Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 10034 del 28/05/2020

Cassazione civile sez. VI, 28/05/2020, (ud. 12/12/2019, dep. 28/05/2020), n.10034

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 3

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FRASCA Raffaele – Presidente –

Dott. CIGNA Mario – Consigliere –

Dott. SCRIMA Antonietta – Consigliere –

Dott. VINCENTI Enzo – rel. Consigliere –

Dott. TATANGELO Augusto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 30307-2018 proposto da:

C.D., elettivamente domiciliato in ROMA, CORSO VI1fORIO

EMANUELE II 269, presso lo studio dell’avvocato ROMANO VACCARELLA,

che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato LUCA GRATTERI;

– ricorrente –

contro

A.G.E.A., in persona del Presidente pro tempore, elettivamente

domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA

GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende ope legis;

– controricorrente –

contro

C.C., C.A., C.L.;

– intimati –

contro

EREDITA’ GIACENTE DI CO.CA., in persona del Curatore pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la

CORTE DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato GIOVANNI

TAIANI;

– resistente –

avverso l’ordinanza n. 11765/2018 della CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

di ROMA, depositata il 15/05/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata del 12/12/2019 dal Consigliere Relatore Dott. ENZO

VINCENTI.

Fatto

RITENUTO

che, con ricorso per revocazione affidato ad un unico motivo, C.D. ha impugnato l’ordinanza della Corte di cassazione di Roma, III Sezione Civile, n. 11765 resa pubblica in data 15 maggio 2018, che ne rigettava il ricorso avverso la sentenza n. 171/2016 della Corte d’appello di Catanzaro, la quale, a sua volta, in totale riforma della sentenza del Tribunale di Catanzaro, lo condannava, in solido con gli altri eredi di C.F. ( C.C., C.A. e C.L.) e Co.Ca., nonchè in proprio, al pagamento della somma di Euro 14.320.731,29 (limitando la solidarietà passiva della condanna in proprio alla somma di Euro 5.187.900,42), a titolo di risarcimento del danno in favore dell’A.G.E.A.;

che la Corte di Cassazione, per quanto in questa sede ancora rileva, specificatamente osservava che il secondo motivo di ricorso (vertente sull’errore della Corte territoriale – denunciato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4, per violazione del combinato disposto dell’art. 125 disp. att. c.p.c., artt. 170, 303 e 307 c.p.c., – consistito nel non rilevare l’inesistenza della notificazione del ricorso in riassunzione dell’A.G.E.A. nei confronti di C.D., “essendo stato notificato l’atto di riassunzione a un soggetto diverso dal procuratore del destinatario costituito in giudizio”) era (al pari del primo) inammissibile, in quanto – premessa la necessità di rispettare le prescrizioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, – con esso era stato “omesso di fornire alcuna idonea e completa indicazione (e relativa allegazione) circa gli atti e i documenti (e il relativo contenuto) comprovanti il ricorso effettivo” del predetto errore, “con ciò precludendo a questa Corte di apprezzare la concludenza” della censura formulata al fine di giudicare la fondatezza del motivo di impugnazione.

che resiste con controricorso l’A.G.E.A., mentre ha depositato “memoria di costituzione” l’Eredità giacente di Co.Ca. chiedendo, al pari del ricorrente, la cassazione dell’ordinanza n. 11765/2018 di questa Corte; non hanno, invece, svolto attività difensiva in questa sede C.C., C.A. e C.L., quali eredi di C.F.;

che la proposta del relatore, ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c., è stata ritualmente comunicata, unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza in camera di consiglio, in prossimità della quale il ricorrente ha depositato memoria.

Diritto

CONSIDERATO

che, con l’unico motivo di ricorso è denunciata, ai sensi dell’art. 391-bis c.p.c., e art. 395 c.p.c., n. 4, l’erronea percezione del fatto processuale in cui sarebbe incorsa questa Corte, con l’ordinanza n. 11765/2018, rappresentando “un vero e proprio abbaglio” la pretesa di allegare al ricorso l’atto di riassunzione notificato a soggetto diverso dal procuratore del destinatario costituito in giudizio, essendo una tale pretesa “evidentemente inesigibile” poichè detto atto non era mai entrato nella disponibilità di esso C., rimasto contumace nel grado di appello, per cui, al momento della redazione del ricorso per cassazione, era impossibile conoscere il “dove e quando l’atto mai notificatogli è stato prodotto in giudizio” e così provvedere alla “puntuale indicazione” di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4, e alla relativa allegazione al ricorso, essendo l’atto anzidetto presente solo nel fascicolo di parte dell’A.G.E.A. (e, quindi, rinvenibile solo dopo il deposito del ricorso per cassazione oggetto di decisione da parte dell’ordinanza n. 11765/2018)

Il motivo è inammissibile.

