Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 10069 del 28/05/2020

Cassazione civile sez. II, 28/05/2020, (ud. 02/10/2019, dep. 28/05/2020), n.10069

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. COSENTINO Antonello – Presidente –

Dott. DE MARZO Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – Consigliere –

Dott. DONGIACOMO Giuseppe – Consigliere –

Dott. OLIVA Stefano – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 22165/2016 proposto da:

B.A., elettivamente domiciliata in ROMA, CORSO TRIESTE 185,

presso lo studio dell’avvocato RAFFAELE VERSACE, rappresentata e

difesa dall’avvocato RAFFAELE PELLEGRINO;

– ricorrente –

contro

C.A., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DOMENICO

MILLELIRE 47, presso lo studio dell’avvocato ISABELLA AQUINO,

rappresentato e difeso dagli avvocati FRANCESCO RUBINO, MARIA

ALESSANDRA DI NUCCI;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1115/2016 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 19/02/2016;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

02/10/2019 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE DE MARZO;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CELESTE Alberto, che ha concluso per l’accoglimento del primo motivo

del ricorso, assorbiti i restanti;

udito l’Avvocato Raffaele Pellegrino, difensore della ricorrente, che

ha chiesto l’accoglimento del ricorso;

udito l’Avvocato Fabio Fiduccia, con delega depositata in udienza

dagli avvocati Maria Alessandra Di Nucci e Francesco Rubino,

difensori del resistente, che ha chiesto il rigetto del ricorso.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Con sentenza depositata il 19 febbraio 2016, la Corte d’appello di Roma ha respinto l’appello proposto nell’interesse di B.A. nei confronti di C.A., avverso la decisione di primo grado che, in accoglimento della domanda proposta da quest’ultimo, aveva condannato la prima alla demolizione o all’arretramento a cinque metri dal confine del manufatto realizzato in violazione delle distanze legali.

2. Per quanto ancora rileva, la Corte territoriale ha osservato: a) che il Tribunale, cogliendo nella condotta della B., una violazione del D.M. 2 aprile 1968, n. 1444, anzichè della diversa previsione invocata dall’attore (art. 17 delle norme tecniche di attuazione del piano regolatore del Comune di Gaeta), non aveva violato il principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato; b) che, pertanto, la domanda di demolizione di una costruzione per violazione delle norme in materia di distanze legali, non precludeva al giudice la possibilità di pronunciarsi, avendo riguardo, oltre che alle distanze previste tra costruzioni, anche a quelle afferenti al confine; c) che il D.M. n. 1444 del 1968, art. 9, prescrive, con disposizione inderogabile, la distanza minima assoluta di dieci metri tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti; d) che il criterio di prevenzione è inapplicabile qualora il regolamento edilizio comunale imponga una determinata distanza minima assoluta tra pareti finestrate di una costruzione e pareti degli edifici antistanti, poichè siffatto criterio comporta un implicito riferimento al confine.

3. Avverso tale sentenza la B. ha proposto ricorso per cassazione affidato a sei motivi cui ha resistito con controricorso il C.. Entrambe le parti hanno depositato memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c., in vista dell’udienza del 23 maggio 2019. A seguito del rinvio all’udienza del 2 ottobre 2019, è stata depositata una seconda memoria nell’interesse della B., con la quale, oltre a sollevare la questione della nullità della decisione, ove adottata da collegio diverso da quello previsto per il 23 maggio 2019, si ripropongono le considerazioni oggetto della precedente memoria e, in particolare, la richiesta di cancellazione, ai sensi dell’art. 89 c.p.c., di alcune espressioni contenute nel controricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Nella seconda memoria depositata nell’interesse della B., ai sensi dell’art. 378 c.p.c., si prospetta, in via preventiva, una nullità della decisione assunta, a seguito dell’udienza del 2 ottobre 2019, da un collegio diverso da quello originariamente investito del procedimento all’udienza del 23 maggio 2019.

Parte ricorrente ritiene tale conclusione una conseguenza della mancata modifica dei criteri tabellari in forza dei quali era stato individuato l’originario collegio.

