Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 10114 del 21/04/2017


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Cassazione civile, sez. trib., 21/04/2017, (ud. 03/04/2017, dep.21/04/2017),  n. 10114

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BIELLI Stefano – Presidente –

Dott. CAIAZZO Rosario – Consigliere –

Dott. FUOCHI TINARELLI Giuseppe – Consigliere –

Dott. PERRINO Angelina Maria – rel. Consigliere –

Dott. ROSSETTI Marco – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 12453 del ruolo generale dell’anno 2012,

proposto da:

s.r.l. RIMAR, in persona del legale rappresentante pro tempore,

rappresentato e difeso, giusta procura speciale a margine del

ricorso, dagli avvocati Tosi Loris e Giuseppe Marini, elettivamente

domiciliatosi presso lo studio del secondo in Roma, alla via dei

Monti Parioli, n. 48;

– ricorrente –

contro

Agenzia delle entrate, in persona del direttore pro tempore,

rappresentato e difeso dall’avvocatura dello Stato, presso gli

uffici della quale in Roma, alla via dei Portoghesi, n. 12,

domicilia;

– controricorrente –

e nei confronti di:

Agenzia delle entrate, Direzione provinciale di Padova, in persona

del direttore pro tempore;

– intimata –

per la cassazione della sentenza della Commissione tributaria

regionale del Veneto, sezione 16^, depositata in data 25 gennaio

2012, n. 3/16/12;

udita la relazione sulla causa svolta alla pubblica udienza in data 3

aprile 2017;

udito il pubblico ministero, in persona del sostituto procuratore

generale DE AUGUSTINIS Umberto, che ha concluso per il rigetto del

ricorso;

udito per l’Agenzia delle entrate l’avvocato dello Stato Gianna

Galluzzo.

Fatto

FATTI DI CAUSA

La società ricevette notificazione di un avviso di accertamento col quale, per quanto ancora d’interesse, l’Agenzia delle entrate recuperava l’imposta sul valore aggiunto relativa a fatture concernenti cessioni intracomunitarie che la contribuente aveva emesso nei confronti della Eurocom elettronica in relazione a beni destinati ad un acquirente greco e disconosceva detrazioni ritenute indebite, nonchè, in relazione ad irap ed irpeg, contestava, perchè considerata indebita, la deduzione di perdite su crediti. Il relativo ricorso proposto dalla contribuente fu respinto dalla Commissione tributaria provinciale, laddove quella regionale ha parzialmente accolto l’appello, relativamente a profilo diverso da quelli testè enunciati. In particolare, il giudice d’appello ha escluso l’applicabilità del regime di non imponibilità alle cessioni di merce dirette all’acquirente greco, per mancanza di prova del trasporto o della spedizione della merce a costui ed ha escluso altresì la sussistenza della buona fede da parte della contribuente, che non ha dato prova di aver adottato alcuna delle misure da essa esigibili per verificare il buon esito delle operazioni. La Commissione ha specificato che irrilevante è l’adesione della società al condono tombale ed ha aggiunto, quanto all’irpeg ed all’irap, che illegittima è la deducibilità dei costi dell’attività di autonoleggio, perchè gestita in modo antieconomico e ad esclusivo beneficio dei soci e dei loro familiari, nonchè che legittimo è l’operato dell’Ufficio, che ha imputato la perdita su crediti all’anno 2001, in cui è stato dichiarato il fallimento della debitrice (OMISSIS) s.a.s. Infine, ha escluso la fondatezza del denunciato vizio di motivazione dell’avviso di accertamento ed ha riconosciuto la piena legittimità delle sanzioni irrogate.

