Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 10033 del 27/04/2010

Cassazione civile sez. lav., 27/04/2010, (ud. 25/03/2010, dep. 27/04/2010), n.10033

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LAMORGESE Antonio – Presidente –

Dott. IANNIELLO Antonio – Consigliere –

Dott. MAMMONE Giovanni – Consigliere –

Dott. ZAPPIA Pietro – Consigliere –

Dott. MELIADO’ Giuseppe – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 24926/2006 proposto da:

POSTE ITALIANE S.P.A., in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE MAZZINI 134,

presso lo studio dell’avvocato FIORILLO LUIGI, che la rappresenta e

difende unitamente all’avvocato DE LUCA TAMAJO RAFFAELE, giusta

mandato a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

R.A., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA FLAMINI A 195,

presso lo studio dell’avvocato VACIRCA SERGIO, che lo rappresenta e

difende unitamente all’avvocato LALLI CLAUDIO, giusta mandato a

margine del controricorso;

– controricorrente –

e contro

C.F.;

– intimata –

avverso la sentenza n. 4649/2005 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI,

depositata il 13/09/2005 R.G.N. 9491/04 + 1;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

25/03/2010 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE MELIADO’;

udito l’Avvocato FIORILLO LUIGI; udito l’avvocato VACIRCA SERGIO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

MATERA Marcello, che ha concluso che ha concluso per:

inammissibilità per C., accoglimento per R.A..

 

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza in data 21.6/13.9.2005 la Corte di appello di Napoli, in riforma della sentenza resa dal Tribunale di Avellino il 17.12.2003/7.1.2004, impugnata da R.A. e C.F., dichiarava sussistere fra le Poste Italiane e i predetti un rapporto di lavoro a tempo indeterminato a decorrere dal 2.2.2002 per il R. e dal 19.7.2002 per la C..

Osservava in sintesi la corte territoriale che, essendo il rapporto contrattuale regolato in via esclusiva dal D.Lgs. n. 368 del 2001, per poter ottemperare ai requisiti prescritti da tale normativa, che, fra l’altro escludeva ogni ipotesi di autonoma intermediazione da parte degli organismi sindacali, dando esclusivo rilievo alla sussistenza di specifiche e concrete esigenze aziendali idonee a legittimare il ricorso alla clausola di durata, risultava indispensabile che la società ricorrente enunciasse per iscritto, evitando ogni motivazione apparente o di stile, le concrete ragioni che, nel contesto spaziale e temporale nel quale aveva operato il dipendente, giustificavano l’assunzione a tempo determinato, laddove, invece, nel contratto stipulato fra le parti si era fatto ricorso a formule stereotipate e di circostanza, derivanti da apposite direttive generali, e nemmeno giustificate nel corso del giudizio.

Per la cassazione della sentenza propongono ricorso le poste Italiane con tre motivi, illustrati con memoria.

Resiste con controricorso R.A..

Non ha svolto attività difensiva C.F..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo la società ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione di norme di diritto (art. 360 c.p.c., n. 3) in relazione al D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 11, e art. 1362 c.c. e ss., nonchè vizio di motivazione ed omessa pronuncia su un punto decisivo (art. 360 c.p.c., nn. 4 e 5).

Rileva, al riguardo, che la corte territoriale aveva omesso di considerare che la nuova disciplina del contratto a termine non richiedeva, a differenza di quanto previsto nel passato, che le ragioni dell’assunzione a tempo determinato rivestissero carattere di straordinarietà ed eccezionalità, con la necessità di fornire una motivazione diversa e ulteriore rispetto a quella che conduce normalmente all’assunzione, e che, comunque, non si era valutato, omettendo l’esame degli accordi richiamati nella lettera di assunzione, che questi ultimi, regolamentando compiutamente il processo di ricollocazione (territoriale e professionale) delle risorse a tempo indeterminato, rappresentavano e comprovavano l’esigenza aziendale (sostanzialmente identica su tutto il territorio nazionale) posta a fondamento dell’assunzione. Con il secondo motivo, svolto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, la ricorrente denuncia vizio di motivazione, con riferimento alla omessa considerazione della causale relativa alla “necessità di espletamento del servizio in concomitanza di assenze per ferie…”, posta a base del contratto stipulato con la C..

