Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 10095 del 28/05/2020

Cassazione civile sez. I, 28/05/2020, (ud. 07/01/2020, dep. 28/05/2020), n.10095

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE CHIARA Carlo – Presidente –

Dott. SCOTTI Umberto L. C. G. – rel. Consigliere –

Dott. TRICOMI Laura – Consigliere –

Dott. IOFRIDA Giulia – Consigliere –

Dott. NAZZICONE Loredana – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 5996/2019 proposto da:

W.Y., domiciliato in Roma, Piazza Cavour, presso la

Cancelleria civile della Corte di Cassazione e rappresentato e

difeso dall’avvocato Salvatore Centonze, in forza di procura

speciale a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

S.L.;

– intimato –

e contro

Comune di Bosco Chiesanuova, in persona del Sindaco pro tempore,

elettivamente domiciliato in Roma Via Alberto Caroncini 51 presso lo

studio dell’avvocato Alessandra Mari, che lo rappresenta e difende

unitamente all’avvocato Maria Luisa Tezza in forza di procura

speciale a margine del controricorso;

– controricorrente –

nonchè

D.B.F.A., domiciliato in Roma, Piazza Cavour, presso

la Cancelleria civile della Corte di Cassazione e rappresentato e

difeso dall’avvocato Salvatore Centonze in forza di procura speciale

a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

S.L.;

– intimato –

e contro

Comune di Bosco Chiesanuova, in persona del Sindaco pro tempore:,

elettivamente domiciliato in Roma Via Alberto Caroncini 51 presso lo

studio dell’avvocato Alessandra Mari, che lo rappresenta e difende

unitamente all’avvocato Maria Luisa Tezza, in forza di procura

speciale a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1070/2018 della CORTE D’APPELLO di LECCE,

depositata il 08/11/2018;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

07/01/2020 dal Consigliere Dott. UMBERTO LUIGI CESARE GIUSEPPE

SCOTTI;

uditi gli Avvocati SALVATORE CENTONZE e MARIA LUISA TEZZA;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CAPASSO Lucio, che ha concluso per il rigetto dei ricorsi.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Con distinti ricorsi D.Lgs. n. 286 del 1998, ex art. 44, D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 28 e art. 702 bis c.p.c., successivamente riuniti, notificati il 4/2/2019 al Comune di Bosco Chiesanuova e a S.L., B.F.A. e W.Y., hanno chiesto al Tribunale di Lecce di accertare la commissione di condotte discriminatorie nei confronti loro e dei loro familiari e il risarcimento dei danni subiti.

I ricorrenti, cittadini marocchini, hanno sostenuto di aver deciso di trasferirsi con la propria famiglia nel Comune di Bosco Chiesanuova (VR) spinti dal bisogno economico e dallo stato di disoccupazione, e di aver stipulato un contratto di locazione in data 10/1/2013 con i fratelli S.F., M., L. e D.; di aver richiesto in data 9/1/2013 l’iscrizione anagrafica nel predetto Comune; che il sig. S.L. aveva riferito di essere stato contattato personalmente dal Sindaco di Bosco Chiesanuova, che gli aveva detto di considerare “inammissibile” la presenza nel suo Comune di una famiglia in precarie condizioni economiche e bisognosa di prestazioni di assistenza da parte dei servizi sociali; che il sig. S. aveva manifestato l’intenzione di recedere dal contratto per rispettare la volontà del sindaco che aveva minacciato di “fargli la guerra” se non avesse rispettato le sue indicazioni; che alcuni di loro nel frattempo avevano trovato lavoro; che il trasferimento scolastico avrebbe cagionato disagi ai figli; che il 25/1/2013 avevano incontrato il sindaco Sa.Lu. (in realtà il vice-sindaco M.C. che aveva agito in sua sostituzione, come successivamente precisato), che si era detto contrario alla loro presenza perchè la loro famiglia era beneficiaria di sostegno di assistenza sociale nel Comune di provenienza che il Comune di Bosco Chiesanuova non era in grado di erogare per mancanza di risorse; che il Comune, pur di agevolare il ritorno al luogo di provenienza del loro nucleo familiare, si era dichiarato disposto a offrire un contributo alle spese sino a quel momento sostenute, che veniva anticipato nella somma di Euro 1.600,00 dal parroco; che a uno dei familiari, la sig.ra N., era stato chiesto di sottoscrivere una dichiarazione di aver l’intenzione di tornare a (OMISSIS) per i costi elevati di trasporto giornaliero e la situazione igienico sanitaria dell’immobile locato; che in data 25/1/2013 era stato risolto il contratto di locazione.