Contro questa sentenza la contribuente propone ricorso per ottenerne la cassazione, che affida a quindici motivi ed illustra con memoria, cui la sede centrale dell’Agenzia replica con controricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1.- Col decimo, l’undecimo, il dodicesimo, il tredicesimo ed il quattordicesimo motivo, che vanno esaminati preliminarmente, perchè logicamente prodromici ed insieme, perchè connessi, la società si duole:

– ex art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, della violazione del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 56, nonchè dell’omessa motivazione in ordine all’insufficienza della motivazione dell’avviso, sottolineando che l’Agenzia ha mutato prospettazione rispetto a quanto emergeva dal processo verbale di constatazione, il quale dava conto del fatto che sconosciuto non fosse l’acquirente greco, bensì l’addetto al trasporto, sempre greco e che si è riferita nell’avviso alla ditta greca Arapis Dimitr Menippos anzichè alla Arapes Demetr Menippos, menzionata nella documentazione relativa alle triangolazioni (decimo motivo);

– ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, della violazione della L. n. 212 del 2000, art. 7 al D.P.R. n. 633 del 1972, art. 56 e della L. n. 241 del 1990, art. 3 e del difetto assoluto di motivazione, lamentando che il giudice d’appello non abbia spiegato le ragioni per le quali ha ritenuto che la merce non fosse arrivata a destinazione (undecimo motivo); – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, della violazione dellza L. n. 212 del 2000, art. 7 per la presunta mancanza di allegazione di atti istruttori (dodicesimo motivo);

– ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, della violazione e falsa applicazione della L. n. 212 del 2000, art. 12 e dei relativi profili di omessa motivazione, perchè l’Ufficio ha mosso accuse che non si sono formate nel corso della verifica (tredicesimo motivo);

– ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, dell’omessa pronuncia sulla violazione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 63 per il presunto illegittimo utilizzo di dati notizie e dichiarazioni raccolti in sede penale (quattordicesimo motivo).

La complessiva censura è in parte inammissibile ed in parte infondata.

Essa è inammissibile, là dove propone in maniera meramente ipotetica e comunque perplessa il sospetto che l’avviso di accertamento si sia basato su attività istruttoria ignorata dalla contribuente, in quanto, giustappunto perchè formulata in termini dubitativi, è priva di decisività; profilo d’inammissibilità, questo, che risalta viepiù nel quattordicesimo motivo, in cui il sospetto giunge alla formulazione di un vizio di omessa pronuncia sul “dubbio” che la contestazione trovi “fondamento su istruttorie condotte da organi operanti in qualità di polizia giudiziaria”.

La censura è inoltre infondata, là dove contesta lo sviluppo degli argomenti posti a sostegno dell’avviso, trattandosi di profili concernenti non già il piano dell’allegazione, cui pertiene il difetto di motivazione, bensì quello della fondatezza della pretesa, così come motivata.

2.- Col primo, col secondo, col terzo, col quarto e col quinto motivo, da esaminare congiuntamente perchè connessi, la società lamenta che:

– non possa essere escluso il regime di non imponibilità iva di operazioni di triangolazione intracomunitaria volute e rappresentate come destinate ad acquirenti greci, in tal modo deducendo la violazione e falsa applicazione del D.L. n. 331 del 1993, art. 58 ma accorpandovi vizio di motivazione, benchè non rubricato (primo motivo);

– posto che le triangolazioni erano preordinate sin dall’origine al trasporto delle merci in Grecia, vi sia difetto assoluto di prova in ordine alla supposta mancata fuoriuscita delle merci dal territorio dello Stato, il che si riverbererebbe sulla violazione e falsa applicazione del D.L. n. 331 del 1993, art. 58 e del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, comma 2 (secondo motivo);

– sia omessa o insufficiente la motivazione circa il fatto della movimentazione delle merci attraverso l’allegazione delle lettere di vettura internazionali corredate di timbri e firme delle ditte greche nonchè attraverso l’allegazione delle fatture degli autotrasportatori a carico dei primi cessionari nazionali (terzo motivo);

– il giudice d’appello abbia violato il principio di buona fede elaborato in ambito comunitario in favore del primo fornitore nazionale che sin dall’origine ha voluto e rappresentato documentalmente triangolazioni comunitarie non imponibili (quarto motivo);

– sia omessa o contraddittoria la motivazione circa l’attivazione della società (quinto motivo).