Con l’ultimo motivo, infine,in via gradata, la ricorrente prospetta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, violazione dell’art. 12 disp. gen., art. 1419 c.c., D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 1, art. 115 c.p.c., nonchè vizio di motivazione, rilevando che la corte territoriale, erroneamente interpretando l’art. 1 cit., aveva ritenuto che la violazione di tale norma, per l’ipotesi della conclusione di un contratto a termine sorto in assenza dei relativi presupposti legali, comportasse, in evidente assonanza con quanto previsto dall’abrogata L. n. 230 del 1962, ed in analogia con quanto disposto dagli artt. 4 e 5 dello stesso decreto, una sanzione (la conversione del contratto a tempo indeterminato) non prevista dalla legge, pur essendo il ricorso all’analogia precluso dal principio generale espresso dall’art. 1419 cc..

1. Va preliminarmente dichiarato inammissibile il ricorso proposto dalla società ricorrente nei confronti di C.F..

Dal verbale di conciliazione prodotto in copia risulta che le parti hanno raggiunto un accordo transattivo in conformità alle previsioni degli accordi collettivi in tema di consolidamento dei rapporti di lavoro degli assunti a tempo determinato riammessi in servizio per ordine del Giudice del lavoro, in esito al quale la C. è stata assunta con contratto di lavoro a tempo indeterminato, rinunciando agli effetti giuridici ed economici della sentenza di riammissione in servizio, nonchè ad azionare ogni rivendicazione ricollegabile ad eventuali ulteriori rapporti intercorsi con la società,seppur diversi da quello preso a riferimento nella sentenza citata nel verbale medesimo, dandosi atto dell’intervenuta amichevole e definitiva conciliazione a tutti gli effetti di legge e dichiarando che – in caso di fasi giudiziali ancora aperte – le stesse saranno definite in coerenza con il presente verbale.

Osserva il Collegio che il suddetto verbale di conciliazione si palesa idoneo a dimostrare la cessazione della materia del contendere nel giudizio di cassazione ed il conseguente sopravvenuto difetto di interesse delle parti a proseguire il processo; alla cessazione della materia del contendere consegue, pertanto, la declaratoria di inammissibilità del ricorso in quanto l’interesse ad agire, e quindi anche ad impugnare, deve sussistere non solo nel momento in cui è proposta l’azione o l’impugnazione, ma anche nel momento della decisione, in relazione alla quale, ed in considerazione della domanda originariamente formulata, va valutato l’interesse ad agire (Cass. S.U. 29 novembre 2006 n. 25278, Cass. 13-7-2009 n. 16341). Nulla sulle spese, non avendo la C. svolto attività difensiva. 2. Con riferimento, invece, alla posizione di R.A., il ricorso appare meritevole di accoglimento nei limiti che saranno specificati.

2.1 Deve, al riguardo, innanzi tutto ribadirsi, quale necessario punto di partenza per la soluzione dei problemi posti nel caso in esame, che il D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 1, (applicabile nella fattispecie ratione temporis) ha senz’altro confermato (per come già affermato da questa Suprema Corte con le sentenze n. 12985/2008 e 2279/2010), pur anteriormente alla novellazione operata dalla L. n. 247 del 2007, art. 39, (“Il contratto di lavoro subordinato è stipulato di regola a tempo indeterminato”), il principio generale secondo cui il rapporto di lavoro subordinato è normalmente a tempo indeterminato, costituendo, pur sempre, l’apposizione del termine una ipotesi derogatoria rispetto al suddetto principio, anche in presenza di un sistema imperniato sulla previsione di una clausola generale (“ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo e sostitutivo”), che ha sostituito il precedente assetto normativo, fondato prima su un elenco tassativo e tipico di ipotesi autorizzative, ai sensi della L. n. 230 del 1962, e successivamente sulla “delega” alla contrattazione collettiva, ai sensi della L. n. 56 del 1987, art. 23.

Il che porta ad escludere, diversamente da quanto si sostiene in ricorso, che le esigenze ” di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo” (o, in altri termini, le esigenze aziendali) richiamate nella norma siano “sempre individuabili nel normale andamento dell’attività aziendale”, con la conseguenza che al datore di lavoro “non (sarebbe) più richiesto di motivare l’assunzione a termine fornendo una giustificazione diversa e ulteriore rispetto a quella che normalmente conduce all’assunzione”.