Si sono costituiti i resistenti Comune di Bosco Chiesanuova e S.L., chiedendo il rigetto del ricorso.

Con ordinanza del 3/2/2015 il Tribunale di Lecce ha rigettato le domande; il Tribunale ha ritenuto non documentata alcuna richiesta di aiuto economico o di alloggio, nè provata l’eventuale attività lavorativa giustificativa del trasferimento da (OMISSIS) a (OMISSIS); ha ritenuto che la pretesa discriminazione sarebbe dipesa solo dalla difficoltà di assicurare assistenza sociale a un nucleo familiare di almeno dieci componenti, di cui solo due di nazionalità marocchina; ha precisato che i due attori non avevano presentato alcuna istanza al Comune e non avevano preso parte ai colloqui, a cui invece era intervenuta N.S. di nazionalità italiana.

2. Avverso la predetta ordinanza di primo grado hanno proposto appello sia B.F.A., sia W.Y., a cui hanno resistito gli appellati.

La Corte di appello di Lecce con sentenza dell’8/11/2018 ha respinto il gravame, condannando gli appellanti al pagamento delle spese e ponendo a loro carico l’onere della consulenza tecnica esperita; ha altresì revocato la loro ammissione al patrocinio statuale D.P.R. n. 115 del 2002, ex art. 136.

Secondo la Corte leccese: la fattispecie doveva essere sussunta nell’ipotesi di cui del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 43, comma 1; gli appellanti erano decaduti dalla prova per interpello e i testi indicati erano incapaci di testimoniare; non vi era alcuna preclusione, nè alcun ostacolo processuale all’utilizzo delle registrazioni delle conversazioni fra la N., il vice sindaco e il S., contenute nei compact disks prodotti e oggetto di consulenza tecnica e genericamente disconosciute ex adverso; tuttavia tali registrazioni non fornivano prova delle condotte discriminatorie lamentate, poichè in esse non vi era riferimento alcuno a presupposti discriminatori, tantomeno razziali o di nazionalità; in esse il vice sindaco si era sempre riferito alle difficoltà economiche del Comune; gli stessi appellanti avevano allegato le loro difficoltà economiche.

3. Avverso la predetta sentenza dell’8/11/2018, notificata in data 4/12/2018, con distinti atti notificati il 4/2/2019 (lunedì) hanno proposto ricorso per cassazione B.F.A. e W.Y., svolgendo cinque motivi.

Con atti notificati il 12/3/2019 ha proposto controricorso il Comune di Bosco Chiesanuova chiedendo il rigetto delle avversarie impugnazioni.

L’intimato S.L. non si è costituito in giudizio.

I ricorrenti hanno depositato memoria ex art. 378 c.p.c..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo di ricorso, proposto ex art. 360 c.p.c., n. 3, i ricorrenti denunciano violazione o falsa applicazione di legge in relazione al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 43, comma 1, quanto alla nozione di condotta discriminatoria, erroneamente valutata dalla Corte di appello, senza tener conto della necessità di riferirsi a una nozione oggettiva di condotta.

1.1. La Corte di appello aveva escluso il carattere discriminatorio della condotta dei resistenti, poichè dalle conversazioni registrate e trascritte non emergeva alcun riferimento, neppure implicito ai fattori che connotano la discriminazione.

I ricorrenti osservano che il D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 43, comma 1, sanziona ogni comportamento che anche indirettamente comporti una distinzione, esclusione, restrizione o preferenza discriminatoria e ha accolto una nozione oggettiva di condotta discriminatoria che ne impone la valutazione sulla base degli effetti lesivi subiti dal soggetto passivo della condotta; rileva pertanto solo l’effetto pregiudizievole, non le intenzioni del soggetto agente ma piuttosto la percezione ricevuta dal soggetto che si assume vittima della discriminazione.

Tali principi sarebbero stati disattesi dalla Corte di appello, che si era rivolta alla ricerca di fattori di discriminazione nelle conversazioni registrate, ignorando l’effetto lesivo della condotta in relazione alla percezione avuta dal suo destinatario.

