Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 10040 del 27/04/2010

Cassazione civile sez. lav., 27/04/2010, (ud. 21/04/2010, dep. 27/04/2010), n.10040

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE LUCA Michele – Presidente –

Dott. LAMORGESE Antonio – Consigliere –

Dott. BANDINI Gianfranco – Consigliere –

Dott. MAMMONE Giovanni – Consigliere –

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 21252-2006 proposto da:

POSTE ITALIANE S.P.A., in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE MAZZINI 134, presso

lo studio dell’avvocato FIORILLO LUIGI, che la rappresenta e difende

unitamente all’avvocato GRANOZZI GAETANO, giusta mandato a margine

del ricorso;

– ricorrente –

contro

L.G., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA LUCIO

PAPIRIO 83, presso lo studio dell’avvocato AVITABILE ANTONIO,

rappresentata e difesa dagli avvocati BIAMONTE REMO, SACCO MASSIMO,

giusta mandato a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 134/2006 della CORTE D’APPELLO di CATANZARO,

depositata il 22/02/2006 r.g.n. 2038/04;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

21/04/2010 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE NAPOLETANO;

udito l’Avvocato FIORILLO LUIGI per delega GRANOZZI GAETANO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

FINOCCHI GHERSI Renato, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

 

Fatto

IN FATTO E DIRITTO

La Corte rilevato che:

il giudice d’appello di Catanzaro, confermando la sentenza di prime cure, ha dichiarato l’illegittimità del termine apposto al contratto di lavoro stipulato a norma dell’art. 25, comma 2, del c.c.n.l. 11 gennaio 2001, per il periodo dal 4 giugno 2001 al 30 settembre 2001, fra il lavoratore in epigrafe da una parte, e Poste Italiane s.p.a.

dall’altra;

per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso la Poste Italiane s.p.a. affidato a quattro motivi; il lavoratore ha resistito con controricorso;

la Corte territoriale, ha premesso che per la stipula del singolo contratto a termine sulla base della citata previsione collettiva, al fine di non ricadere nella nullità connessa al rispetto del principio di tassatività e tipicità delle ipotesi derogatorie, e per consentire un controllo non solo formale, ma anche sostanziale della legittimità del ricorso a tale tipologia di contratto doveva essere fornita dal datore di lavoro la relativa prova, ha affermato la nullità del termine ad esso apposto difettando siffatta prova;

la suddetta impostazione è stata ampiamente censurata dalla società ricorrente;

il motivo relativo alla questione della risoluzione del rapporto per mutuo consenso è infondato; questa Corte ha avuto modo di precisare che nel giudizio instaurato ai fini del riconoscimento della sussistenza di un unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato, sul presupposto dell’illegittima apposizione al contratto di un termine finale ormai scaduto, affinchè possa configurarsi una risoluzione del rapporto per mutuo consenso, è necessario che sia accertata – sulla base del lasso di tempo trascorso dopo la conclusione dell’ultimo contratto a termine, nonchè del comportamento tenuto dalla parti e di eventuali circostanze significative – una chiara e certa comune volontà delle parti medesime di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo; la valutazione del significato e della portata del complesso di tali elementi di fatto compete al giudice di merito, le cui conclusioni non sono censurabili in sede di legittimità se non sussistono vizi logici o errori di diritto (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito, che aveva considerato la mera inerzia del lavoratore, per un periodo di oltre tre anni dopo la scadenza, insufficiente a ritenere sussistente una risoluzione del rapporto per mutuo consenso) (V. per tutte Cass. 10 novembre 2008 n. 26935); analogamente nella presente fattispecie la Corte del merito ha ritenuto, con motivazione congrua, che la mera inerzia del lavoratore è di per se insufficiente per configurare una risoluzione del rapporto per mutuo consenso;

le censure relative all’erronea interpretazione dell’art. 25 ccnl 2001 sono fondate; quanto al merito delle critiche in esame deve premettersi, in linea generale, che la L. 28 febbraio 1987, n. 56, art. 23 nel demandare alla contrattazione collettiva la possibilità di individuare – oltre le fattispecie tassativamente previste dalla L. 18 aprile 1962, n. 230, art. 1 e successive modifiche nonchè dal D.L. 29 gennaio 1983, n. 17, art. 8 bis convertito con modificazioni dalla L. 15 marzo 1983, n. 79 – nuove ipotesi di apposizione di un termine alla durata del rapporto di lavoro, configura una vera e propria delega in bianco a favore dei sindacati, i quali, pertanto, non sono vincolati all’individuazione di figure di contratto a termine comunque omologhe a quelle previste per legge (principio ribadito dalle Sezioni Unite di questa Suprema Corte con sentenza 2 marzo 2006 n. 4588), e che in forza della sopra citata delega in bianco le parti sindacali hanno individuato, quale ipotesi legittimante la stipulazione di contratti a termine, quella di cui al citato art. 25 del c.c.n.l. 11 gennaio 2001;

