Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 10031 del 15/05/2015


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Civile Sent. Sez. L Num. 10031 Anno 2015
Presidente: LAMORGESE ANTONIO
Relatore: DI CERBO VINCENZO

SENTENZA

sul ricorso 14767-2009 proposto da:
POSTE ITALIANE S.P.A. C.F. 97103880585, in persona del
legale rappresentante pro tempore, elettivamente
domiciliata in ROMA, VIA PO 25-B, presso lo studio
dell’avvocato ROBERTO PESSI, che la rappresenta e
difende giusta delega in atti;
– ricorrente –

2015

contro

420

SALVATORE PAOLA C.F. SLVPLA75E65A345W, elettivamente
domiciliata in ROMA, VIA FLAMINIA 195, presso lo
studio

dell’avvocato

SERGIO

VACIRCA,

che

la

Data pubblicazione: 15/05/2015

rappresenta e difende unitamente all’avvocato CLAUDIO
LALLI, giusta delega in atti;
– controricorrente

avverso la sentenza n. 1036/2008 della CORTE D’APPELLO
di L’AQUILA, depositata il 18/06/2008 r.g.n. 350/2007;

udienza del 28/01/2015 dal Consigliere Dott. VINCENZO
DI CERBO;
udito l’Avvocato BUTTAFOCO ANNA per delega verbale
PESSI ROBERTO;
udito l’Avvocato VACIRCA SERGIO;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. GIOVANNI GIACALONE, che ha concluso per
il rigetto del ricorso.

udita la relazione della causa svolta nella pubblica

14767.09

Udienza 28 gennaio 2015

Pres. A. Lamorgese
Est.

V. Di Cerbo

SENTENZA
La Corte

1. La Corte d’appello gi4 degli Abruzzi – L’Aquila, in riforma della sentenza di prime
cure, ha dichiarato l’illegittimità del termine apposto al contratto di lavoro, con
decorrenza 1 giugno 1998, stipulato da Poste Italiane s.p.a. con Paola Salvatore
e per I ‘effetto ha dichiarato la sussistenza, tra le parti, di un rapporto di lavoro
subordinato a tempo indeterminato; ha condannato altresì Poste Italiane s.p.a. al
pagamento, a favore della lavoratrice, delle retribuzioni maturate a decorrere dal
21 marzo 2003 detratto l’aliunde perceptum oltre accessori di legge.
2.

Per la cassazione di tale sentenza Poste Italiane s.p.a. ha proposto ricorso affidato
a quattro motivi illustrati da memoria; la lavoratrice ha resistito con controricorso
pure illustrato da memoria.

3.

Il Collegio ha disposto che sia adottata una motivazione semplificata.

4.

Paola Salvatore è stata assunta con un contratto a termine protrattosi dal 10
giugno 1998 al 30 settembre 1998; tale contratto è stato stipulato a norma
dell’art. 8 del c.c.n.l. 26 novembre 1994 nella parte in cui prevede, quale ipotesi
legittimante la stipulazione di contratti a termine, la necessità di espletamento del
servizio in concomitanza di assenze per ferie nel periodo giugno settembre.

5.

La Corte territoriale ha ritenuto illegittimo il termine apposto al primo contratto;
premesso che la citata norma contrattuale ha fissato, in ottemperanza a quanto
previsto dall’art. 23 della legge n. 56 del 1987, al 10% la quota percentuale
massima del numero di lavoratori assunti con contratto a termine rispetto a quello
dei lavoratori assunti a tempo indeterminato (c.d. clausola di contingentamento),
ha attribuito valore decisivo, ai fini della statuizione sull’illegittimità del termine, al
rilievo che Poste Italiane s.p.a., sulla quale, a fronte della contestazione del
lavoratore gravava il relativo onere, non aveva provato che l’assunzione in esame
era avvenuta nel rispetto della suddetta clausola. Sotto altro profilo ha rigettato
l’eccezione, proposta da Poste Italiane s.p.a., di risoluzione del rapporto per
mutuo consenso.

6.

