Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 10076 del 28/05/2020

Cassazione civile sez. II, 28/05/2020, (ud. 19/11/2019, dep. 28/05/2020), n.10076

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. D’ASCOLA Pasquale – Presidente –

Dott. TEDESCO Giuseppe – Consigliere –

Dott. CASADONTE Annamaria – Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – Consigliere –

Dott. DONGIACOMO Giuseppe – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 401/2016 proposto da:

G.M.G., rappresentata e difesa dall’Avvocato GIAN

FRANCO RENIER e dall’Avvocato GIULIO GUARNACCI, presso il cui studio

a Roma, via Zara 13, elettivamente domicilia, per procura speciale a

margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

G.M., G.P. e G.C., rappresentate e difese

dall’Avvocato FRANCESCO GASPARINETTI e dall’Avvocato ARNALDO

VERGANO, presso il cui studio a Roma, via delle Fornaci 44, per

procura speciale a margine del controricorso;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 354/2015 della CORTE D’APPELLO DI TRIESTE,

depositata il 27/5/2015;

udita la relazione della causa svolta nell’udienza pubblica del

19/11/2019 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE DONGIACOMO;

sentito il Pubblico Ministero, nella persona del Sostituto

Procuratore Generale della Repubblica Dott. MISTRI Corrado, il quale

ha concluso per rigetto del primo, del secondo, del terzo e del

quinto motivo e, per l’inammissibilità o, in subordine, per il

rigetto del quarto e del sesto;

sentito, per la ricorrente, l’Avvocato GIULIO GUARNACCI;

sentito, per le controricorrenti, l’Avvocato FRANCESCO GASPARI NETTI.

Fatto

FATTI DI CAUSA

Il tribunale di Pordenone, con sentenza del 26/9/2012, dopo aver premesso che: – in data (OMISSIS) era deceduta F.A.; – G.M., P. e C., in rappresentazione del padre premorto, hanno chiesto, relativamente all’eredità devoluta dalla nonna, lo scioglimento della comunione intercorrente con la zia G.M.G. per effetto del testamento olografo con il quale, in data 6/5/2004, la de cuius aveva attribuito la qualità di eredi alle attrici, in via unitaria, per la quota di un mezzo, e alla convenuta G.M.G., per la residua quota; – le attrici avevano contestato l’entità del relictum relativamente alle somme detenute dalla defunta sul proprio conto corrente: la disponibilità alla data di apertura della successione, pari ad Euro 2.000,00, non era, infatti, coerente con le risorse della nonna defunta, come emerge dalle evidenze documentali inerenti alle movimentazioni effettuate sul conto corrente in questione, con riferimento al periodo tra il 2002, epoca in cui la defunta aveva cominciato a perdere la propria autosufficienza fisica ed era stata di fatto assistita e coadiuvata dalla figlia M.G., e l’apertura della successione; – le attrici, quindi, avevano chiesto la condanna alla restituzione, da parte della convenuta, degli importi di complessivi Euro 120.000,00 ed, una volta ricostruito il complessivo il complessivo patrimonio monetario relitto della de cuius, il riconoscimento, in loro favore, previo scioglimento della comunione, della somma di Euro 60.000,00, oltre al rimborso delle spese condominiali sostenute per Euro 224,23; – la convenuta, costituitasi in giudizio, aveva depositato in giudizio i rendiconti annuali, con la relativa documentazione; ha, innanzitutto, accertato la falsità delle firme apposte su alcuni degli assegni apparentemente tratti dalla de cuius su conto corrente a lei intestato, aventi come beneficiari sia la convenuta, che il marito della stessa e pacificamente incassati dai predetti beneficiari; ha, poi, ritenuto che le somme relitte dalla de cuius ammontassero ad Euro 46.014,00, e che, pertanto, a ciascuna delle parti, spettasse la somma di Euro 23.000,00; ha, infine, dichiarato lo scioglimento della comunione tra le parti attribuendo alle attrici la somma di Euro 2.148,00 giacente sul conto corrente e condannando la convenuta al pagamento, in favore delle stesse, della somma di Euro 20.859,00, oltre interessi.