In sintesi, secondo la società il fatto che le cessioni siano state sin dall’origine ideate come destinate ad acquirenti greci comporterebbe di per sè l’applicazione del regime di non imponibilità, soprattutto in considerazione del fatto che manca la prova che i beni non siano usciti dal territorio nazionale e che la prima fornitrice riteneva in base ai documenti di trasporto di aver spedito la propria merce in un altro Stato membro; a tanto aggiunge, in fatto, gli argomenti sunteggiati nell’esposizione del terzo e del quinto motivo.

La complessiva censura è infondata.

2.1.- Come questa Corte ha già avuto più occasioni di osservare (Cass. 24 luglio 2015, n. 15639; 29 luglio 2016, n. 15871), per costante giurisprudenza unionale il regime di non imponibilità della cessione intracomunitaria di un bene diviene applicabile solo quando il potere di disporre di tale bene come proprietario è stato trasmesso all’acquirente, il fornitore prova che tale bene è stato spedito o trasportato in un altro Stato membro e, in seguito a tale spedizione o trasporto, esso ha lasciato fisicamente il territorio dello Stato membro di cessione (Corte giust. 6 settembre 2012, causa C-273/11, Mecsek-Gabona kft, che la stessa società cita in memoria, punto 31; 16 dicembre 2010, causa C-430/09, Euro Tyre Holding; 27 settembre 2007, causa C409/04, Teleos plc, punto 41). Ciò in quanto, la Corte aveva già precisato, a seguito dell’abolizione del controllo alle frontiere fra gli Stati membri, è divenuto difficile per le autorità tributarie verificare se le merci abbiano, o no, lasciato fisicamente il territorio dello Stato di cessione, di guisa che la verifica rimane in definitiva affidata Mie prove fornite dai soggetti passivi ed alle dichiarazioni di questi ultimi (Corte giust. 6 settembre 2012, causa C-273/11, cit., punto 35). Il che spoglia di rilevanza la circostanza, dedotta in ricorso e sulla quale la contribuente si trattiene in memoria, concernente la propria estraneità a frodi compiute dai primi cessionari nazionali, che si rivela privo d’influenza giustappunto in ragione del carattere obiettivo illustrato.

In sintesi, il fatto che la merce fisicamente lasci i confini dello Stato nazionale è uno dei presupposti sostanziali per l’applicazione del regime di non imponibilità, la prova del quale incombe, secondo i principi generali, su chi ne invochi l’applicazione, ossia, appunto, sulla società.

Un’immediata, prima, conseguenza è che, nel caso in esame, la censura concernente la mancanza di prova della circostanza che le merci non fossero uscite dal territorio nazionale non può, già in tesi, che riverberarsi, ex art. 2697 c.c., in danno del soggetto che è onerato di fornire la prova che le merci fossero in realtà uscite, ossia, appunto, sulla contribuente.

Quanto, poi, alle deduzioni riguardanti la prova fornita dalla società relativamente all’arrivo a destinazione delle merci, secondo la ricorrente indebitamente trascurata dal giudice d’appello, va premesso che del tutto irrilevanti, in base alla stessa prospettazione del ricorso, sono le circostanze dedotte a proposito delle triangolazioni risalenti al 2001. Ciò in quanto la stessa società riferisce che “il rilievo n. 2, riguardante analoghe contestazioni circa le triangolazioni comunitarie poste in essere nel 2001, è stato invece giustamente annullato…” per altra ragione, concernente la determinazione del plafond, di modo che la materia giustiziabile è rimasta circoscritta al “…rilievo n. 1 in materia di Iva per il periodo d’imposta 2002”. Ma nel periodo 2002, sempre in base alla ricostruzione fornita in ricorso, rilevano le sole operazioni di triangolazione avvenute “…tra la Rimax Spa (fornitore nazionale), la Eurocom Elettronica Srl (acquirente nazionale) e la ditta Arapes Demetr Menippos (destinatario finale delle merci”; sono per conseguenza irrilevanti le considerazioni riguardanti l’altro acquirente greco, che, deduce la società, è tuttora attivo, ma che è coinvolto nelle triangolazioni del 2001, nonchè quelle concernenti le ulteriori triangolazioni che hanno riguardato la ditta Arapes, ma pur sempre nel 2001.