1.2. La censura, che pur procede da un assunto iniziale parzialmente corretto, non può essere condivisa.

Il D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 43, trasfuso dalla L. 6 marzo 1998, n. 40, art. 41, al comma 1 prevede che “Ai fini del presente capo, costituisce discriminazione ogni comportamento che, direttamente o indirettamente, comporti una distinzione, esclusione, restrizione o preferenza basata sulla razza, il colore, l’ascendenza o l’origine nazionale o etnica, le convinzioni e le pratiche religiose, e che abbia lo scopo o l’effetto di distruggere o di compromettere il riconoscimento, il godimento o l’esercizio, in condizioni di parità, dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale e culturale e in ogni altro settore della vita pubblica”.

Tale clausola contiene un chiaro riferimento anche alle “discriminazioni indirette” la cui definizione – recepita nel D.Lgs. n. 215 del 2003, art. 2, comma 1, lett. b), recante attuazione della direttiva 2000/43/CE per la parità di trattamento tra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica – include “una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri” che possono mettere le persone di una determinata razza od origine etnica in una posizione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone.

Secondo la giurisprudenza di questa Corte, il termine “comportamento” che figura dell’art. 43, comma 1, vale ad includere tanto le azioni quanto le omissioni, in un nesso di causalità diretta o indiretta con una serie di fatti discriminatori (distinzione, esclusione, restrizione, preferenza, basate tutte su ragioni di razza, colore, ascendenza ecc.); di conseguenza si ha vera e propria discriminazione laddove la condotta ottenga, quale “scopo” o quale “effetto”, la lesione di un diritto umano o di una libertà fondamentale, nei termini precisati dall’ultima parte dell’art. 43, comma 1.

I termini “scopo” ed “effetto”, disgiunti ed alternativi, fanno sì che la norma appaia centrata proprio sulla produzione degli effetti, rendendo così sufficiente l’esistenza di questi ultimi ai fini del perfezionamento della fattispecie legale di discriminazione.

Ai fini della tutela di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 44, comma 1, deve dunque prescindersi dalla rilevanza degli stati soggettivi dell’autore della condotta, anche per consentire una efficace azione giudiziaria contro ogni discriminazione e rendere possibile al giudice l’accertamento del comportamento produttivo di un fatto discriminatorio indipendentemente dall’indagine sulla ricorrenza o meno dell’elemento soggettivo della condotta (Sez. lav., 23/05/2019, n. 14073).

Inoltre, l’art. 43 al comma 2, individua specifiche ipotesi non tassative di discriminazione, affermando che “in ogni caso compie un atto di discriminazione: a) il pubblico ufficiale o la persona incaricata di pubblico servizio o la persona esercente un servizio di pubblica necessità che nell’esercizio delle sue funzioni compia od ometta atti nei riguardi di un cittadino straniero che, soltanto a causa della sua condizione di straniero o di appartenente ad una determinata razza, religione, etnia o nazionalità, lo discriminino ingiustamente; b) chiunque imponga condizioni più svantaggiose o si rifiuti di fornire beni o servizi offerti al pubblico ad uno straniero soltanto a causa della sua condizione di straniero o di appartenente ad una determinata razza, religione, etnia o nazionalità; c) chiunque illegittimamente imponga condizioni più svantaggiose o si rifiuti di fornire l’accesso all’occupazione, all’alloggio, all’istruzione, alla formazione e ai servizi sociali e socio- assistenziali allo straniero regolarmente soggiornante in Italia soltanto in ragione della sua condizione di straniero o di appartenente ad una determinata razza, religione, etnia o nazionalità; d) chiunque impedisca, mediante azioni od omissioni, l’esercizio di un’attività economica legittimamente intrapresa da uno straniero regolarmente soggiornante in Italia, soltanto in ragione della sua condizione di straniero o di appartenente ad una determinata razza, confessione religiosa, etnia o nazionalità; e) il datore di lavoro o i suoi preposti i quali, ai sensi della L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 15, come modificata e integrata dalla L. 9 dicembre 1977, n. 903 e dalla L. 11 maggio 1990, n. 108, compiano qualsiasi atto o comportamento che produca un effetto pregiudizievole discriminando, anche indirettamente, i lavoratori in ragione della loro appartenenza ad una razza, ad un gruppo etnico o linguistico, ad una confessione religiosa, ad una cittadinanza. Costituisce discriminazione indiretta ogni trattamento pregiudizievole conseguente all’adozione di criteri che svantaggino in modo proporzionalmente maggiore i lavoratori appartenenti ad una determinata razza, ad un determinato gruppo etnico o linguistico, ad una determinata confessione religiosa o ad una cittadinanza e riguardino requisiti non essenziali allo svolgimento dell’attività lavorativa”.