Le attrici hanno proposto appello avverso tale sentenza.

La convenuta ha resistito al gravame proponendo, inoltre, appello incidentale.

La corte d’appello, con la sentenza in epigrafe, ha, sia pure in parte, accolto l’appello principale proposto dalle appellanti ed ha rigettato l’appello incidentale proposto dall’appellata, condannando quest’ultima al pagamento delle spese di lite per entrambi i gradi giudizio.

La corte, in particolare, ha, innanzitutto, affermato che, al fine della ricostruzione del patrimonio ereditario, occorreva senza alcun dubbio tener conto del periodo compreso tra il 2002 ed il 2006, sebbene la delega ad operare sul conto corrente fosse stata conferita dalla defunta all’appellata solo in data 15/1/2004: le testimonianze raccolte, infatti, ha osservato la corte, hanno consentito di accertare che “anche prima del 2004, quest’ultima provvedeva al disbrigo delle faccende quotidiane – ad eccezione dell’assistenza propriamente fisica, affidata ad una badante – compresi gli acquisti di cui l’anziana madre aveva necessità (cibo, vestiario, assistenza medica) e quindi in sostanza, svolgeva il ruolo di amministratrice di fatto nella gestione patrimoniale della de cuius dal 2002 sino al rilascio della formale delega e poi oltre, sino al decesso avvenuto nel gennaio 2006”, a nulla rilevando il fatto che la defunta aveva conservato il potere di operare sul proprio conto corrente, “attesa l’età cronologica della stessa, nata nel 1903”.

La corte, quindi, esaminate le operazioni annotate sull’estratto conto, ha, in sostanza, escluso dalle spese imputabili alle necessità della defunta, tanto le somme prelevate in contanti e non sorrette da specifica documentazione, quanto le somme portate da assegni bancari con firma di traenza risultata contraffatta (“pur non essendovi prova della contraffazione della firma da parte dell’appellata”), dei quali beneficiari sono risultati l’appellata e suo marito, non avendo l’appellata fornito la prova, cui è tenuta in qualità di mandataria e/o gestore di fatto del patrimonio della de cuius, che le une come le altre corrispondessero ad esigenze dell’assistita, nè che gli assegni tratti a suo nome corrispondessero ad obbligazioni pecuniarie nei suoi confronti che la defunta aveva inteso estinguere (nè apparendo risolutiva la richiesta di giuramento decisorio ai sensi dell’art. 265 c.p.c., peraltro formulata su capitoli di prova estremamente generici).

La corte, piuttosto, ha ritenuto che le spese corrispondenti alle necessità della defunta dovevano essere determinate nella somma di Euro 2.400,00 mensili (per un totale di Euro 28.800,00 annui), per cui, aggiunte le somme relative alle spese straordinarie non documentate, per l’importo complessivo di Euro 30.000,00, e quelle inerenti le spese funebri, pari ad Euro 4.000,00, ed accertato che nel periodo intercorrente tra il mese di gennaio del 2002 ed il mese di gennaio del 2006 le entrate del patrimonio della defunta corrispondevano alla somma complessiva di Euro 251.963,42, ha determinato in Euro 102.963,42 la somma relitta dalla de cuius, da dividersi in parti uguali per ciascuna delle parti del giudizio, pari, quindi, ad Euro 51.381,71 ciascuna.

La corte, infine, determinata in Euro 224,23 la quota gravante sull’appellata relativamente alle spese condominiali anticipate dalle appellanti, ha stabilito che le spese di lite dovessero essere liquidate in base al D.M. n. 140 del 2012 e che le spese della consulenza tecnica d’ufficio e della consulenza tecnica di parte grafologica dovessero rimanere a carico delle parti nella misura pari alle metà ciascuna in quanto effettuate nell’interesse reciproco delle stesse e, comunque, “non potendo essere poste a carico dell’appellata in mancanza di prova della contraffazione della sottoscrizione del traente, da parte della medesima appellata”.

