Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 10071 del 09/05/2011

Cassazione civile sez. un., 09/05/2011, (ud. 19/04/2011, dep. 09/05/2011), n.10071

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VITTORIA Paolo – Primo presidente f.f. –

Dott. PROTO Vincenzo – Presidente di sezione –

Dott. D’ALONZO Michele – Consigliere –

Dott. FORTE Fabrizio – Consigliere –

Dott. CURCURUTO Filippo – Consigliere –

Dott. TOFFOLI Saverio – Consigliere –

Dott. DI CERBO Vincenzo – Consigliere –

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Consigliere –

Dott. BOTTA Raffaele – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

P.C., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA PANAMA 58,

presso lo studio dell’avvocato MEDUGNO LUIGI, che lo rappresenta e

difende unitamente agii avvocati VACCARELLA ROMANO, SAMMARCO ANGELO

ALESSANDRO, per delega a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

PROCURATORE GENERALE PRESSO LA CORTE DI CASSAZIONE, CONSIGLIO

NAZIONALE FORENSE, CONSIGLIO DELL’ORDINE DEGLI AVVOCATI DI ROMA,

PROCURATORE DELLA REPUBBLICA PRESSO IL TRIBUNALE DI ROMA, PROCURATORE

GENERALE DELLA REPUBBLICA PRESSO LA CORTE D’APPELLO DI ROMA;

– intimati –

avverso la decisione n. 79/2010 del CONSIGLIO NAZIONALE FORENSE,

depositata il 12/10/2010;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

19/04/2011 dal Consigliere Dott. RAFFAELE BOTTA;

udito l’Avvocato Angelo Alessandro SAMMARCO;

udito il P.M. in persona dell’Avvocato Generale Dott. IANNELLI

Domenico, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

La controversia concerne il procedimento disciplinare avviato dal COA di Roma nei confronti dell’avv. P.C. con deliberazione del 14 gennaio 1999, in ragione della richiesta di rinvio a giudizio del professionista formulata dalla Procura della Repubblica di Milano per il ruolo che si assumeva questi avesse svolto nella vicenda relativa al contenzioso IMI-SIR: la ricordata deliberazione contestava al professionista gli stessi fatti che costituivano oggetto della imputazione nel processo penale.

Con successiva deliberazione del 15 aprile 1999, il COA disponeva la sospensione del procedimento disciplinare in attesa della pronuncia della sentenza penale di primo grado. Seguivano poi citazioni a comparire dell’incolpato del 18 novembre 2003 e del 28 luglio 2004, riproduttive dell’incolpazione originariamente formulata, e alcuni rinvii, finchè con deliberazione del 25 maggio 2006, intervenuta la sentenza definitiva della Corte di Cassazione del 4 maggio 2006, il COA disponeva di dare esecuzione, con decorrenza dal 25 maggio 2006 al 25 maggio 2011, alla pena accessoria dell’interdizione dalla professione per anni cinque inflitta in sede penale al professionista. Successivamente con deliberazione del 6 febbraio 2007 il procedimento disciplinare era rimesso in istruttoria e l’incolpazione definitivamente riformulata, sulla base dell’esito del processo penale, con deliberazione dell’8 febbraio 2007. Il COA, quindi, esaurito il dibattimento, affermava la responsabilità disciplinare dell’incolpato, irrogandogli la sanzione della radiazione. Il Consiglio Nazionale Forense rigettava l’impugnazione, con la decisione in epigrafe, avverso la quale l’incolpato propone ricorso per cassazione, illustrato anche con memoria, con cinque motivi.