Ed, in realtà, per poter ritenere che il contratto a termine ed il contratto a tempo indeterminato risultino pienamente sovrapponibili e fungibili nella funzionalità tipologica e giuridica, rendendo puramente nominale la configurazione del contratto a termine come contratto speciale, si dovrebbe dimostrare che tale esito risulti compatibile con la portata letterale della disposizione del D.Lgs. n. 368, art. 1, ed, ancor prima, che la norma risulti isolabile dal contesto comunitario, e cioè dai principi posti dalla direttiva 1999/70/Ce e dall’allegato accordo quadro e dall’interpretazione che degli stessi ha fornito il giudice comunitario, pur assumendo, nel caso, l’interpretazione “comunitaria” valenza anche costituzionale ex art. 76 Cost., per essere la delega al governo (L. n. 422 del 2000, art. 1) strumentale e limitata all’emanazione delle norme necessarie a dare attuazione alla direttiva medesima. Sotto il primo aspetto, tuttavia, l’asserita “acausalità” del contratto a termine, pur nel nuovo quadro normativo, si pone in contrasto già con il tenore letterale stesso delle parole usate dal legislatore, che, per come ha già evidenziato questa Corte e lo stesso giudice delle leggi, ha inteso stabilire a carico del datore di lavoro un onere di puntuale specificazione delle ragioni che obiettivamente presiedono alla apposizione del termine, perseguendo la finalità di assicurare la trasparenza e la veridicità di tali ragioni, nonchè l’immodificabilità delle stesse nel corso del rapporto (così Corte Cost. n. 214/2009; Cass. n.2279/2010). Ed, in realtà, la previsione di specifici presupposti economici ed organizzativi e la necessità di una espressa motivazione in ordine alle ragioni che presiedono all’apposizione del termine resterebbero un mero flatus vocis ove il datore di lavoro potesse discrezionalmente determinare le cause di apposizione del termine, a prescindere da una specifica connessione fra la durata solo temporanea della prestazione e le esigenze produttive ed organizzative che la stessa sia chiamata ad attuare.

L’adozione di un diverso punto di vista interpretativo imporrebbe, del resto, di dimostrare la sua idoneità a garantire, alla luce delle precisazioni progressivamente offerte dalla Corte di giustizia, il risultato imposto dal diritto comunitario, che, fermo restando la discrezionalità di ciascun Stato membro nell’elaborazione della norma equivalente di diritto, obbliga, quale che sia la misura in concreto adottata, a realizzare l’effettiva prevenzione dell’utilizzazione abusiva di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato (così Corte giust. sentenza 23 aprile 2009, cause riunite da C – 378/07 a C – 380/07, Angelidaki e a., punti 80, 83,84, 94; sentenza 4 luglio 2006, causa C – 212/04, Adeneler e a., punto 101).

In tal contesto, si è precisato che “la nozione di “ragioni obiettive” ai sensi della clausola 5, n. 1 lett. a) dell’accordo quadro deve essere intesa nel senso che essa si riferisce a circostanze precise e concrete che contraddistinguono una determinata attività e, pertanto, tali da giustificare, in tale peculiare contesto, l’utilizzo di contratti di lavoro a tempo determinato successivi. Dette circostanze possono risultare, segnatamente, dalla particolare natura delle funzioni per l’espletamento delle quali sono stati conclusi i contratti in questione, dalle caratteristiche ad essi inerenti o, eventualmente, dal perseguimento di una legittima finalità di politica sociale di uno Stato membro” (sentenza Angelidaki, punto 96; v. anche sentenza Adeneler e a., punti 69, 70; sentenza 13 settembre 2007, causa C – 307/2005, Del Cerro Alonso, punto 53).

Con la conseguenza, fra l’altro, che deve ritenersi incompatibile con le finalità della direttiva il ricorso a contratti di lavoro a tempo determinato solo sulla base di una disposizione generale, in assenza di alcuna relazione con il contenuto concreto dell’attività considerata, che non consentirebbe di stabilire criteri oggettivi e trasparenti, idonei a verificare se la clausola di durata corrisponda ad un’esigenza reale e sia idonea a conseguire l’obiettivo perseguito e necessario a tale effetto (v. oltre alle già citate sentenze Adelener e a., punto 74, Del Cerro Alonso, punto 55, Angelidaki, punto 100, anche l’ordinanza 12 giugno 2008, causa C – 364/07, Vassilakis e a., punto 93), così come appare egualmente incompatibile con tali finalità che le esigenze cui rispondono i contratti a termine abbiano di fatto un carattere non già provvisorio, ma, al contrario, “permanente e durevole” (così fra le altre la sentenza Angelidaki, punti 103 e 106).