La corte, in definitiva, ha accolto l’appello principale ed ha rigettato l’appello incidentale, ed, in parziale riforma della sentenza pronunciata dal tribunale, ha attribuito alle attrici la somma di Euro 2.148,00, giacente sul conto corrente, ed ha condannato la convenuta al pagamento, in favore delle stesse, della somma di Euro 49.233,71, oltre interessi legali, nonchè al pagamento della somma di Euro 224,23 quale quota parte gravante sull’appellata relativamente alle spese condominiali anticipate dalle attrici.

G.M.G., con ricorso spedito per la notifica il 22/12/2015, ha chiesto, per sei motivi, la cassazione della sentenza resa dalla corte d’appello.

Hanno resistito, con controricorso notificato in data 4/2/2016, G.M., P. e C..

Le parti hanno depositato memorie.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1.1. Con il primo motivo, la ricorrente, lamentando la violazione e la falsa applicazione di norme di diritto, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, in relazione all’art. 263 c.p.c., artt. 1713 e 1992 c.c. nonchè del R.D. n. 1736 del 1933, artt. 1 e 55 e delle altre norme sull’assegno bancario, nonchè l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che ha formato oggetto di discussione tra le parti, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, ha censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte d’appello, relativamente agli anni 2002 e 2003, e quindi prima della delega del 15/1/2004, ha ritenuto che la ricorrente fosse tenuta a rendere il conto in quanto amministratrice di fatto del patrimonio della de cuius.

1.2. Così facendo, però, ha osservato la ricorrente, la corte d’appello non ha considerato che è onere della parte che lo chiede dedurre e dimostrare la sussistenza dell’obbligo di rendiconto, per cui il giudice, prima di ammetterlo, deve verificare la sussistenza di tale presupposto, legale o negoziale, senza potersi sostituire alla parte in tale dimostrazione. Le attrici, al contrario, non hanno mai indicato un valido presupposto che potesse giustificare la loro pretesa, essendosi limitate ad affermare che la defunta, in quel periodo, aveva tratto degli assegni bancari ma da tali operazioni, ha aggiunto la ricorrente, non discende alcun obbligo di rendiconto.

1.3. Non risulta, inoltre, ha proseguito la ricorrente, da nessuna delle acquisizioni processuali che la convenuta fosse l’amministratrice di fatto della madre se non altro perchè, al di fuori del conto corrente bancario, sul quale erano accreditati i ratei di pensione e dal quale era stato prelevato il denaro necessario per le spese della medesima, non v’era altro patrimonio.

1.4. La convenuta, in effetti, fino al 15/1/2004, non poteva disporre su quel conto, nè prelevando nè emettendo assegni nè disponendo bonifici, come, del resto, è risultato pacifico in corso di causa in quanto esplicitamente affermato dalle stesse attrici nel loro atto introduttivo. Prima di quella data, quindi, tutti gli assegni sono stati tratti e tutti i prelievi sono stati effettuati soltanto dalla titolare del conto in questione, così come ribadito dalle stesse attrici nell’atto d’appello.

1.5. Se, dunque, negli anni 2002 e 2003, la convenuta non poteva operare sul conto corrente intestato alla defunta, nè dal lato delle entrate, nè da quello delle uscite, è destituita di ogni fondamento l’attribuzione alla stessa della veste di amministratrice di fatto, come, in effetti, si evince dalla stessa sentenza impugnata, lì dove ha affermato che le prove testimoniali avevano consentito di accertare che anche prima del 2004 la convenuta provvedeva al disbrigo delle faccende quotidiane, vale a dire ad attività pratiche di assistenza e non già di gestione patrimoniale.

