segni di affievolimento della credibilità commerciale della debitrice, consistenti nella richiesta di proroga di due ricevute bancarie, nel mancato pagamento alla scadenza di un’altra ricevuta e nella lettera di un cliente, che aveva rifiutato di onorare un’ulteriore ricevuta bancaria emessa, negando che vi fosse stata la relativa fornitura (così Cass. 21 maggio 1997, n. 4538); mentre si è ritenuto contrario a buona fede il recesso, allorchè la sola allegazione della banca consisteva nell’avere il debitore e il garante compiuto atti di disposizione del proprio patrimonio, sì da diminuire la garanzia del credito, ma senza che tale inidoneità patrimoniale fosse provata in nessun modo, ed anzi in presenza, da parte del debitore principale, dell’analitica specificazione dei cespiti oggetto del patrimonio, suo e dei fideiussori e della consistenza di tali beni, posti a presidio degli obblighi assunti e senza che neppure fosse stata richiesta dalla banca, nel caso che del loro valore si dubitasse, di una c.t.u., volta all’apprezzamento degli stessi (Cass. 24 agosto 2016, n. 17291).

In sostanza, occorre dunque osservare che è da considerare legittimo il recesso dal rapporto di apertura di credito bancario, in presenza di uno scarso grado di solvibilità del cliente, dal momento che, in tale tipo di rapporti, è proprio questo parametro ad orientare le scelte della banca circa il mantenimento o la revoca degli accreditamenti concessi anche con effetto immediato (Cass. 21 maggio 1997, n. 4538) e che la banca, per esercitare il suo diritto di recesso, non deve dimostrare che sussista un vero e proprio stato di insolvenza dei debitori, in quanto allora si richiederebbe ad essa, irragionevolmente, di recuperare il proprio credito quando questo sia divenuto addirittura irrecuperabile (Cass. 24 agosto 2016, n. 17291).

In definitiva, il recesso dal rapporto di apertura di credito con la richiesta di restituzione dell’importo finanziato e la sospensione di ulteriore credito, da parte della banca, è lecito quando la decisione sia rispettosa della disciplina legale e convenzionale, nè essa sia censurabile alla stregua del generale principio della buona fede, in quanto non risulti integrata la pretestuosità delle motivazioni dall’istituto addotte.

2.2. – Ne deriva che grava sulla parte, la quale assume l’illegittimità del recesso per arbitrarietà e contrarietà al principio di buona fede, l’onere di enunciarne le ragioni e di fornire la relativa prova (cfr. Cass. 7 marzo 2008, n. 6186; Cass. 11 gennaio 2006 n. 394), dovendo il debitore, il quale agisca per far dichiarare arbitrario l’atto di recesso di una banca dal rapporto di affidamento di credito per violazione della buona fede, dedurre e provare che le giustificazioni date dalla banca non risultino ragionevoli (Cass. 24 agosto 2016, n. 17291).

A fronte dell’esercizio del diritto di recesso attribuito dalla legge o dal contratto, è onere dunque della controparte – la quale alleghi la violazione della clausola della buona fede e correttezza nei rapporti interprivati – provare l’integrazione della fattispecie abusiva.

Tale prova sarà tanto più ardua, quando più il recesso sia motivato sulla base di comportamenti della stessa cliente, di terzi destinatari di fatture emesse dalla medesima società in ipotesi di sconto bancario, oppure addirittura di inesistenza di terzi debitori in presenza di ricevute bancarie illegittimamente emesse dalla stessa correntista, così come in presenza di altre condotte similari, specie a fronte della rilavante entità del credito concessole: circostanze, dunque, che, secondo l’id quod plerumque accidit, siano tali da far insorgere dubbi in ordine alla solvibilità del correntista. In un rapporto come quello di apertura del credito bancario in conto corrente, invero, è proprio il grado di solvibilità del cliente ad orientare legittimamente le scelte della banca circa il mantenimento o la revoca degli accreditamenti concessi, a fronte di comportamenti e circostanze tali da legittimare, secondo le regole degli affari, l’allarme dell’istituto di credito sulla solvibilità del cliente, e, quindi, da giustificare la legittima revoca degli affidamenti.

Resta da aggiungere che, trattandosi di violazione della regola della buona fede in executivis, l’integrazione della fattispecie del diritto di recesso e l’esercizio dello stesso sono in sè idonei a por fine al rapporto, mentre l’inadempimento a tale fondamentale canone comporterà unicamente conseguenze di tipo risarcitorio a carico della banca, che la regola abbia violato.

2.3. – Nel caso di specie, la corte territoriale non ha fatto corretta applicazione di questi principi.

Tra le situazioni concrete, allegate dalla banca, vi erano quelle dell’esistenza di un saldo passivo, costantemente in peggioramento; di partite sul conto costantemente a debito; dell’esistenza di tre effetti ritirati e di un effetto insoluto; della emissione di due ricevute bancarie, non corrispondenti a nessun reale credito nei confronti della correntista, che non era affatto titolare di diritti verso quei pretesi debitori, tanto da non poter validamente ed efficacemente conferire alla banca nessun mandato all’incasso di crediti inesistenti.