Il rilievo, del tutto genericamente formulato, è privo di qualunque fondamento, per l’assorbente ragione che, ove pure fosse individuata una violazione dei criteri tabellari (che, peraltro, la ricorrente non si cura, come detto, di indicare), comunque non ne discenderebbe la conseguenza della nullità della decisione.

Infatti, come chiarito dal R.D. 30 gennaio 1941, n. 12, art. 7-bis, u.c., nel solco di una elaborazione giurisprudenziale che era già giunta a tali risultati prima della modifica normativa operata dalla L. 30 luglio 2007, n. 111, art. 4, comma 19, lett. b), (Cass., Sez. Un., 3 settembre 2009, n. 19161), la violazione dei criteri per l’assegnazione degli affari non determina in nessun caso la nullità dei provvedimenti adottati.

2. Con il primo motivo si lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione o falsa applicazione degli artt. 99,112,277 c.p.c., per avere la Corte d’appello, nel richiamare la decisione di primo grado, omesso di confrontarsi col fatto che il C. aveva fondato la propria domanda di arretramento invocando una previsione delle norme tecniche di attuazione dello strumento urbanistico di Gaeta, senza successivamente curarsi di integrarla o modificarla.

Aggiunge la ricorrente: a) che il D.M. n. 1444 del 1968, art. 9, era stato introdotto nella discussione dal consulente tecnico d’ufficio, incaricato di accertare, senza che la controparte ne avesse mai fatto cenno, un eventuale aumento di volume del fabbricato realizzato dalla B.; b) che l’art. 9 cit. comunque regola le distanze tra fabbricati, ossia una vicenda estranea alla prospettazione della controparte, sul cui fondo non insisteva alcun edificio (e, infatti, solo i giudici di merito – ma non il consulente – avevano affermato che il manufatto della B. avrebbe avuto una parete finestrata); c) che, sempre in assenza di domanda, il consulente aveva fatto derivare dalla norma menzionata la conseguenza che l’opera della B. avrebbe determinato una servitù di veduta e di stillicidio, peraltro correlando la prima ad un muretto di confine, assertivamente ritenuto realizzato nel 2007.

La doglianza è infondata.

E’ stato infatti condivisibilmente ritenuto che la domanda di demolizione di una costruzione per la generica violazione delle norme in tema di distanze legali non esclude che il giudice, investito della decisione, possa pronunciarsi sulla legittimità dell’opera avuto riguardo alle previste distanze non solo fra costruzioni, ma anche dal confine (nonchè a quelle stabilite della normativa cosiddetta antisismica di cui alla L. 25 novembre 1962, n. 1684), senza per questo incorrere in violazione dell’art. 112 c.p.c. (Cass. 2 luglio 2014, n. 15105).

3. Con il secondo motivo si lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, omesso esame di fatti decisivi oggetto di discussione nonchè, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione dell’art. 2697 c.c. e art. 115 c.p.c., per avere i giudici di merito, in totale contrasto con le risultanze della relazione tecnica, ritenuto sussistente una parete finestrata e, nell’ipotesi che avessero condiviso l’affermazione del consulente tecnico, quanto all’aumento di volume realizzato dalla B., affermato un fatto privo di qualunque prova. Aggiunge il ricorrente che del tutto priva di sostegno dimostrativo è l’ipotesi di una illegittimità urbanistica della costruzione della B., al contrario oggetto di sanatoria.

La doglianza è inammissibile, in quanto rappresenta una critica del tutto priva di correlazione con la ratio decidendi, che non accerta l’esistenza di pareti finestrate nel fondo del C. o servitù o aumenti di volume o irregolarità urbanistiche, ma si limita a ritenere applicabile il citato art. 9 alla vicenda in esame.

4. Con il terzo motivo si lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione dell’art. 949 c.c., per avere il Tribunale ritenuto di qualificare l’azione del C. come negatoria servitutis, laddove mai la B. aveva inteso affermare l’esistenza di un proprio diritto in conflitto con quello della controparte.

Anche siffatta doglianza è infondata.

Come ricordato di recente da Cass. 19 gennaio 2017, n. 1395, va qualificata in termini di servitù la pretesa avente ad oggetto il mantenimento di una costruzione a distanza inferiore a quella fissata dal codice civile o dai regolamenti e dagli strumenti urbanistici e quindi di negatoria servitutis la contrapposta pretesa del confinante.