1.6. Quanto, poi, agli assegni bancari, tratti tutti dalla defunta, la loro natura di mezzi di pagamento induce a ritenere che, in difetto di prova di un diverso negozio sottostante, la de cuius avesse un debito pecuniario verso il prenditore, per cui, non essendo state neppure dedotta una diversa causale sottesa alla loro emissione, l’unico dato deducibile è che la defunta, attraverso quei titoli, aveva inteso estinguere un debito pecuniario verso la convenuta, verosimilmente la restituzione di spese anticipate da quest’ultima. Nessun obbligo di rendicontazione, quindi, può ritenersi sussistente a carico della beneficiaria dei titoli.

1.7. La corte d’appello, quindi, ha concluso la ricorrente, lì dove ha ritenuto che la convenuta fosse obbligata a rendicontare le operazioni effettuate sul conto corrente bancario della madre nel periodo 2002-2003, e cioè prima della delega del 2004, ha fatto malgoverno delle norme citate.

2.1. Con il secondo motivo, la ricorrente, lamentando la violazione di norme di diritto e l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., nn. 2 e 5, in relazione agli artt. 264,112, 115 e 116 c.p.c., ha censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte d’appello non ha considerato che: – la convenuta aveva depositato, pur ritenendo che non ne avesse l’obbligo, il rendiconto della gestione per il biennio 2002 e 2003; – da tale rendiconto appaiono solo le spese fatte nell’interesse della propria genitrice, senza alcun prelievo dal conto corrente bancario della stessa, non potendo la convenuta operare su quel conto; – fissata l’udienza per la discussione del conto, le attrici, come emerge dalla memoria autorizzata del 22/9/2009, non hanno provveduto all’impugnazione del conto, nè all’udienza, nè prima della stessa, con la specificazione tanto delle partire che si intendono contestare, quanto dei motivi della contestazione. Ne consegue che il rendiconto presentato dalla convenuta per il biennio 2002 e 2003, ancorchè non dovuto, deve ritenersi accettato ed approvato.

2.2. La corte d’appello, pertanto, ha concluso la ricorrente, ha fatto malgoverno delle norme di cui agli artt. 264,112, 115 e 116 c.p.c., sulla corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato e sulla disponibilità e valutazione delle prove acquisite, le quali depongono nel senso che, prima della delega del 15/1/2004, tutte le uscite dal conto corrente bancario della de cuius sono riconducibili esclusivamente a quest’ultima.

3.1. Con il terzo motivo, la ricorrente, lamentando la violazione e la falsa applicazione di norme, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, in relazione agli artt. 1992 e 1277 c.c. e del R.D. n. 173 del 1933, artt. 1 e 5, nonchè alle norme sull’assegno bancario quale mezzo di pagamento e agli artt. 263 c.p.c. e segg., ha censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte d’appello, con riguardo al periodo successivo al 15/1/2004, quando la convenuta ha ricevuto la delega da parte della madre a prelevare denaro dal conto corrente bancario, ha preso in esame gli assegni bancari emessi nel 2004 in favore del marito e del figlio dell’appellata ed ha ritenuto che la stessa era obbligata a rendere il conto del proprio operato dimostrando la causa sottostante ad essi.

3.2. Così facendo, però, ha osservato la ricorrente, la corte d’appello ha trascurato di considerare che, come emerge dai documenti prodotti in giudizio dalle attrici, gli assegni in questione recano la firma di traenza della madre e sono stati dalla stessa personalmente emessi all’ordine della figlia nonostante la delega conferita a quest’ultima.

3.3. D’altra parte, l’emissione di un assegno bancario fa presumere l’esistenza di un’obbligazione pecuniaria del traente verso il prenditore ed è onere di chi affermi l’esistenza di altro tipo di rapporto, sottostante all’emissione dell’assegno, fornire la relativa dimostrazione.