Diritto

MOTIVAZIONE

Con il primo motivo, il ricorrente contesta, sotto il profilo della violazione di legge e del vizio di motivazione, la legittimità della composizione dell’organo giudicante (il COA di Roma), in quanto all’udienza di discussione del 27 maggio 2008 sarebbero stati chiamati a partecipare, non tutti i componenti dell’organo, ma solo i consiglieri che avevano presenziato nella precedente riunione del 29 aprile 2008, nella quale si era svolto il nuovo interrogatorio dell’incolpato dopo la riformulazione dell’incolpazione. Si tratta di un motivo che riproduce un’eccezione già formulata innanzi al CNF (il quinto in quella sede) per contestare l’irregolare composizione del Collegio che aveva emesso la decisione impugnata, e respinta sul presupposto della necessità che siffatto tipo di eccezione dovesse essere sollevata immediatamente innanzi all’organo giudicante e non potesse farsi successivamente nella fase di impugnazione innanzi al CNF (tale eccezione, afferma la decisione impugnata, doveva essere proposta in limine dell’udienza di discussione svoltasi davanti al Consiglio territoriale e non può essere dedotta come motivo di impugnazione nei ricorso al Consiglio Nazionale forense).

Il motivo è infondato e la decisione impugnata ha correttamente pronunciato sul punto, in coerenza con l’orientamento espresso da questa Corte, secondo cui: In tema di procedimento disciplinare a carico di avvocati, la censura di irregolare composizione del Consiglio dell’ordine per mancata rituale convocazione di tutti i membri dello stesso, ove la relativa eccezione non sia già stata sollevata nel corso del procedimento disciplinare dinanzi al medesimo Consiglio dell’ordine, non può essere dedotta, come motivo di impugnazione, dinanzi al Consiglio nazionale forense, nè, tanto meno, per la prima volta, dinanzi alle Sezioni Unite della Corte di cassazione (Sez. Un., 4 maggio 2004, n. 8431; 6 luglio 2005, n. 14214 e 28 ottobre 2005, n. 20997).

Peraltro, dalla inapplicabilità del principio di invariabilità del collegio nel procedimento disciplinare, di carattere amministrativo, che si svolge innanzi al COA, non consegue (e nemmeno potrebbe logicamente conseguire) la nullità del procedimento stesso nel quale per avventura quel principio sia stato di fatto applicato, costituendo il rispetto del suddetto principio una maggiore (e non una minore) garanzia per l’incolpato. L’unico principio inderogabile nel procedimento disciplinare innanzi al COA è il rispetto del quorum (v. Sez. Un., 26 giugno 2001, n. 8748), il cui eventuale mancato rispetto, nel caso di specie, nemmeno è dedotto (e avrebbe dovuto esserlo innanzi al CNF, non essendo la relativa questione rilevabile d’ufficio e denunciabile per la prima volta nel ricorso per cassazione avverso la decisione del CNF: v. Sez. Un., 14 giugno 2000, n. 435).

Con il secondo motivo, il ricorrente contesta, sotto il profilo della violazione di legge e del vizio di motivazione, la mancata astensione da parte del Presidente del COA di Roma e del consigliere relatore, ai quali il ricorrente addebiterebbe l’aver espresso opinioni che, a suo avviso, suonavano come espressione di un pregiudizio.

Anche in questo caso si tratta della riproposizione di una censura sollevata nella fase di impugnazione innanzi al CNF (in quella sede, il primo motivo) e respinta in quanto, non essendo stato dedotto nella specie che il giudice avesse nella causa “un interesse diretto e proprio” e mancando una specifica istanza di ricusazione, la violazione dell’obbligo di astensione (quand’anche sussistente) non determina la nullità della decisione emessa.

Il motivo non è fondato e la decisione impugnata ha pronunciato in coerenza con l’orientamento espresso da questa Corte secondo cui:

La sentenza pronunciata da un giudice che abbia violato l’obbligo di astenersi, di cui all’art. 51 c.p.c., n. 1, è nulla soltanto se quel giudice aveva un interesse proprio e diretto nella causa, tale da porlo nella qualità di parte del giudizio. Negli altri casi la violazione dell’obbligo di astensione può costituire solo motivo di ricusazione, con la conseguenza che quella violazione resta ininfluente (e non determina la nullità della sentenza) se la relativa istanza non è tempestivamente proposta (Cass. 27 maggio 2009, n. 12263; 12 novembre 2009, n. 23930).

Con il terzo motivo di ricorso, il ricorrente contesta, sotto il profilo della violazione di legge e del vizio di motivazione, la mancata dichiarazione di improcedibilità dell’azione disciplinare per la prevalenza della già disposta cancellazione amministrativa:

ad avviso del ricorrente il provvedimento adottato dal COA per dare seguito alla pena accessoria dell’interdizione dalla professione per anni cinque infettagli nel processo penale avrebbe escluso che l’azione disciplinare potesse continuare ad essere coltivata.