La statuizione concernente l’illegittimità del termine apposto al contratto è stata
censurata con il primo e secondo motivo di ricorso, con i quali è stata denunciata
violazione degli artt. 2697 cod. civ., 421 e 437 cod. proc., nonché violazione della
legge n. 230 del 1962 e dell’art. 23 della legge n. 56 del 1987 e vizio di
motivazione. La società ricorrente contesta, in particolare, la statuizione della
sentenza impugnata nella parte in cui attribuisce al datore di lavoro l’onere della
3

Rilevato che:

prova del rispetto dei limiti percentuali posti dalla disciplina contrattuale per le
assunzioni a termine. Ad avviso di Poste Italiane s.p.a., infatti, l’onere di provare il
rispetto della c.d. clausola di contingentamento incombe sul lavoratore che deve
dimostrare l’illegittimità della clausola appositiva del termine. In ogni caso il
mancato rispetto della suddetta clausola non comporterebbe, ad avviso della
ricorrente, l’illegittimità del termine apposto al contratto di lavoro in quanto
questo rientra in una fattispecie disciplinata dalla legge n. 230 del 1962, alla quale
non si applica la clausola di contingentamento.
La censura è infondata. In tema di prova dell’osservanza della percentuale dei
lavoratori da assumere a termine rispetto ai dipendenti impiegati dall’azienda con
contratto di lavoro a tempo indeterminato, questa Corte di legittimità (cfr., in
particolare, Cass. 19 gennaio 2010 n. 839 e, da ultimo, Cass. 19 gennaio 2013 n.
701) ha ripetutamente precisato il relativo onere è a carico del datore di lavoro, in
base alla regola esplicitata dall’art. 3 della legge n. 230 del 1962, secondo cui
incombe al datore di lavoro dimostrare l’obiettiva esistenza delle condizioni che
giustificano l’apposizione di un termine al contratto di lavoro. La sentenza
impugnata ha fatto corretta applicazione di tale principio. Quanto alla conclusione
della Corte territoriale circa la mancanza di prova del rispetto del requisito del
rispetto della clausola di contingentamento, essa è basata su motivazione priva di
vizi logici e quindi insindacabile in questa sede di legittimità. Non può infine
dubitarsi del fatto che il contratto di lavoro a termine stipulato in violazione della
clausola di contingentamento debba considerarsi illegittimo. L’illegittimità si evince
chiaramente non solo dalla formulazione dell’art. 23 della legge n. 56 del 1987
che stabilisce che “i contratti collettivi stabiliscono il numero in percentuale dei
lavoratori che possono essere assunti con contratto di lavoro a termine rispetto al
numero dei lavoratori impegnati a tempo indeterminato”, ma anche
dall’interpretazione sistematica di tale norma che fissa parametri rigidi per
l’individuazione delle fattispecie autorizzatorie. In tal senso si è espressa, del
resto, univocamente la giurisprudenza di legittimità (ivi compresa quella in
precedenza citata) la quale ha costantemente confermato le sentenze di merito
che avevano ritenuto illegittimo il contratto a termine stipulato in violazione della
clausola di contingentamento.
8.

Con il terzo motivo la società ricorrente censura – denunciando violazione dell’art.
1372, primo e secondo comma, cod. civ., nonché vizio di motivazione la
statuizione della sentenza impugnata che ha rigettato l’eccezione di risoluzione del
rapporto per mutuo consenso.

9.

La suddetta censura è infondata. Secondo l’insegnamento di questa Suprema
Corte (cfr., in particolare, Cass. 17 dicembre 2004 n. 23554), nel giudizio
instaurato ai fini del riconoscimento della sussistenza di un unico rapporto di
lavoro a tempo indeterminato (sul presupposto dell’illegittima apposizione al
relativo contratto di un termine finale ormai scaduto), per la configurabilità di una
risoluzione del rapporto per mutuo consenso è necessario che sia accertata – sulla
base del lasso di tempo trascorso dopo la conclusione dell’ultimo contratto a
termine, nonché alla stregua delle modalità di tale conclusione, del
comportamento tenuto dalla parti e di eventuali circostanze significative – una
chiara e certa comune volontà delle parti medesime di porre definitivamente fine
ad ogni rapporto lavorativo; la valutazione del significato e della portata del
4

7.