3.4. La corte d’appello, quindi, ha concluso la ricorrente, ha violato le norme previste dagli artt. 263 c.p.c. e segg., lì dove ha ritenuto sussistente il presupposto, legale o negoziale, necessario per poter esigere la resa del conto, identificandolo nel fatto che la convenuta era risultata beneficiaria di alcuni assegni bancari tratti, a suo ordine, dalla de cuius.

4.1. Con il quarto motivo, la ricorrente, lamentando la violazione e la falsa applicazione di norme di diritto, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, in relazione agli artt. 263 c.p.c. e segg., artt. 112 e 115 c.p.c., nonchè agli artt. 2043,1992, 1277 e 2697 c.c., ha censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte d’appello ha ritenuto che dovessero essere ricomprese tra le somme prive di giustificazione anche quelle portate da diciassette assegni recanti una firma di traenza contraffatta sul rilievo che, pur in mancanza della prova della contraffazione delle firme da parte dell’appellata, di tali assegni erano pur sempre risultati beneficiari l’appellata e suo marito.

4.2. Così facendo, però, ha osservato la ricorrente, la corte d’appello non ha considerato che la convenuta, non essendo risultata coinvolta nella contraffazione delle firme di traenza degli assegni, non può essere chiamata a rendere il conto di quanto avvenuto anche se alcuni degli assegni sono risultati tratti all’ordine della stessa posto che il prenditore dell’assegno non deve dimostrare il rapporto sottostante nè deve rendere alcun conto atteso che, dall’emissione del titolo, si evince soltanto l’esistenza di un suo credito verso il traente.

4.3. Solo se fosse risultata dimostrata la sua partecipazione all’illecito commesso dal contraffattore, la convenuta poteva essere chiamata a rispondere degli assegni bancari in questione: ma a norma dell’art. 2043 c.c. e cioè per una causa del tutto diversa da quella connessa all’oggetto della controversia, costituita dall’obbligo di rendiconto ai sensi dell’art. 263 c.p.c. e segg.. E se ciò vale per gli assegni incassati dalla ricorrente, a maggior ragione deve valere per quelli emessi all’ordine al marito, nessuna rilevanza potendo assumere il fatto che costui fosse il relativo consorte.

4.4. La corte d’appello, quindi, ha concluso la ricorrente, ha violato e fatto falsa applicazione delle norme di cui agli artt. 263 c.p.c. e segg., per aver ritenuto la sussistenza dell’obbligo di rendiconto pur in mancanza del necessario presupposto legale o negoziale, per aver ritenuto la sua responsabilità ai sensi dell’art. 2043 c.c., pur in mancanza di qualsiasi prova al riguardo, per aver violato la norma di cui all’art. 2697 c.c., sull’onere della prova nonchè quella stabilita dall’art. 112 c.p.c., avendo stabilito la responsabilità della convenuta pur in assenza di qualsiasi domanda in tal senso, e per aver, infine, violato l’art. 115 c.p.c., non essendo stata posta a fondamento della decisione la prova proposta dalla parte onerata.

5.1. Con il quinto motivo, la ricorrente, lamentando la violazione e la falsa applicazione di norme di diritto, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, in relazione agli artt. 90,91, 92 e 100 c.p.c., ha censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte d’appello ha ritenuto che le spese della consulenza tecnica d’ufficio e della consulenza tecnica di parte grafologica dovessero rimanere a carico delle parti nella misura pari alle metà ciascuna in quanto effettuate nell’interesse reciproco delle stesse.

5.2. Così facendo, però, ha osservato la ricorrente, la corte d’appello non ha considerato che la procedura prevista dall’art. 221 c.p.c., è stata chiesta, in via incidentale, solamente dalle attrici e che la convenuta ha mantenuto un atteggiamento processuale assolutamente neutrale, non avendo dedotto alcunchè in ordine alla contestazione, da parte delle attrici, delle firme di traenza di ben sessantuno assegni bancari, dei quali solo diciassette risultate apocrife, e non si è opposta al procedimento così instaurato.