Le prime tre vicende non sono state neppure esaminate dalla corte del merito, pur essendo decisive; la quarta è stata disattesa, mediante un ragionamento errato in diritto.

Ed invero, non è corretto, ai fini di una compromissione del rapporto di fiducia della banca nei confronti della correttezza del cliente e nei suoi futuri adempimenti, escludere già in tesi il rilievo dell’emissione di ricevute bancarie false – ossia non rispondenti ad effettivi rapporti sottostanti con i terzi, e, dunque, all’evidenza emesse al solo scopo di ottenere dalla banca il relativo credito – solo per la ragione che il cliente, responsabile di tale condotta, non abbia ecceduto dal credito concesso.

Con la ricevuta bancaria, non riconducibile alla categoria dei titoli di credito, il creditore redige una dichiarazione scritta, a sua firma, ricevendo dalla banca la somma di denaro a saldo di una data fattura, che la banca stessa poi procederà a riscuotere, quale mandataria in rem propriam: ne deriva che la finanziatrice, dunque, anticipa l’importo del credito, sicchè l’operazione realizza, al tempo stesso, una diversa modalità di incasso del credito e una funzione di finanziamento (Cass. 5 luglio 2007, n. 15225; Cass. 22 marzo 2001, n. 4085; Cass. 5 ottobre 2000, n. 13278; Cass. 20 maggio 1999, n. 4908; Cass. 6 febbraio 1999, n. 1041; Cass. 18 maggio 1996, n. 4614; Cass. 6 agosto 1994, n. 7313).

Proprio in quanto non si tratta di un titolo di credito, la veridicità della relativa dichiarazione assume importanza decisiva, difettando tale strumento dei requisiti, coessenziali ai titoli di credito, della letteralità, dell’autonomia, dell’incorporazione del diritto nel titolo e della destinazione alla circolazione, onde la fiducia nel soggetto che la emette deve essere particolarmente pregnante, ed essa viene delusa, quando la dichiarazione sia menzognera.

Nè tale grave condotta è suscettibile di divenire irrilevante, per la mera esistenza di prelievi entro gli affidamenti o perchè le ri.ba. vengono pagate “salvo buon fine”: trattandosi, infatti, di un ulteriore credito concesso dalla banca, anche se i patti prevedono usualmente tale clausola, essa non ha altro effetto che quello di comportare un recupero, da parte della banca, della somma anticipata inopinatamente, mediante riaddebito sul conto.

Ma si tratta, come la ricorrente osserva, di mere poste contabili, almeno sino a quando la correntista affidata non rientri della propria esposizione: con serio aggravio, in definitiva, della situazione di sofferenza del credito (come dimostrato, nella specie, dal fallimento della debitrice principale): ancor più grave, in quanto non risultante dall’inadempimento della pretesa terza debitrice, ma, secondo una situazione idonea a generare ben altro allarme nell’istituto finanziatore, addirittura dell’inesistenza della terza debitrice, in virtù della condotta di mala fede della correntista, che le ricevute bancarie abbia presentato.

Nella specie, dunque, la corte bolognese non si è conformata a tali principi, incorrendo in violazione di legge ed omesso esame di fatti decisivi, laddove ha reputato tout court illegittimo il recesso della banca: sia perchè ha trascurato il diritto positivo, che all’art. 1845 c.c., delinea la facoltà di recesso, così come interpretato dal diritto vivente; sia perchè ha omesso l’esame di condotte decisive del cliente, allegate dalla finanziatrice; sia perchè ha indebitamente sottovalutato il peso della condotta menzognera e di artificiale formazione delle ricevute bancarie, ed ha giustificato contra legem tale sottovalutazione con la tesi dell’omesso eccesso dal fido, evento al riguardo anodino; sia perchè ha del tutto omesso di motivare con riguardo al parallelo rapporto di conto corrente, del pari in sofferenza, in capo ad uno dei fideiussori; sia perchè non ha inteso, di conseguenza, considerare tali condotte nel loro complesso; sia, infine, in quanto ha considerato, nel prefato sistema normativo, come fatto decisivo nella questione controversa – tanto da ammetterne la documentazione relativa come “indispensabile” ex art. 345 c.p.c., vigente ratione temporis – il mancato superamento dei limiti del fido, che era solo uno dei tanti elementi da valutare.

3. – Il secondo motivo è del pari fondato, non avendo la corte territoriale neppure esaminato il parallelo rapporto di conto corrente intestato a Bu.Mo., per il quale pure era stato emesso il decreto ingiuntivo, però dalla sentenza impugnata in toto revocato.

4. – I motivi quinto e sesto restano assorbiti.

5. – La sentenza impugnata deve pertanto essere cassata e la causa rinviata innanzi alla Corte d’appello di Bologna, in diversa composizione, perchè faccia applicazione dei principi esposti, valutando il materiale istruttorio, ai fini del recesso della banca dai rapporti in essere. Alla corte del merito si demanda pure la liquidazione delle spese di legittimità.

P.Q.M.

La Corte accoglie il motivi dal primo al quarto, assorbiti gli altri; cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa innanzi alla Corte d’appello di Bologna, in diversa composizione, cui demanda pure la liquidazione delle spese di legittimità.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 12 gennaio 2021.

Depositato in Cancelleria il 16 aprile 2021

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