Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 10094 del 17/05/2016


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Civile Ord. Sez. 6 Num. 10094 Anno 2016
Presidente: CURZIO PIETRO
Relatore: ARIENZO ROSA

ORDINANZA
sul ricorso 22671-2014 proposto da:
IANNILLI LAVINIA, GABBLANELLI SERENA, PICCHI
RAFFAELA, elettivamente domiciliate in ROMA, VIA RENO 21,
presso lo studio dell’avvocato ROBERTO RIZZO, che le rappresenta
e difende, giusta procura speciale a margine del ricorso;
– ricorrenti –

POSTE ITALIANE SPA, societa’ con socio unico, in persona
dell’Amministratore Delegato e Legale rappresentante pro tempore,
elettivamente domiciliata in ROMA, V.LE MAZZINI 134, presso lo
studio dell’avvocato LUIGI HORILLO, che la rappresenta e difende,
giusta procura a margine del controricorso e ricorso incidentale;
– controricorrente e ricorrrente incidentale –

Data pubblicazione: 17/05/2016

avverso la sentenza n. 7787/2013 della CORTE D’APPELLO di
ROMA del 26/09/2013, depositata il 01/10/2013;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del
19/04/2016 dal Consigliere Relatore Dott. ROSA ARIENZO.
FATTO E DIRITTO

2016, ai sensi dell’art. 375 c.p.c., sulla base della seguente relazione,
redatta a norma dell’art. 380 bis c.p.c.:
“Con sentenza del 28.3.2008 – 23.12.2009, la Corte d’Appello di Roma,
per quanto in questa sede rileva, confermò la sentenza di prime cure
dichiarativa della nullità del termine apposto ai contratti di lavoro
conclusi tra la Poste Italiane spa e, tra gli altri, i lavoratori Picchi
Raffaela, Gabbianelli Serena, lannilli Lavinia; per la cassazione di tale
sentenza la Poste Italiane spa propose ricorso fondato su quattro
motivi. La Corte di cassazione, con ordinanza n. 5003/2012, rigettando
i primi due motivi di ricorso, ribadiva che doveva escludersi la legittimità
dei contratti a termine stipulati per esigenze eccezionali ai sensi dell’art.
8 acni 26.11.1994 e dei successivi accordi integrativi del medesimo
dopo il 30 aprile 1998, in quanto privi di presupposto normativa.
Venivano, invece, accolti il terzo ed il quarto motivo, relativi alle
conseguenze economiche della nullità dei contratti ed alla necessaria
applicazione dell’art. 32 I. 183/2010 e la causa era rinviata alla Corte di
appello di Roma, dinanzi alla quale veniva riassunta dai lavoratori.
Il giudice del rinvio, con sentenza del 1.10.2013, in parziale
accoglimento del ricorso in riassunzione ed in riforma parziale della
sentenza del Tribunale di Roma, dato atto della nullità del termine
apposto ai contratti intercorsi tra ciascuno dei ricorrenti e la società
convenuta in riassunzione, nonché della conseguente instaurazione
inter partes di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato,
condannava la società al pagamento di una indennità, ai sensi dell’art.
32 I. 183/2010, in favore di ciascuno dei ricorrenti, pari a 4 mensilità

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ud. 19-04-2016

La causa è stata chiamata all’adunanza in camera di consiglio del 19.4

dell’ultima retribuzione globale di fatto percepita, con rivalutazione dalla
data di estromissione dal lavoro e interessi legali sulla somma rivalutata.
Per la cassazione di tale decisione ricorrono Picchi Raffaela,
Gabbianelli Serena e lannilli Lavinia in base ad unico motivo, cui resiste,
con controricorso, la società, che propone ricorso incidentale anch’esso

I ricorrenti principali lamentano violazione e falsa applicazione dell’art.
32 della I. 183/2010 in relazione alle clausole 4.1 e 8.1 dell’accordo
quadro sui contratti a tempo determinato di cui alla direttiva CEE 70/99,
rilevando che la normativa in questione dello Stato Italiano che la Corte
di Appello di Roma ha ritenuto di dovere applicare in virtù dei chiari
principi affermati dalla Corte di Giustizia Europea nella sentenza
“Carratù” è contraria ai principi di cui alle clausole suinidicate
dell’accordo quadro di cui alla citata direttiva, perché capace di
determinare la drastica riduzione (rispetto alla normativa previgente)
dell’indennità risarcitoria nei casi di conversione del rapporto in virtù
della conclamata illegittimità del termine. Ritengono che l’arresto della
S. C. di cui alla sentenza 7685/2014 sia meritevole di più accurato
approfondimento anche alla luce degli interventi dottrinari, specie in
considerazione della ritenuta possibilità di incidenza delle innovazioni
legislative per il futuro e non anche per il passato.
Va premesso, in termini generali, che, ai sensi dell’art. 384 c.p.c.,
comma 1, l’enunciazione del principio di diritto vincola sia il giudice di
rinvio sia la stessa Corte di cassazione, nel senso che, qualora sia
nuovamente investita del ricorso avverso la sentenza pronunziata dal
giudice di rinvio, la Corte deve giudicare muovendo dal medesimo
principio di diritto precedentemente enunciato, senza possibilità di
modificarlo, neppure sulla base di un nuovo orientamento
giurisprudenziale della stessa Corte (ex plurimis: Cass. 28 maggio 2003,
n. 8485) salvo che la norma da applicare in relazione al già enunciato
principio di diritto risulti successivamente abrogata, modificata o
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affidato ad unico motivo.