Entro questa cornice, la censura proposta è destinata ad infrangersi contro l’accertamento contenuto nella sentenza impugnata, il quale segnala come decisiva al fine di escludere la fuoriuscita dei beni dal territorio dello Stato la circostanza che l’operatore greco “…risultava non più esistente, avendo cessato l’attività ed essendo venuta meno la connessa titolarità di partita iva alla fine dell’anno precedente”.

2.2.- Irrilevanti già potenzialmente a scardinare quest’accertamento sono le osservazioni riguardanti la produzione delle lettere di vettura internazionale corredate dei timbri e delle firme delle cessionarie greche, che, come riferito in ricorso, si limitavano “…a mettere in luce che l’autotrasportatore si impegnava a consegnare la merce a Kallithea-Grecia”; laddove generica e priva di autosufficienza è la successiva deduzione secondo cui “…le lettere di vettura internazionale depositate in giudizio, infatti, sono tutte corredate dei timbri e delle firme delle ditte greche destinatarie finali dei beni”, perchè non si specifica se tra queste ditte greche vi fosse anche quella alla quale si riferisce il giudice d’appello e, poi, non si trascrive il punto del ricorso di primo grado in cui si è illustrata la circostanza e quello in appello in cui la si è riproposta.

Analoga sorte tocca alle ulteriori deduzioni riguardanti le fatture di vendita emesse, i bonifici relativi ai pagamenti delle transazioni commerciali tra la Rimax e la Eurocom Elettronica s.r.l. e le dichiarazioni Intrastat, che includono le triangolazioni oggetto di contestazione, elementi, tutti, già in tesi inidonei a documentare l’uscita dal territorio nazionale delle merci e la trasmissione del diritto di proprietà delle merci all’acquirente greco.

Parimenti ininfluente a minare l’accertamento concernente la cessazione di attività della ditta greca è la considerazione, meramente ipotetica, secondo cui “…la mancanza di validità della partita iva della Arapes Demetr Menippos alla fine del 2001 non significa che la ditta avesse cessato l’attività, giacchè, come ben sanno gli addetti ai lavori, la modifica della partita Iva ben può essere imputata a fenomeni che riguardano i soggetti, quali trasformazioni, fusioni o scissioni, e non è affatto indicativa della inesistenza del soggetto nell’ambito dei commerci internazionali”.

In definitiva, gli elementi di fatto invocati in ricorso non infirmano il fondamento su cui si regge la sentenza impugnata, ossia che la cessionaria greca alla quale il giudice d’appello si riferisce nel 2002 non esisteva più. Considerazioni, queste, che fanno giustizia anche del quinto motivo di ricorso, che ripropone i medesimi fatti sotto diversa angolazione.

3. – In questo contesto, la ricorrente non può vantare buona fede che le consenta comunque di fruire del regime di non imponibilità. Non se ne configurano difatti i presupposti, come fissati dalla giurisprudenza unionale, la quale all’uopo richiede che l’operatore economico non sia a conoscenza del fatto che in realtà non siano soddisfatte le condizioni legali per l’applicazione del regime, nè possa rendersene conto, pur facendo prova di tutta la diligenza di un commerciante avveduto (Corte giust. 21 febbraio 2008, causa C-271/06, Netto Supermarkt Gmbh, che, nel fissare questo principio, si riferiva ad una fattispecie in cui la buona fede emergeva da elementi qualificati, ossia dalla falsificazione della prova dell’esportazione presentata dall’acquirente).

3.1. – Neanche la più recente giurisprudenza, che, pure, si pone su una linea ancora più avanzata, riesce utile alla posizione della contribuente.