Ciò in quanto il principio, ora introdotto pure espressamente nel testo del D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 1, per cui “il contratto di lavoro subordinato è stipulato di regola a tempo indeterminato” (principio che è arduo concepire come una norma priva di “reale contenuto”) corrisponde, in realtà, con la premessa su cui si fonda l’accordo quadro stesso, vale a dire “che i contratti di lavoro a tempo indeterminato costituiscono la forma comune dei rapporti di lavoro, mentre i contratti di lavoro a tempo determinato rappresentano una caratteristica dell’impiego in alcuni settori o per determinate occupazioni e attività” e che, pertanto, il beneficio della stabilità dell’impiego deve essere inteso come un elemento portante della tutela dei lavoratori (così Corte giust. sentenza 22 novembre 2005, causa C – 144/04, Mangold, punto 64; sentenza Angelidaki, punto 104), laddove i contratti di lavoro a termine sono idonei a rappresentare sia le esigenze dei datori di lavoro che dei lavoratori “soltanto in alcune circostanze”.

2.2. Le considerazioni che precedono (che, alla luce dell’interpretazione fornita dalla Corte di giustizia, rivelano una portata generale e risultano riferibili, per la rilevanza che assume la clausola di c.d. non regresso, ad ogni aspetto della disciplina nazionale del contratto a termine, e, quindi, anche a quella del primo ed unico contratto : v. la sentenza Angelidaki, punti 120,121) valgono, pertanto, ad escludere che sussista una sostanziale fungibilità fra il contratto a termine ed il contratto a tempo indeterminato e che il lavoratore sia esentato da alcun onere probatorio (diverso o ulteriore rispetto a quello che normalmente conduce a qualsiasi assunzione) o,ancora, che il contenuto dello stesso si esaurisca nella dimostrazione di una ragione nè arbitraria, nè illecita, che, comunque, renda preferibile l’assunzione con contratto a termine, indipendentemente dalla puntuale specificazione di circostanze precise e concrete che contraddistinguono una particolare attività e che rendono conforme alle esigenze imprenditoriali, nell’ambito di un determinato contesto aziendale, la prestazione di lavoro a tempo determinato.

Nè a diverse conclusioni è possibile pervenire a seguito dell’integrazione apportata all’originario testo del D.Lgs. n. 368, art. 1, dalla L. n. 133 del 2008, art. 21, con la precisazione che la clausola di durata è apponibile anche quando le ragioni che ne costituiscono fondamento sono “riferibili all’ordinaria attività del datore di lavoro”, dal momento che la norma vale ad escludere che l’apposizione del termine sia consentita solo in presenza di circostanze connotate da eccezionalità ed imprevedibilità, e non anche di ragioni riferibili all’ordinaria e fisiologia attività dell’impresa, fermo restando la necessità che queste ultime evidenzino esigenze aziendali, puntualmente specificate nel contratto di assunzione, che possono essere soddisfatte, sulla base di criteri di normalità tecnico – organizzativa, con il ricorso alla clausola di durata, piuttosto che con l’ordinario contratto di lavoro.

2.3 In tal contesto, rilievo centrale assume l’obbligo della motivazione dell’assunzione a termine, che, a differenza di quanto avveniva con la disciplina previgente, si estende anche all’individuazione ed espressa enunciazione delle relative ragioni giustificatrici, con la previsione di un onere probatorio a carico del datore di lavoro, che,per essere funzionale ad assicurare la trasparenza e veridicità dell’opzione contrattuale, non può risolversi in formule pleonastiche o puramente ripetitive degli enunciati legali e contrattuali.

Ciò, tuttavia,non esclude, per come ha già ritenuto questa Suprema Corte in analoga fattispecie (cfr. Cass. n. 2279/2010), che l’esplicitazioni di tali ragioni possa risultare anche indirettamente dal contratto di lavoro, attraverso il riferimento ad altri testi scritti accessibili dalle parti, in particolare nel caso in cui, data la complessità e la articolazione del fatto organizzativo, tecnico o produttivo che è a base della esigenza di assunzione a termine, questo risulti analizzato in specifici documenti, specie a contenuto concertativo, richiamati nella causale di assunzione.