10. Con riferimento al profilo relativo alle conseguenze economiche della dichiarazione
di nullità della clausola appositiva del termine, si pone il problema dell’applicabilità
al caso di specie dello ius superveniens, rappresentato dall’art. 32, commi 5 0 , 6° e
7° della legge 4 novembre 2010 n. 183, in vigore dal 24 novembre 2010.
11.In proposito deve premettersi, in via di principio, che costituisce condizione
necessaria per poter applicare nel giudizio di legittimità lo ius superveniens che
abbia introdotto, con efficacia retroattiva, una nuova disciplina del rapporto
controverso, il fatto che quest’ultima sia in qualche modo pertinente rispetto alle
questioni oggetto di censura nel ricorso, in ragione della natura del controllo di
legittimità, il cui perimetro è limitato dagli specifici motivi di ricorso (cfr. Cass. 8
maggio 2006 n. 10547, Cass. 27 febbraio 2004 n. 4070); in tale contesto, è
altresì necessario che il motivo di ricorso che investe, anche indirettamente, il
tema coinvolto dalla disciplina sopravvenuta, oltre ad essere sussistente, sia
altresì ammissibile secondo la disciplina sua propria; ne consegue che, con
riferimento alla disciplina qui invocata, la necessaria sussistenza della questione
ad essa pertinente nel giudizio di cassazione presuppone che i motivi di ricorso
investano specificatamente le conseguenze patrimoniali dell’accertata nullità del
termine e che essi siano ammissibili; in particolare, ove, come nel caso in esame,
il ricorso sia stato proposto avverso una sentenza depositata successivamente alla
data di entrata in vigore del d.lgs. 2 febbraio 2006 n. 40, tali motivi devono
essere altresì corredati, a pena di inammissibilità degli stessi, dalla formulazione
di un adeguato quesito di diritto, ai sensi dell’art. 366-bis cod. proc. civ., ratione
temporis ad essi applicabile; in caso di assenza o di inammissibilità di una censura
in ordine alle conseguenze economiche dell’accertata nullità del termine, il rigetto
dei motivi inerenti tale aspetto pregiudiziale produce infatti la stabilità delle
statuizioni di merito relative a tali conseguenze.
12. Nel caso in esame il quarto motivo investe il tema al quale si riferisce la disciplina
di cui all’art. 32 prima citato.
13. Con tale motivo, con il quale è stata denunciata “violazione o falsa applicazione di
norme di diritto” e vizio di motivazione parte ricorrente lamenta, in particolare, la
violazione dei principi in tema di ripartizione dell’onere probatorio con riferimento
alla prova del danno. Il motivo si conclude con il seguente quesito di diritto ex art.
366 bis cod. proc. civ.: se in caso di domanda di risarcimento danni proposta dal
lavoratore a seguito dell’intervenuto scioglimento del rapporto di lavoro
determinatosi per effetto dell’iniziativa del datore fondata su clausola risolutiva
contrattuale nulla, rimane a carico dello stesso lavoratore, in qualità di attore,
l’onere di allegare e di provare il danno da scioglimento del rapporto fondato su
clausola risolutiva contrattuale nulla.

5

complesso di tali elementi di fatto compete al giudice di merito, le cui conclusioni
non sono censurabili in sede di legittimità se non sussistono vizi logici o errori di
diritto; nel caso in esame la Corte di merito ha ritenuto che, nel caso di specie, la
mera inerzia del lavoratore dopo la scadenza del contratto non fosse sufficiente, in
mancanza di ulteriori elementi di valutazione, a far ritenere la sussistenza dei
presupposti della risoluzione del rapporto per mutuo consenso e tale conclusione
in quanto priva di vizi logici o errori di diritto resiste alle censure mosse in ricorso.

15.11 ricorso va pertanto respinto.
16.AI rigetto del ricorso, consegue, per il principio della soccombenza, che le spese
del presente giudizio vengano poste a carico di parte ricorrente nella misura
liquidata in dispositivo. Le suddette spese devono essere liquidate in favore
dell’avv. Sergio Vacirca antistatario.

P.Q. M.
La Corte rigetta il ricorso; condanna parte ricorrente al pagamento delle spese del
giudizio di cassazione, liquidate in Euro 100,00 per esborsi e Euro 3500
(tremilacinquecento) per compensi professionali, oltre spese generali pari al 15% e
accessori di legge, da distrarsi a favore dell’avv. Sergio Vacirca antistatario.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 28 gennaio 2015.

14. Osserva il Collegio che il quesito sopra riportato risulta del tutto generico rispetto
alla fattispecie, in quanto si risolve nella enunciazione in astratto delle regole
vigenti nella materia senza enucleare il momento di conflitto rispetto ad esse del
concreto accertamento operato dai giudici di merito (cfr. Cass. 4 gennaio 2011 n.
80; Cass. 29 aprile 2011 n. 9583); ciò in contrasto con i principi enunciati da
questa Corte di legittimità (cfr., in particolare, Cass. S.U. 5 gennaio 2007 n. 36)
secondo cui il quesito di diritto, richiesto a pena di inammissibilità del relativo
motivo, deve essere formulato in maniera specifica e deve essere chiaramente
riferibile alla fattispecie dedotta in giudizio, dovendosi ritenere inesistente un
quesito generico e non pertinente, con conseguente inammissibilità del relativo
motivo, come nel caso di specie.

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