1.3. Secondo le Sezioni Unite di questa Corte, il legislatore, al fine di garantire parità di trattamento e vietare ingiustificate discriminazioni per ragioni di razza ed origine etnica, ha configurato una posizione di diritto soggettivo assoluto a presidio di un’area di libertà e potenzialità del soggetto, possibile vittima delle discriminazioni, rispetto a qualsiasi tipo di violazione posta in essere sia da privati che dalla P.A., senza che assuma rilievo, a tal fine, che la condotta lesiva sia stata attuata nell’ambito di procedimenti per il riconoscimento, da parte della P.A., di utilità rispetto a cui il privato fruisca di posizioni di interesse legittimo, restando assicurata una tutela secondo il modulo del diritto soggettivo e con attribuzione al giudice del potere, in relazione alla variabilità del tipo di condotta lesiva e della preesistenza in capo al soggetto di posizioni di diritto soggettivo o di interesse legittimo a determinate prestazioni, di ordinare la cessazione del comportamento pregiudizievole e adottare ogni altro provvedimento idoneo, secondo le circostanze, a rimuovere gli effetti della discriminazione (Sez. un., 30/03/2011, n. 7186).

1.4. L’interpretazione della disposizione offerta dai ricorrenti è del tutto condivisibile nella richiesta di fondare una lettura oggettiva della condotta discriminatoria, che prescinde dall’elemento soggettivo, doloso o colposo, del soggetto agente, per vero del tutto estraneo alla previsione normativa, volta ad ancorare la valutazione di illiceità agli effetti discriminatori della condotta, che si risolvano in una distinzione, esclusione, restrizione o preferenza legata ai fattori specifici che il precetto mira a neutralizzare (id est: razza, colore, ascendenza, origine nazionale o etnica, convinzioni e pratiche religiose).

Il D.Lgs. 9 luglio 2003, n. 215, art. 2, comma 1, recante attuazione della direttiva 2000/43/CE per la parità di trattamento tra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica, in tema di nozione di discriminazione dispone che per principio di parità di trattamento si intende l’assenza di qualsiasi discriminazione diretta o indiretta a causa della razza o dell’origine etnica.

Tale principio esige che non sia praticata alcuna “discriminazione diretta”, configurabile quando, per la razza o l’origine etnica, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra in situazione analoga, o “discriminazione indiretta”, ricorrente quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento, pur apparentemente neutri, possono mettere le persone di una determinata razza od origine etnica in una posizione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone.

Gli assunti dei ricorrenti non possono invece essere seguiti nel loro ulteriore passaggio argomentativo, laddove, dopo aver giustamente espunto dalla fattispecie l’elemento soggettivo dell’agente, essi pretendono di commisurare la discriminatorietà dell’atto alla percezione soggettiva del soggetto passivo, in assenza di alcun elemento normativo capace di giustificare tale opzione ermeneutica.

La condotta deve quindi ritenersi discriminatoria se determina un trattamento meno favorevole, o anche solo una posizione di particolare svantaggio, dipendente dai fattori di distinzione ritenuti meritevoli di neutralizzazione: del tutto indipendentemente, quindi, dalla percezione soggettiva del discriminato, che non rileva, nè per rendere discriminatoria una condotta che non è tale, ancorchè tale venga percepita, nè, al contrario per rendere lecita una condotta oggettivamente discriminatoria ma non percepita come tale.

1.5. Tanto premesso, non si rinviene nella sentenza impugnata alcuna statuizione che contrasti con la corretta interpretazione del precetto normativo, poichè la Corte salentina ha fondato la propria decisione sulla ritenuta assenza di una discriminazione oggettiva dovuta ai fattori specifici considerati dall’art. 43 ridetto, senza attribuire rilievo alle intenzioni dei soggetti agenti.

2. Con il secondo motivo di ricorso, proposto ex art. 360 c.p.c., n. 3, i ricorrenti denunciano violazione o falsa applicazione di legge in relazione al D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 28, comma 4, in relazione all’onere della prova.