Nel caso in esame, il contratto di assunzione oltre a richiamare “esigenze tecniche, organizzative e produttive anche di carattere straordinario conseguenti a processi di riorganizzazione, ivi ricomprendendo un più funzionale riposizionamento di risorse sul territorio, pure derivanti da innovazioni tecnologiche, ovvero conseguenti all’introduzione e/o sperimentazione di nuove tecnologie, prodotti o servizi”, fa inoltre riferimento alla “attuazione delle previsioni di cui agli accordi del 17, 18 e 23 ottobre, 11 dicembre 2001”.

Deduce la società ricorrente che in questi ultimi “era stata riconosciuta, anche dalle stesse parti socialità sussistenza di una esigenza organizzativa oggettiva, l’esistenza del nesso intercorrente tra la stessa e l’assunzione a termine e la coerenza tra l’assunzione e la situazione aziendale” e che, nondimeno, il giudice di appello non aveva in alcun modo considerato, ai fini della decisione, tale prospettazione e i relativi documenti giustificativi.

Sotto questo aspetto il motivo appare fondato.

Ed in realtà, la corte territoriale ha limitato il proprio esame alle ragioni indicate nella prima parte della clausola riportata in seno al contratto di assunzione, ritenendole vaghe e meramente apparenti, ma non ha anche valutato l’incidenza che sulla posizione del dipendente potevano dispiegare gli accordi collettivi indicati nello stesso contratto, alla luce delle valutazioni motivatamente offerte dalla società ricorrente.

L’omissione di tale valutazione appare censurabile, in quanto deve rilevarsi che, seppur nel nuovo quadro normativo di cui al D.Lgs. n. 368 del 2001, alla contrattazione collettiva non spetti più un autonomo potere di qualificazione delle esigenze aziendali idonee a consentire l’assunzione a termine, tuttavia, la mediazione collettiva ed i relativi esiti concertativi restano pur sempre un elemento rilevante di rappresentazione delle esigenze aziendali in termini compatibili con la tutela degli interessi dei dipendenti, con la conseguenza che gli stessi debbono essere attentamente valutati dal giudice ai fini della configurabilità nel caso concreto dei requisiti della fattispecie legale.

3. La causa va, pertanto, rinviata ad altro giudice di merito, che si individua nella stessa Corte di appello di Napoli in diversa composizione, la quale provvedere a riesaminarla, e regolamentare anche il carico delle spese, attenendosi al seguente principio di diritto.

“L’apposizione di un termine al contratto di lavoro, consentita dal D.Lgs. 6 settembre 2001, n. 368, art. 1, a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo, che devono risultare specificate, a pena di inefficacia, in apposito atto scritto, impone al datore di lavoro l’onere di indicare in modo circostanziato e puntuale, al fine di assicurare la trasparenza e la veridicità di tali ragioni, nonchè l’immodificabilità delle stesse nel corso del rapporto, le circostanze che contraddistinguono una particolare attività e che rendono conforme alle esigenze del datore di lavoro, nell’ambito di un determinato contesto aziendale, la prestazione a tempo determinato, si da rendere evidente la specifica connessione fra la durata solo temporanea della prestazione e le esigenze produttive ed organizzative che la stessa sia chiamata a realizzare e la utilizzazione del lavoratore assunto esclusivamente nell’ambito della specifica ragione indicata ed in stretto collegamento con la stessa. Spetta al giudice di merito accertare, con valutazione che, se correttamente motivata ed esente da vizi giuridici, resta esente dal sindacato di legittimità, la sussistenza di tali presupposti, valutando ogni elemento, ritualmente acquisito al processo, idoneo a dar riscontro alle ragioni specificatamente indicate con atto scritto ai fini dell’assunzione a termine, ivi compresi gli accordi collettivi intervenuti fra le parti sociali e richiamati nel contratto costitutivo del rapporto”.

4. Restano assorbiti il secondo motivo (in quanto riferibile solo alla posizione della C.), nonchè quello ulteriore proposto, in via gradata, dalla società ricorrente.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso proposto dalla società ricorrente nei confronti di C.F., accoglie per il resto il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese, alla Corte di appello di Napoli in diversa composizione.

Così deciso in Roma, il 25 marzo 2010.

Depositato in Cancelleria il 27 aprile 2010

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