5. Con il quarto motivo si lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, falsa applicazione del D.M. n. 1444 del 1968, art. 9, rilevando che la previsione, peraltro non immediatamente operante nei rapporti tra privati, presuppone l’esistenza di fabbricati frontistanti.

La censura è fondata.

Il D.M. n. 1444 del 1968, art. 9, n. 2, non impone di rispettare in ogni caso una distanza minima dal confine, ma va interpretato, in applicazione del principio di prevenzione, nel senso che tra una parete finestrata e l’edificio antistante va mantenuta la distanza di dieci metri, con obbligo del prevenuto di arretrare la propria costruzione fino ad una distanza di cinque metri dal confine, se il preveniente, nel realizzare tale parete finestrata, abbia a sua volta osservato una distanza di almeno cinque metri dal confine. Ove, invece, il preveniente abbia posto una parete finestrata ad una distanza inferiore a detto limite, il vicino non sarà tenuto ad arretrare la propria costruzione fino alla distanza di 10 metri dalla parete stessa, ma potrà imporre al preveniente di chiudere le aperture e costruire (con parete non finestrata) rispettando la metà della distanza legale dal confine, ed eventualmente procedere all’interpello di cui all’art. 875 c.c., comma 2, qualora ne ricorrano i presupposti (Cass. 19 febbraio 2019, n. 4848; Cass. 7 marzo 2002, n. 3340).

E’ alla stregua di tale lettura della norma che la Corte territoriale di rinvio dovrà operare la valutazione di fondatezza della pretesa esercitata.

6. Con il quinto motivo si lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione o falsa applicazione degli artt. 900 – 907 c.c., inapplicabili nel caso, sussistente nella specie, di mere luci.

Anche tale doglianza è fondata.

Posto che nella disciplina legale dei “rapporti di vicinato” l’obbligo di osservare nelle costruzioni determinate distanze sussiste solo in relazione alle vedute, e non anche alle luci, la dizione “pareti finestrate” contenuta in un regolamento edilizio che si ispiri al D.M. n. 1444 del 1968, art. 9 – il quale prescrive nelle sopraelevazioni la distanza minima di dieci metri tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti non potrebbe che riferirsi esclusivamente alle pareti munite di finestre qualificabili come “vedute”, senza ricomprendere quelle sulle quali si aprono finestre cosiddette “lucifere” (Cass. 20 dicembre 2016, n. 26383).

7. Con il sesto motivo si lamenta violazione degli artt. 4 e 111 Cost., nonchè degli artt. 873 c.c. e segg., per il carattere sproporzionato della misura disposta.

La censura è evidentemente assorbita in ragione dell’accoglimento del quarto e del quinto motivo.

8. Va, da ultimo, disattesa l’istanza di cancellazione, ai sensi dell’art. 89 c.p.c., delle espressioni contenute nel controricorso e ricordate dalla ricorrente nelle due memorie depositate ai sensi dell’art. 378 c.p.c. (“le deduzioni della ricorrente non sono accettabili e a nostro parere dimostrano ancora una volta l’assoluta ignoranza circa l’esatto oggetto della domanda”; e “Infatti va da sè che ancora una volta parte ricorrente non riesce a comprendere anche per le concordi pronunce della Suprema Corte, che le norme sulle distanze tra fabbricati, in pratica hanno determinato implicitamente l’osservanza dai confini”).

Tali espressioni, infatti, non risultano dettate da un passionale e incomposto intento dispregiativo, ma si inseriscono, sia pure in termini energici, nella normale dialettica difensiva.

9. In conseguenza del disposto accoglimento, la sentenza impugnata va cassata con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Roma, che provvederà anche alla regolamentazione delle spese del giudizio di legittimità.

PQM

Rigetta la richiesta di cancellazione formulata ai sensi dell’art. 89 c.p.c.; rigetta i primi tre motivi del ricorso, accoglie il quarto e il quinto motivo, assorbito il sesto; in relazione al disposto accoglimento, cassa la sentenza impugnata e rinvia ad altra sezione della Corte d’appello di Roma, anche per la regolamentazione delle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 2 ottobre 2019.

Depositato in Cancelleria il 28 maggio 2020

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