5.3. Ne consegue che le spese relative al procedimento di consulenza tecnica grafologica richiesta dalle attrici dovevano essere liquidate a norma dell’art. 90 c.p.c., il quale stabilisce che ciascuna parte deve provvedere alle spese degli atti che compie e di quelli che chiede.

5.4. La corte d’appello, peraltro, ha aggiunto la ricorrente, ha violato l’art. 91 c.p.c., il quale prescrive che le spese devono essere poste a carico della parte soccombente laddove, nel caso di specie, la convenuta non è risultata in alcun modo soccombente nè è responsabile in ordine al procedimento incidentale di cui all’art. 221 c.p.c., chiesto dalla controparte.

6.1. Con il sesto motivo, la ricorrente, lamentando la violazione e la falsa applicazione di norme, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, in relazione agli artt. 1992 e 1277 c.c. e alle norme sull’assegno bancario, già citate nei precedenti motivi, quale mezzo di pagamento, nonchè agli artt. 263 c.p.c. e segg., ha censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte d’appello, con riguardo alla voce “soldi al nipote M.”, ha ritenuto che si tratta di assegni che vedono come beneficiaria l’appellante incidentale e il di lei figlio con la conseguenza che la stessa, in quanto gestore del patrimonio della defunta, era tenuta a rendere il conto dell’uso della somma così ricevuta.

6.2. Così facendo, però, ha osservato la ricorrente, la corte d’appello non ha considerato che la convenuta, quale prenditrice degli assegni in questione, non è tenuta a rendere conto dell’uso delle somme ricevute attraverso l’emissione degli assegni bancari da parte della de cuius, dal momento che l’emissione di un assegno bancario è un fatto da quale, in assenza di prova di un diverso negozio, è deducibile solo l’esistenza di un debito pecuniario del traente verso il prenditore il quale non deve rendere conto dell’uso del denaro così ricevuto.

7.1. Il primo, il secondo, il terzo, il quarto ed il sesto motivo, da esaminare congiuntamente per l’intima connessione dei temi trattati, sono infondati.

7.2. La corte d’appello, in effetti, con accertamento in fatto che la ricorrente non ha censurato con la specifica indicazione di uno o più fatti decisivi che la stessa avrebbe omesso di esaminare ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, nel testo applicabile ratione temporis, ha ritenuto che, alla luce delle prove raccolte in giudizio, la convenuta abbia svolto “il ruolo di amministratrice di fatto nella gestione patrimoniale della de cuius dal 2002 sino al rilascio della formale delega (nel mese di gennaio del 2004) e poi oltre, sino al decesso avvenuto nel gennaio 2006”, a nulla rilevando, “attesa l’età cronologica della stessa, nata nel 1903”, che la defunta avesse conservato il potere di operare sul proprio conto corrente. Ed è noto come il terzo che, senza esservi obbligato, abbia assunto la gestione di un altrui patrimonio, è tenuto, al pari di chi abbia ricevuto uno specifico incarico in tal senso (art. 1703 c.c. e segg.), ad adempiere alle stesse obbligazioni che deriverebbero da un mandato (art. 2030 c.c.), tra le quali, in particolare, una volta conclusa la sua attività, il dovere di rendere all’interessato (ovvero, dopo la sua morte, ai relativi eredi: cfr. Cass. n. 7254 del 2013) il conto del suo operato (art. 1713 c.c.). Nel caso di specie, quindi, una volta stabilito, in fatto, che la convenuta, nel periodo che va dal 2002 fino alla morte della madre, è stata, sia pur in mancanza di una formale investitura, ricevuta soltanto nel mese di gennaio del 2004, l’amministratrice (evidentemente esclusiva, “attesa l’età cronologica della stessa, nata nel 1903”) del patrimonio della madre (incontestatamente formato soltanto dagli accreditamenti confluiti sul conto corrente intestato a quest’ultima), la stessa era, evidentemente, tenuta, tanto per il primo, quanto per il secondo periodo (fino al decesso), a presentare agli (altri) eredi della madre il conto della gestione delle predette somme, fornendo la prova, attraverso la produzione dei corrispondenti documenti giustificativi, di tutte le relative operazioni, con l’indicazione della rispettiva causale e della corrispondente misura monetaria: non soltanto, quindi, delle somme che ha incassato ma anche (e soprattutto) degli esborsi che ha eseguito per conto dell’interessato, con la conseguenza che, in mancanza, il versamento a terzi (ed, a fortiori, il prelievo diretto alla cassa o a mezzo di assegni) delle somme che la stessa aveva dedotto di aver eseguito nell’interesse del mandante, risultano privi della necessaria giustificazione causale: come, in effetti, ha ritenuto la corte d’appello.