La Corte di giustizia, difatti, in un’ipotesi in cui il fornitore non aveva dimostrato l’autenticità della firma figurante sui documenti prodotti per corroborare la propria dichiarazione di cessione asseritamente non imponibile, ha sì affermato che l’amministrazione tributaria di uno Stato membro non può negare l’applicazione del regime in questione perchè l’acquirente non era identificato ai fini di tale imposta in un altro Stato membro, e la persona che aveva sottoscritto tali documenti in nome dell’acquirente non aveva facoltà di rappresentare quest’ultimo, ma l’ha fatto pur sempre con riferimento ad un caso in cui era ravvisabile l’incolpevole affidamento del contribuente. In quel caso, difatti, gli elementi che giustificavano l’applicabilità del regime di non imponibilità prodotti dal fornitore erano conformi all’elenco di documenti, stabilito dal diritto nazionale, da presentare alla suddetta amministrazione e, in un primo tempo, erano stati da quest’ultima considerati utili come prove giustificative (Corte giust. 9 ottobre 2014, causa C-492/13, Traum EOOD c. Direktor na Direktsia “Obzhalvane i danachno-osiguritelna praktika” Varna pri Tsentralno upravlenie na Natsionalnata agentsia za prihodite).

4.- In definitiva, nella giurisprudenza della Corte di giustizia, la buona fede è identificata con la buona fede in senso soggettivo, tutelabile, tuttavia, soltanto se ed in quanto scaturisca dalla condotta avveduta ed in quanto tale diligente. Condotta, la quale, come questa Corte ha chiarito con le pronunce dinanzi indicate, richiede che il soggetto attivo dello scambio dia impulso ad una apposita procedura di verifica, richiedendo al ministero la conferma della validità attuale del numero d’identificazione attribuito al cessionario; in assenza di tali adempimenti, legittimamente l’ufficio finanziario può ritenere che lo scambio abbia carattere nazionale e procedere al recupero dell’iva, restando onere del contribuente provare la sussistenza dei presupposti di fatto che giustificano la deroga al normale regime impositivo. E’ proprio la disciplina sulle cessioni intracomunitarie invocata in ricorso a dar corpo a quest’onere, segnatamente quella del D.L. n. 331 del 1993, art. 50 come convertito, là dove prevede che l’Ufficio, su richiesta dell’interessato, conferma la validità del numero identificativo attribuito al cessionario o committente da altro Stato membro, in tal modo disciplinando le modalità tramite le quali il cedente esercita il proprio controllo diligente.

5.- Infondato è altresì il sesto motivo di ricorso, col quale la contribuente si duole ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, della violazione del D.P.R. n. 633 del 1972, artt. 17, 18 e 19, sostenendo l’insussistenza di qualsivoglia danno erariale, perchè “…all’iva a debito dovuta dalla Rimax Spa sarebbe corrisposta un’Iva a credito” a favore degli acquirenti nazionali dei beni, con effetto neutrale per l’erario.

L’infondatezza discende dalla considerazione che, quanto all’iva a credito, la quale riguarda quella detraibile sugli acquisti, questa Corte (Cass. 15 luglio 2015, n. 14767) ha già avuto occasione di chiarire che il diritto di detrazione sorge sì nel momento stesso in cui diviene dovuta l’imposta da detrarre, ma, in quel momento, non si verifica l’automatica estinzione del debito d’imposta, sibbene, semplicemente, sorge in testa al cessionario il diritto di estinguere il debito esercitando il diritto di detrazione. Quest’ultimo è certamente un diritto potestativo, ma pur sempre occorre che sia esercitato.

Di qui la conseguenza che, per poter predicare neutralità per l’erario, sarebbe occorso dimostrare che l’acquirente avente causa da Rimax abbia assolto i propri obblighi formali di contabilità e di dichiarazione entro il termine previsto dal legislatore nazionale. E’ difatti con riguardo ad un caso in cui, pur mancando la dichiarazione annuale per il periodo di maturazione, un’eccedenza d’imposta risultava da dichiarazioni periodiche e regolari versamenti per un anno ed era stata dedotta entro il termine previsto per la presentazione della dichiarazione relativa al secondo anno successivo a quello in cui il diritto è sorto, che le sezioni unite di questa Corte (Cass., n. 17757/16) hanno stabilito che non può essere negato il diritto alla detrazione, se sia dimostrato in concreto, oppure non sia controverso, che si tratti di acquisti compiuti da un soggetto passivo d’imposta, assoggettati ad iva e finalizzati ad operazioni imponibili, va riconosciuta dal giudice tributario se il contribuente abbia rispettato tutti i requisiti sostanziali per la detrazione.