Ancora una volta ci si trova di fronte alla riproposizione di una eccezione sollevata innanzi al CNF (in quella sede il secondo motivo) e respinta perchè il provvedimento adottato dal COA, e censurato dal ricorrente, era un provvedimento di sospensione dall’esercizio della professione per un determinato spazio temporale, e non la radiazione (poi inflitta all’esito del procedimento disciplinare). Il motivo non è fondato, in quanto il provvedimento emesso dal COA, e che qui si discute, non aveva irrogato al ricorrente la sanzione della radiazione, ma si era limitato, come la stessa formulazione lo evidenzia, ad una mera esecuzione, con un limite temporale fissato dal 25 maggio 2006 al 25 maggio 2011, del provvedimento di interdizione emesso dal giudice penale come pena accessoria. Sicchè non poteva tale provvedimento, stante la sua dichiarata temporaneità e la mancata irrogazione della sanzione della radiazione, impedire la prosecuzione del procedimento disciplinare ai sensi della L.P., art. 44 (detta norma, infatti, prevede, e ragionevolmente, che solo la già inflitta sanzione della radiazione possa precludere l’esercizio dell’azione disciplinare ivi considerata). Con il quarto motivo, che riassuntivamente esprime la medesima censura sollevata innanzi al CNF (con il terzo e quarto motivo di allora, replicati nell’esposizione della memoria depositata ai sensi dell’art. 378 c.p.c.), il ricorrente contesta, sotto il profilo della violazione di legge e del vizio di motivazione, l’affermata natura prescrizionale (e non decadenziale) del termine previsto dalla L. P., art. 51, negando l’autonomia tra procedimento disciplinare e processo penale, che ostava alla sospensione del primo in attesa dell’esito del secondo e non aveva la forza di impedire la decorrenza del termine assunto di decadenza.

Il motivo non è fondato. Questa Corte non ha dubitato della natura prescrizionale del termine previsto dall’art. 51 LP. (Cass., S.U., 7 dicembre 2006, n. 26182) ed ha affermato che agli effetti della prescrizione dell’azione disciplinare di cui al R.D.L. 27 novembre 1933, n. 1578, art. 51 recante l’ordinamento delle professioni di avvocato e procuratore, occorre distinguere il caso, previsto dall’art. 38, in cui il procedimento disciplinare tragga origine da fatti punibili solo in tale sede, in quanto violino esclusivamente i doveri di probità, correttezza e dirittura professionale, dal caso, previsto dall’art. 44, in cui il procedimento disciplinare abbia luogo per fatti costituenti anche reato e per i quali sia stata iniziata l’azione penale.

L’azione disciplinare prevista dall’art. 38 è, infatti, collegata ad ipotesi generiche ed a fatti anche atipici (nonostante il tentativo di tipizzazione degli illeciti realizzato con l’adozione, da parte del Consiglio nazionale forense, il 17 aprile 1997, di un “codice deontologico forense”), e contempla un potere d’iniziativa abbastanza discrezionale, esercitabile con il solo riferimento alla condotta tenuta dall’iscritto, con la conseguenza che il termine prescrizionale comincia a decorrere dalla commissione del fatto;

l’azione disciplinare prevista dall’art. 44 è, invece, collegata al fatto storico di una pronuncia penale che non sia di proscioglimento perchè il fatto non sussiste o perchè l’imputato non lo ha commesso, ha come oggetto lo stesso fatto per il quale è stata formulata una imputazione, ha natura obbligatoria e non può essere iniziata prima che se ne sia verificato il presupposto, con la conseguenza che la prescrizione decorre dal momento in cui il diritto di punire può essere esercitato, e cioè dal passaggio in giudicato della sentenza penale, costituente un fatto esterno alla condotta.