7.3. Quanto, poi, alla dedotta approvazione del rendiconto, rileva la Corte che, a ben vedere, le difese che la ricorrente ha dispiegato nel giudizio d’appello, per come incontestatamente esposte nella sentenza impugnata, non risultano aver in alcun modo riguardato la questione dell’intervenuta approvazione del rendiconto da parte delle attrici. Ed è, invece, noto che i motivi del ricorso per cassazione non possono riguardare nuove questioni di diritto se esse postulano indagini ed accertamenti in fatto non compiuti dal giudice del merito ed esorbitanti dai limiti funzionali del giudizio di legittimità: in effetti, secondo il costante insegnamento di questa Corte (cfr. Cass. n. 20518 del 2008; Cass. n. 6542 del 2004; di recente, Cass. n. 20694 del 2018), qualora una determinata questione giuridica, che implichi un accertamento di fatto, non risulti trattata in alcun modo nella sentenza impugnata, il ricorrente che proponga la suddetta questione in sede di legittimità, al fine di evitare una statuizione d’inammissibilità per novità della censura, ha l’onere non solo di allegare l’avvenuta deduzione della questione dinanzi al giudice di merito, ma anche, per il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, di indicare in quale atto del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dar modo alla Corte di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione, prima di esaminare nel merito la questione stessa: ciò che, nella specie, non risulta essere accaduto.

7.4. Per il resto, la Corte ritiene che la ricorrente, pur invocando la violazione di norme processuali, abbia, in sostanza, lamentato l’apprezzamento delle prove raccolte da parte del giudice di merito. Sennonchè, solo l’errore di percezione, cadendo sulla ricognizione del contenuto oggettivo della prova, qualora investa una circostanza che ha formato oggetto di discussione tra le parti, è sindacabile in sede di legittimità ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4, per violazione dell’art. 115 c.p.c., norma che vieta di fondare la decisione su prove reputate dal giudice esistenti ma in realtà mai offerte: al contrario, l’errore di valutazione in cui sia incorso il giudice di merito – e che investe l’apprezzamento della fonte di prova come dimostrativa, o meno, del fatto che si intende provare – non è mai sindacabile in sede di legittimità (cfr. Cass. n. 27033 del 2018). La valutazione delle prove raccolte, in effetti, costituisce un’attività riservata in via esclusiva all’apprezzamento discrezionale del giudice di merito, le cui conclusioni in ordine alla ricostruzione della vicenda fattuale non sono sindacabili in cassazione (Cass. n. 11176 del 2017): com’è noto, non è compito di questa Corte quello di condividere o non condividere la ricostruzione dei fatti contenuta nella decisione impugnata nè quello di procedere ad una rilettura degli elementi di fatto posti fondamento della decisione, al fine di sovrapporre la propria valutazione delle prove a quella compiuta dai giudici di merito (Cass. n. 3267 del 2008), dovendo, invece, solo controllare se costoro abbiano dato conto delle ragioni della loro decisione e se il loro ragionamento probatorio, qual è reso manifesto nella motivazione del provvedimento impugnato, si sia mantenuto nei limiti del ragionevole e del plausibile (Cass. n. 11176 del 2017): come, in effetti, è accaduto nel caso in esame. La corte d’appello, invero, dopo aver valutato i documenti e le prove testimoniali raccolte in giudizio, ha, in modo logico e coerente, indicato le ragioni per le quali ha ritenuto che la convenuta, a partire dal 2002, aveva gestito, sia pur in via di mero fatto, il patrimonio della madre oramai centenaria e, segnatamente, le somme confluite sul conto corrente intestato alla stessa.