2.1. I ricorrenti osservano che la Corte di appello aveva escluso il carattere discriminatorio delle condotte denunciate, non tenendo conto del peculiare regime di riparto dell’onere probatorio vigente nella specifica materia, ponendo indebitamente a carico dei ricorrenti l’onere di dimostrare il carattere discriminatorio dei comportamenti denunciati e omettendo di considerare l’assenza di alcuna prova fornita dai resistenti a giustificazione della propria condotta.

2.2. Il D.Lgs. 1 settembre 2011, n. 150, art. 28, recante disposizioni complementari al codice di procedura civile in materia di riduzione e semplificazione dei procedimenti civili di cognizione, ai sensi della L. 18 giugno 2009, n. 69, art. 54 (cosiddetto “decreto semplificazioni riti”), quanto alle controversie in materia di discriminazione, regolate dal rito sommario di cognizione ove non diversamente disposto, nel suo comma 4 ha introdotto una specifica disposizione in materia di onere probatorio.

Secondo tale disposizione, quando il ricorrente fornisce elementi di fatto, desunti anche da dati di carattere statistico, dai quali si può presumere l’esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori, spetta al convenuto l’onere di provare l’insussistenza della discriminazione. I predetti dati di carattere statistico possono essere relativi anche alle assunzioni, ai regimi contributivi, all’assegnazione delle mansioni e qualifiche, ai trasferimenti, alla progressione in carriera e ai licenziamenti dell’azienda interessata.

2.3. In tal modo la legge, al fine di riequilibrare le posizioni delle parti assicurando una effettiva tutela a soggetti presumibilmente svantaggiati, introduce una deroga al normale regime dell’onere probatorio ex art. 2697 c.c., ribaltandone la spettanza, purchè l’asserito discriminato fornisca elementi di fatto, desunti anche da dati di carattere statistico, dai quali si possa presumere l’esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori.

A rigore, l’art. 28, comma 4, non realizza una vera e propria inversione dell’onere probatorio, ma piuttosto una sua attenuazione, in quanto il Legislatore chiede all’attore la prova non già della discriminazione, ma del fatto che la fa presumere. Il Legislatore ha introdotto dunque una presunzione legale relativa che, ripartendo l’onere della prova, tutela la parte debole del rapporto che incontra le maggiori difficoltà probatorie.

Anche secondo la giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, nelle controversie in materia di discriminazione, è onere del soggetto passivo-attore far valere e “dimostrare, in un primo momento, i fatti che consentano di presumere l’esistenza di una discriminazione diretta o indiretta. Solamente nel caso in cui questi abbia provato tali fatti, spetterà poi al convenuto dimostrare che non vi sia stata violazione del principio di non discriminazione” (Corte Giust. UE 21/7/2011, C-104/10, Kelly c. National University of Ireland; Corte Giust. UE 19/4/2012, C-415/10, Meister c. Speech Design Carrier Systems GmbH). I soggetti convenuti potranno contestare la natura discriminatoria del comportamento da loro posto in essere “con qualsiasi mezzo” (Corte Giust. UE Grande Sez. 17/7/2008, C-303/06, Coleman c. Attridge Law e Steve Law) e potranno far valere la non discriminatorietà anche tramite una “serie di indizi concordanti” (Corte Giust. UE 25/4/2013, C-81/12, Accept c. Consiliul National pentru Combaterea Discriminarii).

Adempiuto tale onus probandi, deve ritenersi provato l’illecito discriminatorio, salvo che il convenuto non offra la prova contraria circa l’insussistenza del fatto presunto, e cioè la presenza di una giustificazione apprezzabile secondo l’ordinamento rispetto all’effetto di diseguaglianza che il suo comportamento avrebbe creato.

Ovviamente gli elementi di fatto capaci di provocare l’effetto presuntivo e il conseguente ribaltamento dell’onere probatorio non debbono soddisfare lo standard richiesto per la prova presuntiva della gravità, precisione e concordanza degli indizi ex art. 2729 c.c.: altrimenti la previsione sarebbe del tutto inutile a fronte di una prova valida nel giudizio di cognizione anche secondo le regole ordinarie.

Sono quindi sufficienti elementi di carattere indiziario, pur se non gravi, non precisi e non convergenti, eventualmente ritratti da rilevazioni e comparazioni di tipo statistico.