6.- Infondato è il settimo motivo di ricorso, col quale la società deduce la violazione e falsa applicazione della L. n. 289 del 2002, art. 9 avendo essa aderito al condono tombale per l’anno 2001. Anche indipendentemente dai profili in fatto, relativi alla circostanza che, come già sottolineato, la sentenza impugnata ha riguardo al solo anno d’imposta 2002, va anche in questo caso ribadito che la Corte di giustizia, grande sezione, con la sentenza 17 luglio 2008, causa C-132/06, che specificamente investe la L. n. 289 del 2002, art. 9 ha considerato che le somme dovute in forza di tale condono sono sproporzionate rispetto all’importo che il soggetto avrebbe dovuto versare sulla base del volume di affari risultante dalle operazioni da lui compiute, ma non dichiarate, di guisa che lo squilibrio significativo esistente tra gli importi effettivamente dovuti e quelli corrisposti dai contribuenti che intendono beneficiare della definizione agevolata in questione conduce ad una quasi-esenzione fiscale. Sono in tal modo svuotate di contenuto, ha proseguito la Corte di giustizia, le disposizioni comunitarie (ossia gli articoli 2 e 22 della cosiddetta sesta direttiva iva e l’art. 10 del Trattato Ce), che fanno obbligo ad ogni Stato membro di adottare tutte le misure legislative ed amministrative, al fine di garantire che questa imposta sia interamente riscossa nel suo territorio. Non solo: la Corte di giustizia ha rimarcato che la legislazione italiana produce, nella misura in cui i contribuenti colpevoli di frode risultano favoriti dalla L. n. 289 del 2002, un effetto contrario alla lotta contro la frode, che rappresenta un obiettivo riconosciuto e promosso dalla sesta direttiva (su quest’ultimo punto, vedi anche le sentenze della Corte di giustizia 21 febbraio 2006, causa C-255/02, Halifax, e 22 maggio 2008, causa C-162/07, Ampliscientifica e Amplifin). In linea con questo principio, questa Corte ha più volte disapplicato la L. n. 289 del 2002, art. 9 nella parte in cui consente al contribuente, che abbia omesso di presentare le dichiarazioni IVA negli esercizi d’imposta coinvolti dal condono, di fruire per questa imposta della definizione agevolata (vedi, tra varie, Cass. 7 febbraio 2013, n. 2915).

8.- Infondato è l’ottavo motivo di ricorso, proposto ex art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, col quale la società si duole della violazione degli artt. 84 e 109 Tuir, deducendo altresì l’omessa motivazione sui correlativi profili di fatto, là dove il giudice d’appello ha disconosciuto la deducibilità dei costi dell’attività di autonoleggio. Ciò perchè, al cospetto dell’accertamento in fatto concernente l’esclusione della natura imprenditoriale dell’attività di autonoleggio, perchè “…diretta a fornire un servizio personale ai soci stessi” ed ai loro familiari, la società allega circostanze, concernenti fatturazione e pagamento dei servizi in questione, senza allegare il punto del ricorso introduttivo in cui le ha dedotte ed il punto dell’appello in cui le ha riproposte e ne richiama altre, riguardanti l’erogazione dei servizi a soggetti diversi dai soci e dai familiari, limitandosi genericamente, e quindi in maniera non autosufficiente, ad affermare di averle segnalate nel ricorso e nell’atto di appello, dei quali non riporta i corrispondenti stralci.