L’errore revocatorio, previsto dall’art. 395 c.p.c., n. 4, deve consistere in un errore di percezione dei fatti di causa e deve avere rilevanza decisiva, oltre a rivestire i caratteri dell’assoluta evidenza e della rilevabilità sulla scorta del mero raffronto tra la sentenza impugnata e gli atti documentali del giudizio, senza che si debba ricorrere all’utilizzo di argomentazione induttive o a particolari indagini che impongono una ricostruzione interpretativa degli atti medesimi. (Cass., S.U., n. 561/2000; tra le altre, per tutte: Cass., n. 4295/2005; Cass., n. 23856/2008; Cass., S.U., n. 4413 /2016; Cass., n. 7795/2018).

In particolare, l’istanza di revocazione di una sentenza della Corte di cassazione, proponibile ai sensi dell’art. 391-bis c.p.c., implica, ai fini della sua ammissibilità, un errore di fatto riconducibile all’art. 395 c.p.c., comma 1, n. 4, e che consiste in un errore di percezione, o in una mera svista materiale, che abbia indotto il giudice a supporre l’esistenza (o inesistenza) di un fatto decisivo, che risulti, invece, in modo incontestabilmente escluso (o accertato) in base agli atti e ai documenti di causa, sempre che tale fatto non abbia costituito oggetto di un punto controverso su cui il giudice si sia pronunciato: l’errore in questione presuppone, quindi, il contrasto fra due diverse rappresentazioni dello stesso fatto, delle quali una emerge dalla sentenza, l’altra dagli atti e documenti processuali, semprechè la realtà desumibile dalla sentenza sia frutto di supposizione e non di giudizio, formatosi sulla base di una valutazione (v. tra le tante, Cass., n. 3190/2006; Cass., n. 17443/2008; Cass., sez. un., n. 26022/2008; Cass., n. 16447/2009; Cass., n. 22171/2010; Cass., sez. un., n. 13181/2013; Cass., n. 442/2018; Cass. n. 10184/2018).

L’errore di fatto non è, quindi, ravvisabile nell’ipotesi di errore costituente il frutto di un qualsiasi apprezzamento delle risultanze processuali, ossia di una valutazione delle prove o delle allegazioni delle parti, essendo esclusa dall’area degli errori revocatori la sindacabilità di errori di giudizio formatosi sulla base di una valutazione.

Non è, quindi, configurabile, nella specie, un errore revocatorio nel giudizio espresso da questa Corte nell’impugnata ordinanza n. 11765/2018 in ordine al rilievo sul mancato rispetto degli oneri imposti dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, per aver omesso gli allora ricorrenti (tra cui C.D.) di fornire alcuna idonea e completa indicazione (e relativa allegazione) circa gli atti e i documenti (e il relativo contenuto) comprovanti l’avvenuta notificazione dell’atto di riassunzione a soggetto diverso rispetto al procuratore del destinatario costituitosi in giudizio.

Difatti, – non essendo oggetto di denuncia in questa sede l’erronea percezione sul declinato contenuto del motivo di ricorso, ossia sulla circostanza che esso, contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte, indicasse e quindi allegasse (assumesse di allegare) “gli atti e i documenti (e il relativo contenuto) comprovanti il ricorso effettivo degli errori” (p. 6 sentenza), ma denunciandosi, come errore ex art. 395 c.p.c., comma 1, n. 4, il fatto che la stessa Corte abbia preteso l’assolvimento di oneri processuali “inesigibili”, ossia indicazione e allegazioni (asseritamente) impossibili per il ricorrente – la doglianza investe non già l’erronea percezione di un fatto, bensì una attività valutativa (insuscettibile in quanto tale – quand’anche risulti, in via di mera ipotesi, errata – di revocazione) rappresentata dalla applicazione delle prescrizioni imposte dalle norme processuali di cui agli artt. 366 e 369 c.p.c., ad una fattispecie, quella materialmente dedotta, rispetto alla quale si assume che quelle stesse norme non avrebbero potuto trovare applicazione.

La memoria di parte ricorrente – che insiste ad ascrivere il dedotto errore revocatorio alla “presupposizione” che la parte potesse assolvere ad oneri di allegazione e produzione sebbene non avesse la disponibilità materiale dell’atto processuale implicato – non fornisce argomenti idonei a scalfire le considerazioni che precedono.

Il ricorso va, dunque, dichiarato inammissibile e il ricorrente condannato al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, come liquidate in dispositivo, in favore della controricorrente A.G.E.A..

Vanno, invece, interamente compensate le anzidette spese tra il ricorrente e l’Eredità giacente di Co.Ca. in ragione della identità di posizioni difensive, mentre non occorre provvedere al riguardo nei confronti della parte rimasta soltanto intimata.

PQM

dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità in favore della controricorrente A.G.E.A., che liquida in Euro 14.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge;

compensa interamente dette spese tra il ricorrente e l’Eredità giacente di Co.Ca..

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del citato art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della VI-3 Sezione civile della Corte suprema di Cassazione, il 12 dicembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 28 maggio 2020

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