2.4. Anche in questo caso, tuttavia, i ricorrenti invocano il precetto normativo senza però dedurre con la necessaria specificità le ragioni della sua applicazione nel caso concreto.

Essi infatti non indicano nè quali sarebbero i precisi elementi di fatto provati in causa, che, seppur non idonei a determinare la prova pieno jure della condotta discriminatoria, avrebbero l’efficacia di spostare l’onere probatorio a carico dei resistenti nè, tantomeno, le specifiche fonti di prova da cui i predetti fatti risulterebbero dimostrati.

Tale carenza vizia il motivo di inammissibilità per difetto di specificità.

3. Con il terzo motivo di ricorso, proposto ex art. 360 c.p.c., n. 5, i ricorrenti denunciano omesso esame di un fatto decisivo oggetto di discussione fra le parti, con riferimento alla richiesta di iscrizione anagrafica.

3.1. Tale circostanza non sarebbe stata valutata dalla Corte territoriale, come avrebbe dovuto, specie in relazione alle diffuse prassi di comportamenti ostativi e discriminatori, oggetto di inibizione da parte del Ministero dell’Interno (Circolare 29/5/1995 n. 8) recante “Precisazioni sull’iscrizione nell’anagrafe della popolazione residente di cittadini italiani”) e dell’UNAR (Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali) presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri (Nota del 12/10/2011).

Il diritto all’iscrizione anagrafica e lo status di residenza che ne consegue si configura come diritto soggettivo perfetto, che può essere fatto valere anche dai cittadini stranieri regolarmente soggiornanti sul territorio italiano D.Lgs. n. 286 del 1998, ex art. 6, comma 7.

Costituiscono pertanto condotte discriminatorie quelle di quei Comuni che frappongono ostacoli all’iscrizione anagrafica dei cittadini extracomunitari richiedono a tal fine documentazioni inerenti le condizioni reddituali o lavorative, proprie o dei componenti del nucleo familiare o requisiti igienico-sanitari o di abitabilità degli immobili occupati.

Secondo i ricorrenti, la Corte di appello di Lecce ha omesso di valutare il fatto della richiesta di iscrizione anagrafica da loro avanzata e le predette diffuse prassi distorsive.

3.2. Il nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., n. 5 (risultante dalle modifiche apportate dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, convertito, con modificazioni, in L. 7 agosto 2012, n. 134) in tema di ricorso per vizio motivazionale deve essere interpretato, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, nel senso della riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione; secondo la nuova formula, è denunciabile in Cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (Sez. un., 07/04/2014, n. 8053; Sez. un., 22/09/2014, n. 19881; Sez. un., 22/06/2017, n. 15486).

Inoltre, secondo le Sezioni Unite, nel rigoroso rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, il ricorrente deve indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sè, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie.

3.3. I ricorrenti non hanno soddisfatto i canoni sopra evidenziati.

Infatti non risulta che essi abbiano prospettato con il ricorso introduttivo, e tantomeno con l’atto di appello, e sottoposto in tal modo al contraddittorio nè la circostanza relativa agli ostacoli frapposti dal Comune di Bosco Chiesanuova alla richiesta di iscrizione anagrafica dei due ricorrenti, o di altri componenti del loro nucleo familiare, nè le prassi distorsive lamentate; anzi tale deduzione appare esclusa dall’esposizione dei fatti contenuta tanto nella sentenza impugnata quanto nei ricorsi di legittimità.

I due documenti citati (Circolare Ministero dell’Interno e nota UNAR) sono stati inseriti nel sotto-fascicolo, senza dar conto del “se” e del “quando” siano stati prodotti in giudizio di merito.

Appare quindi irrilevante la difesa del Comune secondo cui non sarebbe stato frapposto alcun ostacolo alla richiesta di iscrizione anagrafica dell’8/1/2013, regolarmente registrata e per la quale è previsto oltretutto dalla legge il silenzio assenso, decorsi 45 giorni ai sensi del D.L. n. 5 del 2012, art. 5.

4. Con il quarto motivo di ricorso, proposto ex art. 360 c.p.c., n. 3, i ricorrenti denunciano violazione o falsa applicazione di legge in relazione agli artt. 2 e 3 Cost..

4.1. Secondo i ricorrenti la Corte di appello avrebbe omesso di valutare fattori di discriminazione diversi da quello razziale, basati sull’origine sociale, sul patrimonio e sulla ricchezza.