Resta pertanto irrilevante, secondo la disciplina dell’art. 44, il periodo decorso dalla commissione del fatto all’instaurazione del procedimento penale, anche se in tale periodo il Consiglio dell’Ordine, venuto a conoscenza del fatto, abbia avviato il procedimento disciplinare, per poi sospenderlo di fronte all’avvenuto inizio dell’azione penale. L’indicata disciplina non è mutata per effetto dell’art. 653 (nuovo) c.p.p., nè è incisa dalla L. 7 agosto 1990, n. 241, art. 2 (nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi) (Sez. Un., 15 luglio 2005, n. 14985; 10 novembre 2006, n. 24093).

Alla luce di siffatto principio appare assolutamente irrilevante ogni discussione sul tempo trascorso tra commissione del fatto e instaurazione del procedimento disciplinare e sulla eventuale sospensione deliberata (come è avvenuto nel caso di specie) per il procedimento disciplinare che sia stato eventualmente avviato. Quanto alla sospensione, comunque, non si può dubitare del carattere necessario della stessa come affermato da questa Corte: In tema di procedimento disciplinare nei confronti di avvocati, per effetto della modifica dell’art. 653 cod. proc. pen. disposta dalla L. n. 97 del 2001, art. 1 – per cui l’efficacia di giudicato della sentenza penale di assoluzione, nel giudizio disciplinare, non è più limitata alla sentenza dibattimentale e si estende, oltre alle ipotesi di assoluzione perchè “il fatto non sussiste” e “l’imputato non lo ha commesso”, a quella disposta perchè “il fatto non costituisce reato” – qualora l’addebito abbia ad oggetto gli stessi fatti contestati in sede penale, si impone la sospensione del giudizio disciplinare in pendenza del procedimento penale, ai sensi dell’art. 295 cod. proc. civ. Posto che l’art. 653 cod. proc. pen., anche a seguito di detta modifica, si riferisce ai procedimenti disciplinari davanti alle “pubbliche autorità”, deve ritenersi che la pregiudizialità operi anche nella fase amministrativa del procedimento, escludendo la decorrenza del termine prescrizionale, a prescindere dall’effettiva sussistenza di un provvedimento di sospensione del procedimento disciplinare (Sez. Un., 1 febbraio 2010, n. 2223). Tenuto conto che, diversamente da quanto il ricorrente dimostra di ritenere, tale riforma dell’art. 653 cod. proc. pen. si applica anche ai procedimenti in corso all’entrata in vigore della legge, come era quello qui in esame, ai sensi dell’art. 10, comma 1, della legge stessa, a norma del quale “le disposizioni della presente legge si applicano ai procedimenti penali, ai giudizi civili e amministrativi e ai procedimenti disciplinari in corso alla data dì entrata in vigore della legge stessa”.

Con il quinto motivo, il ricorrente sollecita una lettura costituzionalmente orientata delle norme che egli ha assunto come violate nel procedimento disciplinare da lui subito (in particolare le questioni relative alla illegittima formazione del collegio, al dovere dì astensione e alla prescrizione).

Le argomentazioni del ricorrente che soffrono di una sostanziale genericità, fanno appello ad una sentenza (Sez. Un., 15 dicembre 2008, n. 29294), la quale, tuttavia, ha una sfera di applicazione assai limitata: quella di consentire l’impugnazione immediata innanzi ai CNF della decisione di un COA di avviare un procedimento disciplinare a carico di un avvocato in modo che possa realizzarsi un più rapido intervento di un giudice terzo e imparziale sulla legittimità dell’avvio del procedimento. Nè è vero che le pronunce di questa Corte, alle quali qui si è fatto riferimento nell’esame delle singole questioni, siano decisioni risalenti e formate in un diverso “clima” giuridico, perchè si tratta di pronunce recenti, costantemente confermate, dalle quali, peraltro, non emerge alcun sospetto di non conformità a Costituzione delle norme valutate ne caso di specie, le quali sono norme che riproducono, specialmente nella prospettiva d’esame di questa Corte, norme applicabili nell’esercizio dell’ordinaria giurisdizione.

Il ricorso deve essere, pertanto, rigettato. Non occorre provvedere sulle spese stante la mancata costituzione del COA di Roma.

P.Q.M.

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE Rigetta il ricorso.

Così deciso in Roma, il 19 aprile 2011.

Depositato in Cancelleria il 9 maggio 2011

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