sostituita per effetto di jus superveniens comprensivo sia
dell’emanazione di una norma di interpretazione autentica sia della
dichiarazione di illegittimità costituzionale (ex multis: Cass. 2 agosto
2012, n. 13873; Cass. 31 luglio 2006, n. 17442; Cass. 24 maggio 2007,
n. 12095; Cass. 6 febbraio 1995,n.1374) e che peraltro, l’obbligo del
giudice di rinvio di uniformarsi alla regula iuris enunciata dalla Corte di

la norma posta a fondamento di tale principio, pur essendo stata
abrogata, modificata o sostituita successivamente alla sentenza di
legittimità, continui ad essere applicabile al caso in esame (Cass. 3
settembre 2013, n. 20128). A ciò deve tuttavia aggiungersi che, ormai
da tempo, questa Corte – facendo applicazione del criterio ermeneutico
dell’interpretazione del diritto nazionale in conformità con il diritto UE
come interpretato dalla CGUE – ha affermato che “si devono
considerare inclusi nell’ambito dello jus superveniens, che travalica il
principio di diritto enunciato dalla sentenza di annullamento e che deve
essere applicato nel giudizio di rinvio, anche i mutamenti normativi
prodotti dalle sentenze della Corte di giustizia UE, che hanno efficacia
immediata nell’ordinamento nazionale” (tali principi sono affermati in
Cass.19301/2014).
Alla luce di tali premesse , deve ritenersi infondata la questione di
verifica della conformità del citato art. 32 (come autenticamente
interpretato) alla Direttiva, posta dai ricorrenti con riferimento alla
ordinanza del Tribunale di Napoli del 13/6/12 con cui veniva posta alla
Corte di Giustizia Europea la questione della contrarietà alla Direttiva
CE n. 70/99 (clausola 4 punto 1 dell’accordo quadro sul lavoro a tempo
determinato e clausola 8 punto 1), in quanto si tratterebbe di norma
capace di determinare una drastica riduzione (rispetto alla normativa
previgente) dell’indennità risarcitoria nei casi di conversione del rapporto
laddove la lettura combinata delle indicate clausole legittimerebbe, per i
lavoratori che si trovino in situazioni comparabili, solo la possibilità di
introdurre disposizioni più favorevoli. Va, infatti, va osservato — in
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cassazione, ai sensi dell’art. 384 cod. proc. civ., non viene meno quando

conformità a quanto già sancito da questa Corte (cfr. Cass. 9.1.2015 n.
151, alla quale si ritiene di uniformarsi non ravvisandosi ragioni per
dissentire dalla stessa) che la Corte di Giustizia, con la sentenza
Carratù, ha innanzitutto precisato che la scelta dello Stato italiano di
prevedere, per l’ipotesi dei contratto a termine illegittimo, un regime
risarcitorio diverso e meno favorevole rispetto a quello applicato in caso

Inoltre, con l’art. 32, il legislatore non ha stabilito una parametrazione del
risarcimento in misura diversa ed inferiore rispetto ad analoga
parametrazione del sistema previgente, tale da consentire un raffronto
teorico ai fini di una valutazione in termini di drastica riduzione. Prima
dell’entrata in vigore della nuova disciplina, infatti, in relazione alla
scadenza del contratto a termine operavano le sanzioni tipiche previste
dall’ordinamento che si ricollegano all’applicazione delle regole generali
civilistiche collegate alla nullità della clausola appositiva del termine, alla
conversione del rapporto ex tunc in rapporto a tempo indeterminato ed
alla mora del datore di lavoro. L’introduzione di una indennità comunque
dovuta a prescindere da un danno effettivo ed i cui limiti sono stati
parametrati dal legislatore tra un minimo ed un massimo (tenendo conto
del vantaggio per il lavoratore derivante dal mantenimento della regola
di “conversione”), non è, dunque, automaticamente ovvero
necessariamente meno favorevole rispetto ad un sistema in cui la
liquidazione del risarcimento andava effettuata caso per caso dal
giudice anche mediante il ricorso a presunzioni semplici sull’aliunde
perceptum e percipiendum (cfr. in tali termini, Cass. 15112015 cit.).
Con riguardo al ricorso incidentale, va osservato che l’indennità
risarcitoria, che configura una sorta di penale “ex lege” a carico del
datore di lavoro che ha apposto il termine nullo e copre in maniera
“forfetizzata” i danni causati dalla nullità del termine nel periodo
cosiddetto “intermedio”, ossia dalla scadenza del termine alla sentenza
di conversione (cfr. Cass. 20959/2014), deve essere annoverata fra i
crediti di lavoro ex art. 429, comma 3, cod. proc. civ. giacché, come più
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di licenziamento illegittimo, non contrasta con il diritto comunitario.