4.2. E’ opportuno ricordare preliminarmente che il D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 43, al pari del D.Lgs. 9 luglio 2003, n. 215, art. 2, attribuisce rilievo discriminatorio solo alle distinzioni basate su una serie di fattori specifici legati all’etnia, al colore o alla razza e alla religione (e cioè “la razza, il colore, l’ascendenza o l’origine nazionale o etnica, le convinzioni e le pratiche religiose).

L’art. 28 riguarda anche altre controversie in tema di discriminazione, da cui esulano le discriminazioni economico-finanziarie prospettate dai ricorrenti con il motivo: oltre alle controversie in materia di discriminazione di cui al D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 44 (azione civile contro la discriminazione in repressione di un comportamento discriminatorio di un privato o della pubblica amministrazione per motivi razziali, etnici, linguistici, nazionali, di provenienza geografica o religiosi), quelle di cui al D.Lgs. 9 luglio 2003, n. 215, art. 4 (Attuazione della direttiva 2000/43/CE per la parità di trattamento tra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica), quelle di cui al D.Lgs. 9 luglio 2003, n. 216, art. 4 (Attuazione della direttiva 2000/78/CE per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro), quelle di cui alla L. 1 marzo 2006, n. 67, art. 3 (Misure per la tutela giudiziaria delle persone con disabilità vittime di discriminazioni) e infine quelle di cui al D.Lgs. 11 aprile 2006, n. 198, art. 55 quinquies (Codice delle pari opportunità tra uomo e donna).

4.3. Il motivo, prima ancora che infondato in quanto lamenta una discriminazione fondata su fattori diversi da quelli previsti dalla legge, appare inammissibile perchè la questione è del tutto nuova: infatti i ricorrenti non hanno dedotto tale specifica forma di discriminazione, che peraltro sarebbe stata soggetta al rito ordinario, con i propri atti introduttivi, nè hanno proposto l’argomento nel corso del giudizio di merito.

E’ pur vero che a pagina 6 la sentenza impugnata ritiene comunque lecito il comportamento del Comune in quanto determinato solo dalla difficoltà di assicurare un sostegno economico al nucleo familiare a cui appartengono i ricorrenti: ciò non significa peraltro che il tema della discriminazione economica fosse stato tempestivamente dedotto in giudizio dalle parti attrici, poichè la Corte di appello si è limitata a spiegare la condotta degli organi del Comune come animata dall’intento di sottrarre il Comune ad un onere economico non sostenibile.

5. Con il quinto motivo di ricorso, proposto ex art. 360 c.p.c., n. 3, i ricorrenti denunciano violazione o falsa applicazione di legge in relazione al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 136.

5.1. I ricorrenti lamentano la revoca dell’ammissione al patrocinio statuale disposta dalla Corte di appello in difetto dei presupposti di legge che richiedono il ricorso della fattispecie di responsabilità processuale aggravata.

5.2. La censura è inammissibile.

La revoca dell’ammissione al patrocinio a spese dello Stato ancorchè adottata con la sentenza che definisce il giudizio, anzichè con il separato decreto previsto dal D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 136, non comporta tuttavia mutamenti nel regime impugnatorio che resta quello, ordinario e generale, dell’opposizione ex art. 170 dello stesso D.P.R.; si deve infatti escludere che la pronuncia sulla revoca, in quanta adottata con sentenza, sia, per ciò solo, impugnabile immediatamente con il ricorso per cassazione, rimedio previsto solo per l’ipotesi contemplata dall’art. 113 dello stesso D.P.R. citato (Sez. 3, n. 3028 del 08/02/2018, Rv. 647941 01; Sez. 2, n. 29228 del 06/12/2017, Rv. 646597-01; Sez. 1, n. 32028 del 11/12/2018, Rv. 651900-01).

6. I ricorsi debbono essere complessivamente rigettati e ciascun ricorrente deve essere condannato a rifondere le spese al Comune controricorrente, liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte:

rigetta i ricorsi e condanna ciascun ricorrente al pagamento delle spese in favore del controricorrente, liquidate per ciascuno di essi nella somma di Euro 3.000,00 per compensi, Euro 200,00 per esposti, 15% rimborso spese generali, oltre accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, ove dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile, il 7 gennaio 2020.

Depositato in Cancelleria il 28 maggio 2020

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