Sicchè queste circostanze risultano nuove ed in quanto tali inidonee ad incidere sulla statuizione impugnata, in seno alla quale le considerazioni sull’antieconomicità sono mera conseguenza dell’esclusione della natura imprenditoriale. La novità delle deduzioni ridonda in infondatezza della contestazione, in quanto spetta al contribuente l’onere della prova sull’inerenza del bene o servizio acquistato all’attività imprenditoriale, vale a dire che si tratti di spesa che si riferisce ad attività da cui derivano ricavi o proventi che concorrono a formare il reddito di impresa, e sulla coerenza economica dei costi sostenuti nell’attività d’impresa (tra varie, Cass. 8 ottobre 2014, n. 21184; ord. 14 gennaio 2015, n. 403).

9.- Infondato è altresì il nono motivo di ricorso, col quale la società si duole ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, della violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 101, là dove il giudice d’appello ha negato la deducibilità delle perdite su crediti: sostpne sul punto la società che non vi sia ragione di escludere aprioristicamente certezza e determinabilità delle perdite in un anno successivo a quello in cui è stata dichiarato il fallimento della debitrice.

Al riguardo, conviene sottolineare che il D.P.R. n. 917 del 1986, art. 66, comma 3, nel testo applicabile all’epoca dei fatti, stabilisce che “…le perdite su crediti sono deducibili se risultano da elementi cereti e precisi e in ogni caso, per le perdite su crediti, se il debitore è assoggettato a procedure concorsuali”. Sul punto il giudice d’appello ha ritenuto che, a fronte del fallimento della debitrice risalente al 24 luglio 2001, non fosse giustificata la posticipazione al 2002 della contabilizzazione della perdita dei relativi crediti.

9.1.-Al cospetto di queste statuizioni, la censura è rimasta relegata a mere affermazioni di principio, non essendo sostenuta da alcun elemento idoneo ad evidenziare che la perdita dei crediti vantati nei confronti della debitrice fallita nel 2001 sia divenuta incontrovertibile soltanto nel 2002. Di contro, questa Corte ha chiarito che, in tema di imposte sui redditi dì impresa, grava sul contribuente l’onere di fornire la prova della deducibilità delle perdite su crediti ritenuti dal fisco indeducibili, dimostrando la natura di componenti negativi del reddito d’impresa, sulla base di elementi certi e precisi o, in alternativa, fornendo la prova dell’assoggettamento a procedure concorsuali (Cass. 14 gennaio 2015, n. 447).

10.- In parte inammissibile ed in parte infondato è, infine, l’ultimo motivo di ricorso, col quale la società si duole, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, della violazione del D.Lgs. n. 472 del 1997, artt. 5 e 12 e dell’art. 10 dello statuto dei diritti del contribuente.

Esso è inammissibile, là dove, pur censurando le modalità di calcolo, non si trascrive il provvedimento d’irrogazione della sanzione, in modo da consentire alla Corte di delibare la fondatezza delle critiche, nonchè là dove ci si duole del quantum, comunque compreso entro la forbice prevista dal legislatore: ciò in quanto ove la norma indichi un minimo e un massimo della sanzione, spetta al potere discrezionale del giudice determinarne l’entità entro questa forbice, allo scopo di commisurarla alla gravità del fatto concreto, globalmente desunta dai suoi elementi oggettivi e soggettivi, di modo che la Corte di cassazione non può censurare la statuizione adottata ove tali limiti siano stati rispettati (Cass. n. 9255/13; n. 2406/16).

Il motivo è poi infondato in relazione alla deduzione della mancanza dell’elemento soggettivo ed all’estraneità alle frodi, quanto alla pretesa sanzionatoria concernente l’iva, per le ragioni dinanzi indicate con riferimento alla relativa pretesa impositiva.

11.- Il ricorso va in conseguenza respinto e le spese seguono la soccombenza.

PQM

La Corte:

rigetta il ricorso e condanna la società al pagamento delle spese, liquidate in Euro 18.000,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.

Così deciso in Roma, il 3 aprile 2017.

Depositato in Cancelleria il 21 aprile 2017

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