volte affermato da questa Corte, tale ampia accezione si riferisce a tutti i
crediti connessi al rapporto di lavoro e non soltanto a quelli aventi natura
strettamente retributiva (cfr., ad esempio, per i crediti liquidati ex art. 18
legge n. 300 del 1970, Cass. 23 gennaio 2003 n. 1000; Cass. 6
settembre 2006 n. 19159; per l’indennità ex art. 8 della legge n. 604 del
1966, Cass. 21 febbraio 1985 n. 1579; per le somme liquidate a titolo di

5024).
Dalla natura di liquidazione forfettaria e onnicomprensiva del danno
relativo al detto periodo consegue che gli accessori ex art. 429, terzo
comma, cod. proc. civ. sono dovuti soltanto a decorrere dalla data della
sentenza che, appunto, delimita temporalmente la liquidazione stessa, e
non dalla scadenza di contratto a termine.
I principi richiamati non sono stati

correttamente applicati nella

decisione gravata per quanto attiene la decorrenza dell’obbligo
retributivo, ulteriore rispetto alla corresponsione dell’indennità ex art. 32
co. 5 I. 183/2012, per cui, alla luce di quanto esposto, si propone
l’accoglimento del ricorso con ordinanza ex art. 375 n. 5 c.p.c.,
limitatamente alla censura contenuta nel ricorso incidentale, con
conseguente cassazione della impugnata sentenza in relazione al
ricorso accolto e decisione nel merito della controversia, ex art. 384 cc.
2° c.p.c., nel senso della condanna della società al pagamento, in favore
dei ricorrenti principali, della indennità ex art. 32, comma 5°, c.p.c. oltre
rivalutazione monetaria ed interessi legali a decorrere dalla data della
decisione che dichiara la conversione del rapporto a tempo
indeterminato”.
Sono seguite le rituali comunicazioni e notifica della suddetta relazione,
unitamente al decreto di fissazione della presente udienza in Camera di
consiglio.
Il Collegio ritiene di condividere integralmente il contenuto e le
conclusioni della riportata relazione e concorda, pertanto, previa relativa
riunione, sul rigetto del ricorso principale e per l’accoglimento di quello
incidentale nei sensi precisati. Essendo possibile la decisione nel merito
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risarcimento del danno ex art. 2087 cod. civ., Cass. 8 aprile 2002 n.

non essendo necessari ulteriori allettamenti di fatto, si provvede in
conformità a quanto indicato.
Le spese dei precedenti gradi di merito e del giudizio della fase
rescindente vanno confermate, in relazione alla modesta incidenza
riformatoria della presente decisione, laddove le spese del presente
giudizio di legittimità, stante la prevalente soccombenza dei lavoratori
liquidata in dispositivo, l’ulteriore 1/2 restando compensato tra le parti.
Poiché il ricorso principale è stato proposto in tempo posteriore al 30
gennaio 2013 si impone di dare atto dell’applicabilità dell’art. 13, comma
1 quater, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1,
comma 17, legge 24 dicembre 2012, n. 228. Invero, in base al tenore
letterale della disposizione, il rilevamento della sussistenza o meno dei
presupposti per l’applicazione dell’ulteriore contributo unificato costituisce
un atto dovuto, poiché l’obbligo di tale pagamento aggiuntivo non è
collegato alla condanna alle spese, ma al fatto oggettivo – ed altrettanto
oggettivamente insuscettibile di diversa valutazione – del rigetto integrale
o della definizione in rito, negativa per l’impugnante, dell’impugnazione,
muovendosi, nella sostanza, la previsione normativa nell’ottica di un
parziale ristoro dei costi del vano funzionamento dell’apparato giudiziario
o della vana erogazione delle, pur sempre limitate, risorse a sua
disposizione (così Cass., Sez. Un., n. 22035/2014).
P.Q.M.
La Corte riunisce i ricorsi, rigetta il ricorso principale, accoglie
l’incidentale in parte qua, cassa la sentenza impugnata in relazione alla
censura accolta e, decidendo nel merito, determina la decorrenza degli
accessori sull’indennità di cui all’art. 32 I. 183/2010 a far data dalla
sentenza che dispone la conversione del rapporto.
Conferma le statuizioni sulle spese delle fasi di merito e condanna le
ricorrenti principali al pagamento di 1/2 delle spese del presente giudizio
di legittimità, liquidate per l’intero in euro 100,0 per esborsi, euro
3000,00 per compensi professionali, oltre accessori come per legge,

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cedono a carico degli stessi, in ragione di 1/2 dell’intero, nella misura

nonché al rimborso delle spese generali in misura del 15%. Compensa
il residuo 1/2.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.p.r. n. 115 dei 2002, dà atto
della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei
ricorrenti principali, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato
pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1 bis

Roma, 19 aprile 2016
esidente
o Curzio

dello stesso articolo 13.

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