questa Corte (cfr., ad esempio, Cass. 20 aprile 2004 n. 9245) decidendo su una fattispecie analoga a quella in esame (contratto a termine stipulato ai sensi dell’accordo integrativo del 25 settembre 1997) ha affermato che, quale conseguenza della suddetta delega in bianco conferita dal citato art. 23, i sindacati, senza essere vincolati alla individuazione di figure di contratto a termine comunque omologhe a quelle previste per legge, possono legittimare il ricorso al contratto di lavoro a termine per causali di carattere oggettivo ed anche – alla stregua di esigenze riscontrabili a livello nazionale o locale – per ragioni di tipo meramente “soggettivo”, costituendo l’esame congiunto delle parti sociali sulle necessità del mercato idonea garanzia per i lavoratori e per un’efficace salvaguardia dei loro diritti;

nel caso di specie la sentenza impugnata, ha dato un’interpretazione dell’art. 25 del c.c.n.l. 11 gennaio 2001 secondo la quale il semplice richiamo alle esigenze non è sufficiente a legittimare le assunzioni a termine in quanto occorre dimostrare la sussistenza di dette esigenze;

siffatta interpretazione è affetta dai denunciati vizi di violazione dell’art. 1362 e segg. cod. civ. e di motivazione: in primo luogo, la formulazione letterale della disposizione contrattuale non contiene elementi idonei ad esprimere il riscontrato significato riduttivo, nè la sentenza del resto, ha compiuto alcun tentativo per individuarli;

appare peraltro decisivo il rilievo che, come si desume agevolmente dal complesso delle considerazioni svolte in motivazione, il presupposto interpretativo, pur non esplicitato, è che soltanto così intesa la clausola collettiva sarebbe conforme a legge (art. 1367 cod. civ.); la sentenza, quindi, si muove pur sempre nella prospettiva che il legislatore non avrebbe conferito una delega in bianco ai soggetti collettivi, imponendo al potere di autonomia i limiti ricavabili dal sistema di cui alla L. n. 230 del 1962;

l’interpretazione dell’accordo è stata, perciò, condizionata dal pregiudizio che le parti stipulanti non avrebbero potuto esprimersi considerando le specificità di un settore produttivo (quale deve considerarsi il servizio postale, nella situazione attuale di affidamento ad un unico soggetto) e autorizzando Poste Italiane s.p.a. a ricorrere (nei limiti della percentuale fissata) allo strumento del contratto a termine, senza altre limitazioni, con giustificazione presunta del lavoro temporaneo; questo “pregiudizio”, erroneo alla stregua del principio di diritto sopra enunciato spiega la mancanza di qualsiasi motivazione che giustifichi realmente l’interpretazione secondo cui l’accordo sindacale avrebbe autorizzato la stipulazione dei contratti di lavoro a termine solo nella sussistenza concreta di un collegamento tra l’assunzione del singolo lavoratore e le esigenze concrete richiamate per giustificare l’autorizzazione; al riguardo, elementi utili per l’interpretazione si sarebbero potuto ricavare dal successivo (di pochi giorni) accordo 18 gennaio 2001 col quale le OO.SS. … convengono ancora che i citati processi, tuttora in corso, saranno fronteggiati in futuro anche con il ricorso a contratti a tempo determinato, i stipulati nel rispetto della nuova disciplina pattizia delineata dal c.c.n.l.

11.1.2001 per ricostruire in modo coerente l’intenzione delle parti quanto alla portata dell’autorizzazione stessa; ritenuto, per le ragioni fin qui esposte, che l’unica interpretazione corretta della norma collettiva in esame sia quella secondo cui, stante l’autonomìa di tale ipotesi, non è necessario che il contratto individuale contenga specificazioni ulteriori rispetto a quelle menzionate nella norma collettiva, viene a cadere l’unica ragione per cui l’apposizione del termine al contratto in esame è stata ritenuta illegittima;

con riferimento alla causale della “necessità di espletamento del servizio in concomitanza di assenze per ferie nel periodo giugno – settembre” questa Corte, del resto, ha ritenuto che non è necessario che siano allegate e provate circostanze ulteriori (cfr., fra le altre, sulla ipotesi collettiva de qua Cass. 6-3-2008 n. 6052, nonchè, sulla analoga ipotesi precedentemente prevista dall’art. 8 del ccnl 1994, fra le altre, Cass. 6-12-2005 n. 26678, Cass. 2-3-2007 n. 4933);

che nella specie l’assunzione a termine è avvenuta ai sensi dell’art. 25 ccnl del 2001,e l’esplicito richiamo ad entrambe le causali ivi previste, come ritenuto da questa Corte, non è contraddittorio (sulla possibilità del concorso di più ragioni legittimanti indicate dalle parti cfr. da ultimo Cass. 17-6-2008 n. 16396); conclusivamente quindi il ricorso va parzialmente accolto con cassazione della impugnata sentenza; non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto sussistono i presupposti di cui all’art. 384 c.p.c., comma 2 per decidere la causa nel merito e per l’effetto per rigettare la domanda del ricorrente in primo grado; la natura delle questioni trattate e il diverso orientamento espresso dai giudici di merito giustificano la compensazione delle spese dell’intero processo.

P.Q.M.

La Corte accoglie parzialmente il ricorso, cassa l’impugnata sentenza e decidendo nel merito rigetta l’originaria domanda di L. G. e compensa tra le parti le spese dell’intero processo.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 21 aprile 2010.

Depositato in Cancelleria il 27 aprile 2010

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