7.5. Tale valutazione, del resto, si sottrae alle censure svolte dalla ricorrente anche sotto il profilo della invocata violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., deducibile in cassazione, a norma dell’art. 360 c.p.c., n. 4, solo se ed in quanto si alleghi, rispettivamente, che il giudice non abbia posto a fondamento della decisione le prove dedotte dalle parti, cioè abbia giudicato in contraddizione con la prescrizione della norma, o contraddicendola espressamente, e cioè dichiarando di non doverla osservare, o contraddicendola implicitamente, e cioè giudicando sulla base di prove non introdotte dalle parti e disposte invece di sua iniziativa al di fuori dei casi in cui gli sia riconosciuto un potere officioso di disposizione del mezzo probatorio, ovvero che il giudice, nel valutare una prova ovvero una risultanza probatoria, o non abbia operato, pur in assenza di una diversa indicazione normativa, secondo il suo “prudente apprezzamento”, pretendendo di attribuirle un altro e diverso valore, oppure il valore che il legislatore attribuisce ad una differente risultanza probatoria (come, ad esempio, valore di prova legale), o che abbia dichiarato di valutare la stessa secondo il suo prudente apprezzamento laddove la prova era soggetta ad una specifica regola di valutazione: resta, dunque, fermo che tali violazioni non possono essere ravvisate, com’è accaduto nel caso di specie, nella mera circostanza che il giudice abbia valutato le prove proposte dalle parti attribuendo maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre.

8. Il quinto motivo è infondato. La corte d’appello, infatti, lì dove ha stabilito che le spese della consulenza tecnica d’ufficio e quelle della consulenza tecnica di parte grafologica dovevano rimanere a carico delle parti nella misura pari alle metà ciascuna, ha, in sostanza, provveduto, anzichè a condannare la convenuta soccombente al relativo ed integrale pagamento, ad una parziale compensazione, tra le parti, del relativo peso, lasciandone la metà a carico delle attrici, che l’avevano chiesta: e ciò in ragione sia del fatto che si è trattato di spese sostenute nell’interesse reciproco delle stesse, trattandosi di attività volta alla ricostruzione del patrimonio ereditario sulle quali le stesse concorrevano per una quota pari al cinquanta per cento ciascuna, sia del fatto che era mancata la prova della contraffazione della sottoscrizione del traente da parte dell’appellata. Ed è noto che, con riferimento al regolamento delle spese di lite, il sindacato della Corte di cassazione è limitato ad accertare che non risulti violato il principio secondo il quale le spese non possono essere poste a carico della parte vittoriosa, con la conseguenza che esula da tale sindacato e rientra nel potere discrezionale del giudice di merito la valutazione dell’opportunità di compensare in tutto o in parte le spese di lite, e ciò sia nell’ipotesi di soccombenza reciproca, sia nell’ipotesi di concorso con altri giusti motivi (cfr. Cass. n. 8421 del 2017; Cass. n. 930 del 2015).

9. Il ricorso dev’essere, pertanto, rigettato.

10. Le spese di lite seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo.

11. La corte, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

PQM

La Corte così provvede: rigetta il ricorso; condanna la ricorrente a rimborsare alle controricorrenti le spese di lite, che liquida in Euro 5.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre accessori di legge e spese generali nella misura del 15%; dà atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, il 19 novembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 28 maggio 2020

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